Lessico

sf. [sec. XIII; dal latino conscientía, conoscenza, da conscíus, consapevole].

1) Consapevolezza che l'uomo ha di se stesso, delle proprie azioni: “il primo svegliarsi d'una coscienza dentro il torpore della natura” (E. Cecchi); perder coscienza, venir meno, svenire; per estens., capacità di rendersi conto: non ha coscienza delle sue possibilità.

2) Conoscenza dei valori morali, sentimento del bene e del male: ascoltare la voce della coscienza; aver la coscienza tranquilla, pulita, non avere alcuna colpa da rimproverarsi; coscienza elastica, che scende facilmente a compromessi; mettersi la coscienza in pace, far tacere scrupoli o rimorsi; in coscienza, in tutta onestà: in coscienza non posso accettare; avere un peso sulla coscienza, sentirsi colpevole di qualche cosa; togliersi un peso dalla coscienza, riparare a una colpa, compiere un dovere; cattiva coscienza, stato di chi sa di essere in colpa; mettersi una mano sulla coscienza, fare appello al proprio senso morale per agire, per decidere qualche cosa; fare l'esame di coscienza, esaminare il proprio comportamento per giudicarlo moralmente; caso di coscienza, questione difficile da risolvere per le scelte morali che implica.

3) Coscienziosità, scrupolosità nell'adempimento del dovere: un medico di coscienza; metter coscienza nel proprio lavoro.

4) Sensibilità a certi fatti, a certi problemi: avere una coscienza nazionale, europea;coscienza di classe.

5) La facoltà del pensare, dello scegliere: libertà di coscienza; opprimere le coscienze, soffocarne la libertà di scelta.

Teologia

In teologia morale, giudizio pratico e immediato che l'intelletto, alla luce di principi morali generali, pronuncia sui singoli atti concreti. Essa è naturale, se si basa su norme di etica naturale; soprannaturale, se poggia invece sulla legge rivelata da Dio agli uomini. Rispetto ai principi morali cui s'ispira, la coscienza può essere vera, quando il suo giudizio coincide con i principi; falsa, se nel giudizio ne differisce e in questo caso sarà incolpevole o colpevole se il soggetto nel giudicare avrà messo o meno la necessaria diligenza. Nei confronti dell'assenso la coscienza può essere certa o dubbia: solo la coscienza certa può costituire regola vera di moralità per gli atti umani. § Matrimonio di coscienza (detto anche matrimonio occulto), il matrimonio canonico celebrato senza pubblicazioni e alla sola presenza del parroco (o sacerdote delegato dal vescovo). Il permesso per il matrimonio di coscienza è dato solo dall'ordinario e in casi rarissimi: per esempio per sanare una situazione di occulto concubinato, ritenuto dagli altri un matrimonio regolare. L'obbligo al segreto cessa in caso di scandalo o qualora uno o entrambi i coniugi tentino un nuovo matrimonio.

Filosofia

In generale, il rapporto dell'io interno con se stesso e per il quale egli può conoscersi e dare di sé un giudizio immediato e sicuro, scoprendovi nello stesso tempo il fondamento di ogni altra certezza. Nell'antichità, la parola coscienza (greco synéidesis), usata per designare il contrasto tra interiorità ed esteriorità, apparve la prima volta con lo stoicismo, che stabilì il privilegio della sfera dell'anima nei confronti del mondo delle cose. In una fondazione ontologica, il tema è al centro della speculazione neo-platonica. Il rapporto privato dell'uomo con se stesso, il ritorno a se stesso, vale per Plotino a rappresentare il volgersi a quella unità da cui emerge il molteplice del mondo sensibile; il raccogliersi in sé non è un ritiro dall'oggettività nella soggettività, ma anzi l'uscita dall'individualità frammentaria e il congiungimento dell'anima con la sua origine in Dio. Nel cristianesimo l'opposizione tra lo spirito e la carne, nella misura in cui la riduzione impersonale al centro del tutto propria del neoplatonismo è sostituita dall'affermazione del valore irriducibile dell'anima individuale, vale ancor più a indicare l'interiorità dell'uomo come luogo della Verità e della Vita. Dio è presente nell'uomo spirituale e a esso si rivela. Sant'Agostino è l'interprete del principio cristiano dell'inabitare della Verità nell'anima (immagine di essa). Il cristianesimo ha pure elaborato il concetto morale di coscienza con San TommasoEgli intende per coscienza (conscire) l'applicazione del sapere a un atto, per giudicare se c'è o non c'è, ma soprattutto se è retto o non lo è. In tal modo la coscienza è ciò mediante cui, sapendo della rettitudine delle azioni, si è spinti, anzi, obbligati, a compiere o non compiere un atto; oppure, esaminando un atto compiuto, si è scusati o accusati. Il passaggio al concetto speculativo moderno vero e proprio di coscienza è mediato dalla filosofia di Telesio e Campanella. Per quest'ultimo esiste una conoscenza innata di sé che tutte le cose hanno e che condiziona la conoscenza che acquisiscono delle altre cose. Ma è con Cartesio che la nozione di coscienza viene chiarita nei caratteri coi quali doveva essere accolta nella filosofia occidentale. Il cogito ergo sum è l'autoevidenza esistenziale del pensiero; circa i fatti del corpo non si ha certezza, ma circa gli stati interni (intendere, volere, immaginare, sentire) espressi dal termine cogito si ha certezza assoluta. Di vedere o camminare non si è sicuri (può trattarsi di qualcosa di simile al sogno), ma di sentire di vedere o di camminare si è sicuri perché la sicurezza è nella mente stessa che sente. La nozione di coscienza è qui definitivamente giunta a raccogliere tutta la sfera dell'io e ne è l'autoevidenza. L'io è ormai un'entità cui si contrappone il mondo esterno ed è un'entità assolutamente vera perché immediatamente presente a se stessa, a differenza del mondo che compare sempre nella sua mediazione. Così concepisce la coscienza Locke, per il quale il rapporto del soggetto con l'oggetto esterno cade interamente nella sfera della coscienza, la quale non attinge altro che idee; noi non conosciamo le cose, ma le loro idee, e la filosofia non fa un passo al di là della coscienza. Proprio questa espressione è adoperata da Hume per negare ogni esistenza esterna e ridurre la realtà a percezione. Parallelamente a tale dottrina empiristica della coscienza, la filosofia di Leibniz assume il concetto di coscienza (appercezione) in senso spiritualistico. L'intera vita della monade, che è sostanza spirituale, è interna a essa. È pensando a noi che pensiamo all'essere, alla sostanza, al semplice e al composto, all'immaterialità, a Dio stesso. Kant, avvalendosi della sua distinzione fra trascendentale ed empirico, ha cercato di superare il carattere puramente “interioristico” della coscienza, intendendo la coscienza di qualcosa come la presenza immancabile di qualche contenuto empirico. Avere coscienza di una rappresentazione è sempre aver coscienza empirica della propria esistenza, cioè essere determinati da qualcosa che non si identifica con noi. La concezione della coscienza come rapporto con l'esterno è stata ripresa su altre basi, in questo secolo, dalla fenomenologia. Per Husserl la coscienza è intenzionalità, cioè trascendimento nei confronti dell'oggetto. Essa è costituita di esperienze vissute (Erlebnisse), che sono la sua sostanza e posizione assoluta. Invece la filosofia romantica aveva concepito la totale immanenza della realtà nella coscienza. Per Hegel il filosofare, come elaborazione concettuale di quel contenuto iniziale che è la coscienza soggettiva – la quale in tale attività si fa verità assoluta, Spirito – è lo stesso processo della realtà che si fa realtà assoluta. È questo il concetto dell'autocoscienza, cioè di un principio che autocreandosi crea tutta la realtà. Lo spiritualismo del sec. XIX persegue dal canto suo l'ideale della coscienza come manifestazione dell'Infinito, sottolineando però il rapporto non necessario fra i due termini. L'esistenzialismo rappresenta invece una svolta radicale. Esso fa l'esperienza drammatica dell'impossibilità e pure della necessità del trascendimento della coscienza. Questo modo di vedere è condiviso da Jaspers, Sartre, Heidegger. Per quest'ultimo la trascendenza verso il mondo è l'essenza della soggettività stessa; trascendere è progettare un atteggiamento nel mondo. Ma il mondo ricomprende in sé il soggetto che si trova gettato così in esso e sottoposto alle sue condizioni. Di conseguenza la coscienza s'identificherà con il tentativo di mettersi in rapporto con qualcosa che è destinata allo scacco.

Psicologia

L'insieme dei processi psichici attraverso cui l'individuo riesce a organizzare il proprio comportamento intenzionale, mantenendo il controllo dei propri processi di pensiero e delle proprie attività conoscitive sull'ambiente (attenzione, vigilanza, attività percettive ed esplorative). Da un punto di vista neurofisiologico, lo stato di coscienza viene sostenuto da certe strutture a livello del sistema nervoso centrale, quali soprattutto la sostanza reticolare e il sistema talamico di proiezione. All'attivazione derivata da tali strutture corrispondono precisi indici neurofisiologici (elettroencefalografici, riflesso psicogalvanico, ecc.), che consentono di determinare lo stato di coscienza, nello stato di vigilanza, nel sonno, nel coma (in cui si ha abolizione della coscienza). Nella psicanalisi, il termine viene usato sia per designare il livello conscio della vita psichica, in contrapposizione a preconscio e inconscio, sia soprattutto per designare l'insieme delle norme comportamentali acquisite dal bambino nella strutturazione della sua personalità.

Sociologia

E. Durkheim interpreta la coscienza collettiva come il connotato socialmente assunto da contenuti e manifestazioni del pensiero, capace di prescindere dalle espressioni individuali, ma anche di condizionarle. La coscienza collettiva esprime, perciò, l'organizzazione stessa di una società e i suoi modelli di riferimento. M. Halbwachs – analizzando la memoria collettiva – si spinge a ritrovare tracce della coscienza comunitaria persino nel sogno. Critica verso la teoria marxiana – per cui l'essere sociale determina la coscienza di singoli e di gruppi, che si risolve a sua volta nella sola coscienza di classe –, la scuola antropologica francese (con Lévi-Strauss) ha cercato di dimostrare la sostanziale autonomia del pensiero collettivo nelle comunità primitive, evidenziando per esempio il significato del mito nella giustificazione dell'ordine sociale. La scuola storiografica interessata allo studio delle mentalità ha riproposto la questione in forma inedita, analizzando la trasformazione della coscienza comunitaria nel passaggio dalle strutture tradizionali alla modernità.

Bibliografia

H. Wallon, Nouveau traité de psychologie, Parigi, 1942; A. Gemelli, G. Zunini, Introduzione alla psicologia, Milano, 1947; G. Leclerck, La coscience du chrétien. Essai de théologie morale, Parigi, 1947; H. A. Abramson, Problems of Consciousness, New York, 1951-55; H. Ey, La conscience, Parigi, 1963; S. Privitera, La coscienza, Bologna, 1986.

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