Biografia

Filosofo tedesco (Königsberg 1724-1804). La vita e le opere di Kant portano l'impronta decisiva di una educazione (prima la madre e poi il pastore F. A. Schultz al Collegium Fridericianum) ispirata ai rigorosi principi del pietismo. Pochi i fatti di rilievo in una esistenza divenuta esemplare per metodicità e linearità: dal Collegium Fridericianum all'Università di Königsberg, dove ancor più che dall'illuminismo wolffianoKant si sentì attratto dalla fisica newtoniana. Sin dalla giovinezza Kant si era dedicato allo studio di problemi scientifici. Già nel 1747 egli pubblicò uno scritto sul problema allora assai dibattuto delle forze vive, tentando la conciliazione fra il punto di vista cartesiano e quello leibniziano. Nel 1755 pubblicò: Allgemeine Naturgeschichte und Theorie des Himmels, oder Versuch von der Verfassung und dem mechanischen Ursprunge des ganzen Weltgebäudes nach Newton'schen Grundsätzen abgehandelt (Storia generale e teoria del cielo, o ricerca intorno alla costituzione e all'origine meccanica dell'intero sistema del mondo condotta secondo i principi newtoniani); nonostante tale titolo, Kant si distacca da Newton su un punto fondamentale, in quanto sostiene che l'universo è spiegabile con il semplice ricorso alle leggi della natura senza fare appello al divino architetto come fa appunto Newton. Anche negli anni successivi Kant pubblicò molti scritti dedicati ai problemi della fisica, e in particolare della meccanica, oggi considerati assai più importanti che nel passato dalla storiografia kantiana per rintracciare il filo conduttore della filosofia di questo autore (per la teoria di Kant-Laplace, vedi cosmogonia). A Königsberg Kant trascorse alcuni anni come istitutore e bibliotecario e nel 1770 ottenne la cattedra di logica e metafisica di quella università. È questa una data particolarmente importante, perché la “dissertazione” (De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis) presentata in vista dell'ordinariato contiene le basi per lo sviluppo futuro della filosofia kantiana, tanto da segnare il passaggio dal cosiddetto periodo pre-critico a quello critico. Nel primo, Kant era passato da un atteggiamento dogmatico di tipo wolffiano nei confronti della metafisica a una posizione che, sotto l'influsso di Hume, assimilava la metafisica ai sogni di un visionario, dichiarandola priva di ogni fondamento. § Con la “dissertazione” del 1770 gli si fece chiaro un principio da cui la metafisica avrebbe tratto diversa luce e significato, il principio del carattere “trascendentale” della conoscenza, per cui essa, pur rimanendo entro i limiti dell'esperienza possibile, rivela forme indipendenti e condizionanti l'esperienza stessa. Certo queste forme, nella “dissertazione”, sono ancora soltanto lo spazio e il tempo, cioè le forme a priori della sensibilità, non dell'intelletto; e perciò manca ancora un'analoga ricerca sulle forme a priori dell'intelletto (in quanto ciò che vale per l'atto attraverso cui noi riceviamo gli oggetti non necessariamente vale anche per l'atto attraverso cui noi pensiamo gli oggetti stessi). E manca ovviamente (cosa che invece costituirà il problema di fondo della Kritik der reinen Vernunft; 1781, Critica della ragion pura) la giustificazione della nostra pretesa di oggettività nel rapporto di pensiero ed essere (problema della “deduzione trascendentale”), e la presentazione delle regole di applicabilità del pensiero all'essere (problema dello “schematismo trascendentale”). Tali e tante essendo le difficoltà lasciate aperte dalla “dissertazione”, si capisce come la Critica della ragion pura, annunciata nel 1772, abbia tardato quasi dieci anni ad apparire. Già la struttura di quest'opera è rivelatrice della sua articolazione concettuale. Essa si divide, innanzitutto, in un'Estetica trascendentale e in una Logica trascendentale: la prima per definire le forme a priori della sensibilità e la seconda le forme a priori dell'intelletto. Sono forme a priori della sensibilità, come Kant aveva già mostrato nella “dissertazione”, lo spazio e il tempo, perché solo nello spazio e nel tempo ci è data la possibilità di percepire gli oggetti. Sono invece forme a priori dell'intelletto le categorie, in quanto esse determinano il nostro modo di pensare, cioè di giudicare; ma se pensare significa giudicare, tante saranno le categorie quante le forme del giudizio, dodici, distribuite secondo i modi della quantità: unità, molteplicità, totalità; della qualità: realtà, negazione, limitazione; della relazione: inerenza e sussistenza (sostanza e accidente), causalità e dipendenza (causa ed effetto), comunanza (azione reciproca); della modalità: possibilità-impossibilità, esistenza-non esistenza, necessità-contingenza. Ora ciò che veramente distingue spazio e tempo da una parte, e categorie dall'altra, è il riferimento degli uni alla conoscenza in quanto passività, e il riferimento delle altre alla conoscenza in quanto attività. Questa distinzione deve tener presente chi voglia fare un retto uso delle nostre facoltà conoscitive, giacché la conoscenza è sempre nello stesso tempo attiva e passiva: passiva in quanto riceve il proprio contenuto dalla sensibilità; attiva in quanto unifica questo contenuto attraverso l'intelletto. Tuttavia è insita nella natura umana l'ineliminabile esigenza di assoluto, non solo in campo pratico (che, come si vedrà, si realizza positivamente), ma anche in campo teoretico. Ne conseguirà un indebito superamento dei limiti della conoscenza, che porta all'illusione. Ciò avviene quando le categorie, che di fatto sono indipendenti dall'esperienza, vengono applicate al di là di ogni possibile riferimento a essa. Per questo motivo nella Logica trascendentale accanto all'Analitica si troverà una Dialettica: e cioè, accanto alla ricerca dei fondamenti che rendono possibile la conoscenza, si troverà un esame delle illusioni in cui cade il conoscere non fondato. Ma prima di passare alla Dialettica, resta da chiarire il duplice e decisivo problema dell'Analitica: la giustificazione del rapporto di soggetto conoscente e di oggetto conosciuto e la presentazione delle regole per cui le categorie vengono applicate all'esperienza. Kant chiama “deduzione” quella giustificazione: ed è termine tratto dal linguaggio giuridico, in quanto sta a indicare il diritto dell'intelletto a imporre la propria legge a ciò che gli sta di fronte come altro da sé. La legge dell'intelletto è la legge dell'unificazione del molteplice. Alla domanda: come può avere valore di oggettività un'operazione del soggetto, Kant risponde: il soggetto fondante è a sua volta fondato sull'unità (“unità sintetica originaria della percezione” o “io penso”) che sta alla base di ogni possibile esperienza. Kant chiama invece “schematismo” la presentazione delle regole di applicabilità delle categorie. Schema è infatti quel prodotto dell'immaginazione che rende possibile l'immagine stessa, in altre parole la determinazione del rapporto fra le categorie e il materiale sensibile cui si applicano nella forma di principi generali dell'esperienza. Si hanno così gli assiomi dell'intuizione”, le “anticipazioni della percezione”, le “analogie dell'esperienza” e infine i “postulati del pensiero empirico in generale”. Tutto ciò vale dunque nei limiti dell'esperienza possibile. Ma quando questi limiti sono trascesi sì che viene a mancare il riferimento all'esperienza possibile, allora si cade nelle “inevitabili illusioni della ragione umana”. La psicologia razionale, la cosmologia razionale e la teologia razionale sono i tre prodotti di questa illusione: la prima trasforma surrettiziamente l'io trascendentale in una sostanza, e pretende poi di dimostrare l'immortalità dell'anima; la seconda considera il mondo come totalità, e dà luogo a irrisolvibili antinomie; la terza fa di Dio oggetto di speculazione teoretica, e si illude di poterne dimostrare l'esistenza. La Dialettica mostra perciò l'impotenza della ragione nel suo tentativo di accedere all'assoluto. Conoscibile, dice Kant, è soltanto il mondo dei fenomeni, il mondo che attraverso l'incontro di forme a priori e di oggetti dati si configura in una possibile esperienza. Inconoscibile è il mondo del noumeno, il mondo puramente intelligibile. Eppure proprio questo mondo, che è negato alla ragion pura, cioè alla ragione nel suo uso teoretico, costituisce il fondamento stesso della ragion pratica. Anche negli anni maturi del criticismo Kant continuò a occuparsi di problemi scientifici; nel 1786 pubblicò I primi principi metafisici della scienza della natura, dove affrontò il problema di una determinazione del concetto di materia in generale e di quello strettamente connesso di moto attraverso un'analisi di tipo fisico matematico. L'opera è divisa in quattro capitoli: foronomia, dinamica, meccanica e fenomenologia. Dal punto di vista della foronomia la materia è ciò che si muove in uno spazio determinato; dal punto di vista della dinamica è ciò che si muove in quanto riempie uno spazio vuoto e ha come proprietà caratteristica quella di resistere a un movimento in uno spazio determinato; dal punto di vista della meccanica la materia è ciò che si muove in quanto ha una forza motrice e può comunicare il movimento a un'altra materia. Nella fenomenologia la materia è ciò che si muove considerato come oggetto di esperienza. In tal modo è possibile provare che il moto circolare è un predicato reale della materia e che ogni moto di un corpo, mediante il quale il corpo stesso esercita un'azione motrice su di un altro, è necessariamente accompagnato da un movimento uguale e contrario del secondo corpo. Nel quadro della materia così intesa Kant ritiene di poter dimostrare le tre leggi fondamentali della meccanica dei corpi. Nonostante il carattere alquanto artificioso di molte delle argomentazioni qui riferite, quest'opera testimonia l'impegno di Kant nell'indagine sui fondamenti della scienza fisica e nella denunzia dei grossi equivoci contenuti nelle concezioni della fisica del suo tempo. Particolarmente rilevante è la critica al concetto newtoniano di spazio assoluto indispensabile “per rendere possibile l'esperienza la quale però deve essere in ogni caso posta senza di esso”. In quest'opera è altresì contenuta la teoria dinamista della materia contrapposta a quella atomistica; Kant riprende la vecchia concezione dello spazio continuo, riempito di una materia di densità infinitamente minore di quella dei corpi, l'etere, dove opererebbero due forze, una attrattiva e una repulsiva. Tale concetto che rappresenta uno sviluppo teorico del dinamismo fisico sarà ulteriormente approfondito nella fisica dell'Ottocento.

Critica della ragion pratica

Nel 1788 Kant pubblica la Kritik der praktischen Vernunft (Critica della ragion pratica), dove l'imperativo morale viene presentato come un fatto della ragione. Perché l'imperativo morale è un “fatto”? Perché non è deducibile da altro. Se lo fosse, non avrebbe più quel carattere di assolutezza che pure ha di fronte alla ragione, con evidenza immediata. Ora, se l'imperativo morale si rivela come assoluto, come incondizionato, come valevole sempre e comunque (nella forma “categorica”, in cui si presenta come fine a se stesso, e non in quella “ipotetica”, in cui si presenta invece come mezzo in vista di uno scopo), questo significa che l'unico motivo determinante di esso non possa essere altro che la pura forma della legge in quanto tale. Perciò Kant distingue la sua etica da quelle basate su motivi determinanti “materiali”, siano essi fatti dipendere dall'educazione o dalla società, dal sentimento o dalla volontà di Dio. All'“eteronomia” dei principi etici materiali Kant oppone l'“autonomia” di un principio puramente formale: il quale dunque si può esprimere così: “opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere come principio di una legislazione universale”. La prima importante conseguenza di questo principio – dice Kant – è che il concetto del bene e del male può soltanto essere determinato dalla legge morale, e non viceversa. A questo proposito Kant distingue il “bene supremo” e il “bene sommo”. Il primo consegue da un'attività morale che non ha altro scopo all'infuori di sé, e dunque s'identifica con la virtù; il secondo risponde all'esigenza di compiuta perfezione per l'essere finito, e dunque è insieme virtù e felicità. Ma proprio perché finito, è impossibile (e l'esperienza quotidiana lo conferma) che l'uomo ottenga la felicità in premio della propria virtù. L'idea di Dio viene reintrodotta da un punto di vista pratico (si tratta però di un “postulato” della ragione, di una sua pura esigenza, non di un concetto), una realtà al di fuori di ogni possibile esperienza. Lo stesso si può dire per l'immortalità dell'anima. In quanto finita, la volontà dell'uomo non può mai essere “santa”, cioè tale da seguire spontaneamente l'imperativo morale. Perciò la perfezione si dà all'uomo in un progresso all'infinito: progresso dunque che soltanto l'immortalità dell'anima può giustificare. Ma accanto a Dio e all'anima c'è ancora un'altra realtà che la ragione postula necessariamente nel suo uso pratico: la realtà della libertà, realtà prima, si può dire, nella misura in cui è la condizione stessa dell'agire morale: dato l'imperativo come “fatto”, ne consegue la libertà come “presupposto”. Veramente, il mondo della ragion pratica è il mondo della libertà.

Critica della ragion pura

Se la Critica della ragion pratica tenta di radicare l'esistenza dell'uomo nel mondo della libertà, dopo che la Critica della ragion pura aveva tentato di fondare l'esperienza in generale nel mondo della necessità, la Kritik der Urtheilskraft (1790; Critica del giudizio) si propone invece una sorta di conciliazione di libertà e necessità. Secondo Kant il giudizio, cioè la facoltà di giudicare, può esercitarsi tanto in base a un principio puramente intellettuale quanto in base a un principio puramente sentimentale: nel primo caso si avranno giudizi “determinanti”, cioè tali da costituire gli oggetti cui si applicano, e nel secondo si avranno invece giudizi “riflettenti”, cioè tali da mostrare non tanto la legge cui gli oggetti sono sussunti quanto l'accordo della legge con l'esigenza di libertà. A loro volta, i giudizi riflettenti si distinguono in “estetici” e in “teleologici”. I giudizi estetici sono quelli in cui l'accordo è esperito tramite il sentimento del bello (e tramite quella variante di esso che è il sentimento del sublime); i giudizi teleologici sono quelli in cui l'accordo è esperito tramite il concetto di fine. Ma come è possibile che un principio di ordine sentimentale valga universalmente, aprioristicamente? A condizione – risponde Kant – che bellezza e finalità siano valutate in base alla pura forma dell'oggetto, cioè al piacere suscitato dalla coscienza dell'accordo (accordo immediato nel caso del giudizio estetico, e mediato dal concetto di fine nel caso del giudizio teleologico) tra la presenza dell'oggetto in quanto dato e l'esigenza dell'intelletto in quanto spontaneo. A chiarire il significato del giudizio estetico, Kant introduce la distinzione di “bellezza libera” e di “bellezza aderente” per quel che riguarda il sentimento del bello, e distingue poi questo sentimento dal sentimento del sublime. Bellezza libera è quella che non presuppone alcuna idea cui possa essere commisurata (per esempio la bellezza di un fiore); bellezza aderente è quella invece che presuppone un'idea di perfezione (per esempio la bellezza di un uomo). Sentimento del sublime, poi, è quello suscitato dalla contemplazione della natura: e si ha quando di fronte alla grandezza o alla potenza della natura che sembrano annientare l'uomo, questi riconosce nella propria ragione o nel proprio imperativo morale un principio che lo eleva al di sopra della natura stessa. Come si vede, in Kant il giudizio estetico tratta soprattutto del bello naturale; ma in realtà ciò che vale per il bello naturale vale anche per il bello artistico, come dimostra la teoria kantiana del genio: che è la facoltà per mezzo della quale “la natura dà la regola all'arte”. A chiarire invece il significato del giudizio teleologico, Kant introduce la distinzione tra considerazione “meccanicistica” e considerazione “finalistica” della natura. La prima è quella che risponde alle regole dell'intelletto, la seconda invece quella che risponde alle esigenze del sentimento. Queste portano a considerare la natura non in base alla semplice causalità, ma come se la causalità fosse orientata verso dei fini. Questo principio non ha però valore costitutivo, ma solo come regola: e tuttavia rende possibile tanto la scoperta di leggi che diversamente rimarrebbero celate quanto il riconoscimento di un ordine provvidenziale. Si entra così nel vivo del problema religioso, filo conduttore di tutta l'opera di Kant, ma che soltanto nel Die Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft (1793; La religione nei confini della semplice ragione) viene direttamente ed esaurientemente affrontato. Date le premesse, la conclusione poteva essere solo una: la religione coincide con la moralità. Se così non fosse bisognerebbe ammettere per la fede determinazioni materiali, eteronome, le quali contraddirebbero lo stesso volere di Dio, cioè un volere che non può essere altro da quello rappresentato dall'imperativo categorico. Che l'uomo abbia bisogno di una rivelazione dipende unicamente dalla sua incapacità di uniformare la propria volontà alla volontà di Dio, avendo come unico motivo determinante la forma della legge morale. Ciò non toglie che la religione più alta e universale sia quella che si esprime per mezzo di una fede razionale pura. La filosofia di Kant rappresenta una svolta capitale nella storia del pensiero: la conoscenza e la spiegazione scientifica della realtà si emancipano dalla metafisica e in particolare dall'ipotesi creazionistica. La ragione diviene lo strumento per debellare ogni forma di dogmatismo e di ipoteca trascendente per fondere l'autonomia dell'uomo e dei suoi valori anche dal punto di vista morale. Per quanto riguarda il problema educativo, esso è saldamente inserito nella dottrina morale di Kant, che influenza fortemente la sua opera Pädagogik (1803; Pedagogia).

Le opere minori

Principiorum primorum cognitionis metaphysicae nova dilucidatio (1755), Monadologia physica (1756), Die falsche Spitefindigheit der vier syllogistischen Figuren (1762; La falsa sofisticheria delle quattro figure sillogistiche), Der einzig mögliche Beweisgrund zu einer Demonstration des Daseins Gottes (1762; L'unico argomento possibile a una dimostrazione dell'esistenza di Dio), Untersuchung über die Deutlichkeit der Grundsätze der natürlichen Theologie und der Moral (1764; Esame sulla chiarezza dei principi della teologia naturale e della morale), Beobachtungen über das Gefühl des Schönen und Erhabenen (1764; Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime), Träume eines Geistersehers, erläutert durch Träume der Metaphysik (1766; Sogni di un visionario, spiegati attraverso i sogni della metafisica).

Bibliografia

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