Definizione

Passaggio graduale delle specie animali e vegetali attraverso successive generazioni dalle forme più semplici a quelle più differenziate.

Biologia: gli studi dall'antichità al preformismo

L'evoluzione fu oggetto di varie speculazioni già da parte dei filosofi greci, sia pure spesso confusa con l'idea di una continua generazione spontanea dei viventi dalla terra nel quadro di una trasformazione più o meno ciclica di tutti i processi naturali. Secondo Empedocle (sec. V a. C.) gli organismi si producono per il casuale combinarsi di arti, teste, tronchi prodotti dalle forze generatrici del suolo; ma solo alcune forme così generate risultano armoniche e capaci di sopravvivere riproducendosi in modo sessuale. Questa concezione materialistica, secondo cui l'ordine si produce dal disordine, trovò in Democrito il più coerente sviluppo e la più rigorosa opposizione in Aristotele, che rivendicava la fissità delle specie, sostenendo che il vivente ha nell'anima un principio essenziale e costante di organizzazione che lo colloca in una scala gerarchica di perfezioni culminanti nell'uomo. Lucrezio (sec. I a. C.) riprese il tema materialistico della vita che sorge dalla terra e si perfeziona attraverso combinazioni casuali e competizioni violente. Col diffondersi del cristianesimo l'origine delle piante e degli animali fu ricondotta all'atto della creazione divina narrato dal testo biblico. Sant'Agostino sostenne tuttavia che la formazione dei viventi non fosse stata completata nei sei giorni della genesi, ma che Dio avesse distribuito alla terra e alle acque le sementi destinate nel tempo a popolare di altri esseri il mondo. Nel Rinascimento era diffusa la convinzione della generazione spontanea di molti esseri e anche la credenza che da una specie potesse nascerne una diversa (per esempio il loglio dal grano o un cane da una donna), idea superata nel Seicento attraverso la definizione di una specie come forma che può generare solo esseri simili a se stessi e che rappresentò un passo importante verso lo studio e la classificazione di antichi e nuovi organismi. La stabilità di una specie corrispondeva a quella di un'idea realizzata da Dio al momento della creazione del mondo, concepito come una grande macchina ordinata, sin dall'inizio, da un grande architetto, mentre gli organismi erano concepiti come piccolissime miniature rinchiuse nei germi, il cui sviluppo consisteva unicamente nell'accrescimento di strutture preformate (preformismo).

Biologia: gli studi del Settecento

Nel secolo successivo Linneo, svolgendo il suo programma di classificazione tendente a ritrovare affinità naturali fra forme immutabili, fu portato ad ammettere che molte forme si sono prodotte dopo la creazione originale derivando per incroci da diversi progenitori. Si cominciò così a dubitare che l'ordine attuale della natura fosse quello stesso uscito dalle mani del creatore, in parte riconnettendosi all'ipotesi di Cartesio secondo cui l'universo si è prodotto nel tempo da vortici di materia a cui Dio aveva attribuito solo le leggi del movimento. D'altra parte le ricerche di geologia portarono ad ammettere il grande cataclisma del diluvio biblico per spiegare, in base a catastrofici rivolgimenti della superficie terrestre, avvenuti nel passato, l'esistenza nel suolo di organismi fossili. È interessante notare che, in questo periodo, gli scrittori libertini avevano ripreso, e clandestinamente diffuso, i temi dell'antico materialismo epicureo: prima della metà del secolo fu pubblicato un fantasioso romanzo scientifico, il Telliamed, dove si narra una cosmogonia in cui i viventi si producono nel mare e trasformandosi trapassano a popolare la Terra. A molti autori illuministi, verso la metà del Settecento, la natura e la materia appaiono ormai una realtà autonoma e attiva capace di creare l'attuale ordine del mondo senza più un diretto intervento divino. P. L. Maupertuis e G. L. Buffonespinsero il preformismo, sostenendo che gli organismi si formano per epigenesi, attraverso la riunione di particelle o molecole organiche dotate di vita. Maupertuis intuì la possibilità che un casuale spostamento nel regolare associarsi generativo delle particelle organiche potesse, ripetendosi, condurre al sorgere di nuovi organismi capaci di sopravvivere, se tali variazioni fossero favorevoli. Nella sua filosofia della natura, D. Diderot suppose che nell'infinita potenzialità, che caratterizza il fluire della materia, particelle dotate di sensibilità si combinino casualmente creando sia esseri mostruosi sia creature capaci di sopravvivere armonicamente. Il problema del passaggio evolutivo di alcune specie in altre fu affrontato con molto impegno da Buffon, che riconobbe questa possibilità solo quale processo degenerativo; egli svolse una trattazione storica delle passate epoche della Terra e, svincolandosi dal racconto biblico, attribuì a esse un periodo di circa settantamila anni, contro i seimila ammessi dal giorno della creazione. Si cominciò a dubitare che gli esseri naturali rappresentassero una scala continua di gradi immutabili di perfezioni, dai minerali all'uomo. J.-B. Robinet e C. Bonnet ammisero che questo accrescimento di perfezioni potesse realizzarsi nel tempo attraverso una successiva comparsa di nuovi organismi.

Biologia: la teoria di Lamarck

L'idea di un progresso ascendente della natura e la convinzione che esso possa realizzarsi attraverso un processo storico temporalmente indefinito si trovano alla base della prima importante teoria dell'evoluzione elaborata all'inizio dell'Ottocento da J.-B. Lamarck. Questi reputò che negli organismi vi fosse un'interna e necessaria tendenza all'aumento progressivo di organizzazione attraverso il succedersi delle generazioni e che questo disegno ordinato al dispiegarsi di forme nuove fosse ostacolato dalle diverse circostanze ambientali in cui vengono a trovarsi i viventi. Questi sono perciò spinti dal bisogno ad accentuare o trascurare determinate funzioni; dall'acquisizione di nuove abitudini deriva anche la trasformazione di organi; alcuni, non utilizzati, si atrofizzano sino a scomparire, altri accentuano le loro dimensioni o si modificano sino a costituire forme nuove. Ciò è reso possibile dalla trasmissione ereditaria di ogni modificazione acquisita individualmente. Il contemporaneo È. Geoffrey Saint-Hilaire stimò che la discendenza di molte forme animali da un comune progenitore fosse provata dall'esistenza di un piano unitario della loro struttura anatomica e che durante le prime fasi embrionali azioni esterne produrrebbero mostruosità o trasformazioni favorevoli da cui derivano le nuove specie. Le concezioni di Saint-Hilaire e di Lamarck incontrarono una forte opposizione da parte di G. Cuvier, che asserì l'esistenza di una pluralità di piani di organizzazione negli animali e quindi l'impossibilità di ammettere una continuità di transizioni fra le loro forme. In base allo studio di antichi vertebrati fossili egli sostenne che passate catastrofi geologiche avevano distrutto la fauna di una data epoca impedendo a essa di lasciare discendenti con nuovi caratteri (catastrofismo). In Germania alcuni naturalisti del periodo romantico quali L. Oken e J. Meckel videro nell'evoluzione degli organismi un aspetto particolare del generale sviluppo della natura. Un successo non maggiore ebbe in Inghilterra un'analoga concezione di Erasmus Darwin (nonno di Ch. Darwin). Il carattere speculativo e tendenzialmente materialistico delle teorie sull'evoluzione degli organismi, formulate fra il Settecento e l'inizio del nuovo secolo, tolse loro ogni credibilità scientifica anche per la grande influenza di Cuvier e per il clima culturale della Restaurazione. Pochi, ma soprattutto inascoltati, furono, nella prima metà dell'Ottocento, i difensori della teoria evoluzionistica. Si ricordano, in Inghilterra, W. Lawrence, P. Matthew e R. Chambers; in Germania, E. Baer, V. Carus e L. Büchner; in Italia, F. A. Bonelli e F. C. Marmocchi. La via per giungere a una formulazione più convincente della teoria dell'evoluzione doveva passare attraverso la geologia, scienza che tra la fine del Settecento e il nuovo secolo era ancora legata al tentativo di conciliare i risultati osservativi con la genesi, secondo il racconto biblico. Sulla base della convinzione che negli strati via via più antichi della superficie terrestre si trovassero resti di forme sempre più semplici, nacque la concezione “progressionista”, sostenuta da L. Agassiz, secondo cui la creazione divina si era realizzata nelle successive epoche geologiche dopo ogni catastrofe che aveva sconvolto la Terra. Verso la fine del Settecento J. Hutton si era opposto a ogni concezione di questo tipo sostenendo che la Terra non offre né vestigia di un principio né indizi di una fine, ma si trova in uno stabile e uniforme equilibrio per effetto di cause che agiscono attualmente come in passato. Intorno al 1830 questa concezione “uniformista” acquistò importanza soprattutto attraverso l'opera del geologo C. Lyell, il quale sostenne che i fossili non sono organismi scomparsi per effetti di catastrofi, ma a causa di una lenta interazione con l'ambiente; confutando Lamarck, egli sostenne che organismi posti in ambienti inconsueti non si adattano ma soccombono.

Biologia: Darwin e l'origine delle specie

Nel 1859 la pubblicazione dell'opera L'origine delle specie di C. Darwin segnò una svolta decisiva acquisendo alla teoria dell'evoluzione la credibilità scientifica che le era sino a quel momento mancata. Secondo Darwin la distribuzione geografica degli organismi, la classificazione degli stessi e i dati forniti dalla geologia possono trovare una spiegazione solo ammettendo una comune discendenza delle attuali forme viventi da pochi tipi originari e ciò viene provato elaborando con rigore un materiale di osservazione estremamente ampio. L'originalità della teoria di Darwin sta nell'aver individuato il processo con cui la natura ha modificato e moltiplicato le forme viventi, ovverosia la selezione naturale quale risultato delle interazioni competitive legate alla sproporzione fra le risorse disponibili e l'enorme numero di semi o di nati prodotto a ogni generazione. L'accumularsi di piccole variazioni fortuite in una direzione costante conduce al graduale differenziarsi di razze, specie e generi che divergono sempre più fra loro. L'origine delle specie per effetto di variazioni casuali e della lotta per l'esistenza rovesciava drammaticamente l'immagine di una natura armonicamente finalizzata secondo il disegno provvidente di Dio. L'uomo non era più il privilegiato destinatario della creazione, ma solo il prodotto più elevato di quelle stesse forze naturali che avevano generato gli altri viventi. La teoria di Darwin ebbe conseguenze rivoluzionarie sul piano culturale; egli si astenne dalle discussioni non strettamente scientifiche, pur pubblicando, nel 1871, una non meno importante opera sull'origine dell'uomo. L'amico T. H. Huxley se ne fece invece attivo propugnatore, ma fu soprattutto il tedesco H. Haeckel che elaborò e propagandò in base a essa una nuova visione materialistica del mondo, il monismo. Studioso di morfologia, egli ricercò nelle attuali fasi di sviluppo degli embrioni animali le strutture dei loro più antichi ascendenti, tracciando così una sorta di parallelismo fra ontogenesi, filogenesi e sistematica delle forme attuali. L'opera di Darwin lasciava comunque insoluti i problemi inerenti le modalità e le cause per le quali le variazioni sorgono, si accumulano e si coordinano per produrre strutture di adattamento che appaiono rivolte a un fine. In Germania intorno al 1870 alcuni autori, quali R. A. Kölliker e K. Naegeli, negarono che l'evoluzione risulti da variazioni fortuite e postularono cause interne agli organismi che determinano un piano progressivo e differenziato delle loro strutture. Frattanto i progressi della teoria cellulare indicavano la possibilità che nel nucleo si avesse la sede delle variazioni e dei processi ereditari. A. Weismann pose una netta separazione fra le cellule sessuali riproduttive e quelle somatiche, affermando che solo nelle prime si producono e trasmettono le variazioni casuali su cui agisce la selezione, mentre le modificazioni subite dalle cellule somatiche non sono trasmesse ai discendenti. Si giungeva così, verso la fine del sec. XIX, a negare drasticamente l'eredità dei caratteri acquisiti, accettata quasi universalmente sin dall'antichità: ne sorse una violenta discussione scientifica che durò lungo i primi decenni del Novecento. Le teorie di Weismann (neodarwinismo) trovarono accesi sostenitori; a questi si contrapposero molti studiosi, rifacentisi in vario modo a Lamarck (neolamarckismo), che sostenevano l'eredità dei caratteri acquisiti e reputavano che le variazioni adattative fossero guidate e coordinate da fattori interni o esterni all'organismo. Fra questi alcuni autori quali T. Eimer, R. Semon ed E. Rignano seguivano un'impostazione meccanicistica o materialistica mentre altri, come E. D. Cope e S. Butler, avvicinandosi all'indirizzo vitalistico, ammettevano negli organismi un fattore psichico interno capace di produrre trasformazioni e adattamenti. Queste radicali contrapposizioni, nel clima di sfiducia irrazionalistica nella scienza che caratterizzò il sorgere del nuovo secolo, screditarono la teoria dell'evoluzione e in particolare la concezione di Darwin. In contrapposizione a essa, anzi, il pragmatismo (I. James, J. Dewey) insistette sull'autonomia e sulla spontaneità degli organismi e sulla loro capacità di reazione attiva all'ambiente. James formulò l'ipotesi di un'evoluzione emergente, per la quale ogni realtà emerge dal passato aggiungendovi qualcosa di nuovo e irriducibile a esso. Emergenza e continuità, permanenza e novità sono perciò i termini nell'ambito dei quali si può spiegare l'evoluzione. In una prospettiva analoga è pure H. Bergson con il suo concetto di evoluzione creatrice intesa come superamento continuo del passato. Largo interesse suscitava frattanto la teoria teleologica di P. Teilhard de Chardin, che rappresentava l'evoluzione come un processo teleologico teso alla realizzazione, attraverso tappe successive (quelle della vita e dello spirito), di un momento finale, il punto omega o cristosfera, in cui l'umanità sarà aggregata al Cristo in un'unità di grazia e di amore.

Biologia: gli studi recenti

L'affermarsi della genetica all'inizio del sec. XX non risolse le difficoltà in cui si trovava il problema dell'evoluzione. Nelle leggi di G. Mendel alcuni videro l'indicazione di una fissità dei caratteri che contrastava con l'idea di variabilità della specie. La scoperta delle mutazioni da parte di H. de Vries sembrò invece indicare l'esistenza di un processo in cui una specie sorge completa di tutti i suoi tipici caratteri. Solo gli sviluppi successivi della genetica, confermando vari aspetti della teoria di Weismann, permisero di chiarire meglio il significato della mutazione come alterazione delle unità ereditarie elementari, cioè dei geni. A partire dagli anni Trenta le ricerche genetiche condotte da J. B. S. Haldane, R. A. Fisher e S. Wright permisero una diversa impostazione scientifica della teoria dell'evoluzione che rivalutava il processo della selezione naturale, individuato da Darwin, come uno dei fattori fondamentali della continua trasformazione di ogni gruppo di organismi aventi in comune il complesso dei loro fattori ereditari (pool genetico). In tal modo la selezione naturale non risultava più un semplice meccanismo di eliminazione ma un processo che rende probabile un evento inizialmente poco probabile. Sembrava così confermata l'idea darwiniana che il più complesso poteva sorgere dal più semplice. Frattanto le nuove metodologie di studio nelle discipline biologiche ampliavano il campo delle conoscenze. Le ricerche paleontologiche e paleogeografiche dimostrarono che l'evoluzione si sviluppa nei diversi gruppi di animali e piante (taxa) con velocità molto differenti. Alcuni hanno avuto una vita breve, con un'alta velocità di evoluzione, altri invece sono rimasti praticamente inalterati o presentano minime variazioni, e, quindi, la loro velocità di evoluzione è molto bassa. Anche nell'ambito di un medesimo taxon la velocità di evoluzione varia, per cui si possono distinguere diversi momenti nella sua storia filetica. La teoria più innovatrice al riguardo è stata quella detta “tipostrofica” di O. H. Schindewolf, il quale ha affermato, verso la fine degli anni Sessanta, che si possono distinguere tre fasi della vita filetica di un taxon, denominate tipogenesi, tipostasi, tipolisi. Secondo tale ipotesi, durante la tipogenesi si ha la differenziazione delle strutture e dei diversi tipi di organizzazione; il tutto avviene in modo veloce, discontinuo ed esplosivo. Nella tipostasi, le diverse strutture realizzate nella prima fase si trasformano progressivamente in seguito a variazioni marginali, mentre i caratteri strutturali fondamentali restano invariati; è la fase più lunga, durante la quale il taxon raggiunge numericamente e arealmente il suo massimo sviluppo. Durante la tipolisi, di breve durata, compaiono caratteri di senescenza e di instabilità delle strutture che portano alla degenerazione e alla scomparsa del taxon. L'evoluzione sembrava apparire così come una successione di “salti” e di piccole mutazioni adattative e di specializzazione sulle quali non era ben chiaro l'influsso dell'ambiente (evoluzione a mosaico). Per contrastare l'idea di un possibile influsso dell'ambiente sull'evoluzione, alcuni studiosi si appellarono alle acquisizioni di biochimica e di genetica che mettevano in luce il fenomeno del polimorfismo e delle conseguenze che esso produce all'interno delle singole specie. L'evoluzione, infatti, appare sempre più legata al cosiddetto “polimorfismo bilanciato” che si ha quando in una popolazione coesistono più genotipi dei quali, per precise ragioni genetiche, solo uno risulta in “vantaggio evolutivo” rispetto agli altri. Il dibattito sull'evoluzione riprendeva così vigore con vecchie e nuove polemiche: alcuni studiosi, nel tentativo di trovare un compromesso fra le tesi darwiniane e lamarckiane, osservarono che l'ambiente poteva influenzare indirettamente (per via biochimica) la microevoluzione, favorendo o meno l'acquisizione di “vantaggi evolutivi”. Tuttavia, anche in questo caso, il progresso evolutivo doveva essere inteso come un miglioramento di organizzazione tale da permettere un aumento del controllo sull'ambiente per raggiungere, da parte delle singole specie, l'indipendenza dalle sue modifiche, unita alla capacità di ulteriore evoluzione, pena la scomparsa delle specie stesse. Questa ipotesi, però, non spiegava perché accanto alle forme più evolute sono coesistite anche forme “inferiori”: la paleoecologia dimostrava, infatti, che, in uno stesso ambiente, insieme ai Mammiferi si trovano Rettili e Anfibi, anche se gli uni derivano dagli altri. Ne conseguiva che l'evoluzione porta soprattutto all'origine di nuove specie per trasformazione dalle precedenti senza necessariamente provocarne l'estinzione. La constatazione metteva in crisi il darwinismo classico. A metà anni Settanta, partendo da una più corretta conoscenza della genetica delle popolazioni, dovuta agli sviluppi della biologia molecolare, M. Kimura avviò una serrata critica al neodarwinismo ponendo in dubbio i principi dell'evoluzione classica: l'evoluzione non è conseguenza della selezione naturale, dato che a livello genetico le mutazioni “vantaggiose” sono pochissime in rapporto a quelle “indifferenti”, per cui l'evoluzione appare diretta “dal caso”; l'evoluzione non può essere intesa come semplice passaggio da un organismo più semplice a uno più complesso, in quanto ciò equivale ad attribuire al fenomeno un significato “terminologico” e allora sarebbe meglio parlare di “trasformismo” piuttosto che di evoluzione. La complessità della dinamica dei fenomeni che si verificano a livello individuale e di specie e le relazioni intercorrenti fra individui, specie e ambiente (nonché gli effetti reciproci fra questi) messe in evidenza negli anni Settanta, resero di fatto più complessa ogni spiegazione obbligando a considerare l'evoluzione come un processo dinamico di trasformazione permanente di cui la definizione classica (passaggio dal più semplice al più complesso) esprime solo uno degli aspetti. Lo sviluppo delle nuove acquisizioni sperimentali ha spinto alcuni studiosi (J. D. White, S. M. Stanley) a proporre una spiegazione per la “discontinuità” dell'evoluzione che tenga conto anche del concetto di “specie ecologica” del neodarwiniano E. Mayr. In questa ipotesi (teoria dell'equilibrio intermittente) caratteristica principale dell'evoluzione dovrebbe essere considerata la capacità di un gruppo di organismi, “diversi geneticamente” all'interno delle specie, di conquistare un nuovo dominio ecologico, oppure, quando le condizioni ambientali si modificano notevolmente, di adattarsi al nuovo ambiente. Tale gruppo, però, deve avere già alcuni caratteri “adattati” al nuovo ambiente; inoltre, condizione essenziale per l'evoluzione del gruppo è che il nuovo ambiente non deve essere occupato da forti competitori. Questa capacità di insediarsi in un nuovo dominio evolvendosi in molteplici direzioni, specializzandosi poi secondo tipiche nicchie ecologiche, ha portato alcuni studiosi, che si rifanno alle ipotesi sociobiologiche di E. O. Wilson, a sostenere che l'evoluzione più che da un semplice progresso evolutivo è caratterizzata da un “opportunismo” evolutivo, dovuto alle caratteristiche proprie dei geni facenti parte del pool di un dato individuo e gruppo. Tutte queste teorie appaiono tuttavia limitate da alcuni fattori. La specializzazione porta sempre a una diminuzione del potenziale evolutivo, per cui, se un gruppo di organismi raggiunge un ottimo adattamento a un particolare ambiente, diventa iperspecializzato e non è più in grado di sopportare la benché minima variazione ambientale, e, quindi, se l'ambiente muta, il gruppo si estingue. L'evoluzione è irreversibile per cui quando un taxon ha incominciato a evolversi non può ritornare a uno stadio ancestrale, ossia un gruppo estinto non ricompare più in tempi successivi. Specie “potenzialmente” antagoniste, che non sono altamente specializzate, convivono nel medesimo ambiente avendo creato barriere etologiche fra loro. La selezione di nuovi pool genetici è possibile anche a prescindere o in assenza della selezione naturale (come dimostrato dalle ricerche di E. Vrba). Resta sempre da spiegare la discontinuità nella successione dei fossili, argomento questo fra i più interessanti per stabilire i meccanismi dell'evoluzione stessa. Per molti studiosi le forze evolutive che permettono il passaggio da un gruppo a un altro (macroevoluzione) sono le stesse che guidano la microevoluzione (filogenesi). Secondo i neodarwinisti, l'evoluzione stessa è un processo continuo che si sviluppa a piccoli passi: la discontinuità riscontrata nelle successioni dei tipi fossili risulterebbe così solo apparente in quanto dovuta a “lacune di documentazione”, imputabili a una insufficiente raccolta di campioni o a “incidenti” di fossilizzazione. Di contro, secondo i neolamarckisti, le “lacune di documentazione” corrispondono a mutamenti repentini reali provocati dal variare delle condizioni ambientali che creano pressioni selettive più o meno intense nei vari organismi: infatti, confrontando il mutare della distribuzione dei mari e delle terre emerse (paleogeografia) con l'evoluzione biologica delle specie si nota una stretta correlazione tra eventi geologico-ecologici e comparsa o estinzione di gruppi di organismi. Per altri studiosi, infine, microevoluzione e macroevoluzione sono due momenti diversi dell'evoluzione per cui non si può spiegare la macroevoluzione attraverso gli stessi fattori della microevoluzione e viceversa. Ne consegue che le discontinuità rilevate nelle testimonianze fossili sono “realmente” un salto “qualitativo” nell'evoluzione. Questa ultima ipotesi ripropone a livello tassonomico superiore alla specie la teoria del catastrofismo che ha condizionato la geologia del sec. XVIII. Nel 1977, S. J. Gould e N. Eldredge, partendo dai presupposti dell'evoluzione a mosaico, avanzarono invece l'ipotesi che l'evoluzione si verifichi all'improvviso e in tempi brevi entro una sola specie, dopo lunghi periodi di stasi e di lente trasformazioni a livello di singoli geni (teoria degli “equilibri punteggiati”); quindi la speciazione avviene per linee parallele (cladogenesi). Di queste linee solo quella (o quelle) in grado di meglio interagire con l'ambiente finisce con l'affermarsi, mentre le altre possono sia continuare a evolversi in modo autonomo sia specializzarsi, in quest'ultimo caso sono destinate a scomparire se mutano le condizioni ambientali. Lungi dall'essere definitivamente chiarito, il “fenomeno” evoluzione mantiene vive le polemiche proprio per la notevole e innegabile incidenza che le mutazioni biochimiche hanno anche a livello di microevoluzione.

Biologia: lo sviluppo della biologia evoluzionistica

Con lo sviluppo della biologia molecolare si è progressivamente affermata la biologia evoluzionistica, che trova il suo campo di indagine sul concetto portante della microevoluzione: la trasmissione differenziale di geni da una generazione a quella successiva. Questo settore della ricerca si basa sul presupposto che, se specie diverse sono evolutivamente vicine e si assomigliano nell'anatomia, così sarà anche per i loro geni, che presenteranno un grado di omologia direttamente collegato alla vicinanza evolutiva. Anche il DNA può contenere informazioni evolutivamente antiche, ormai inutilizzate – basta pensare agli organi vestigiali, strutture inutili, ma che in tempi remoti avevano avuto un ruolo fisiologico – ma che, grazie alla loro presenza, consentono di collegare specie evolutivamente vicine o succedentesi nella scala evolutiva. Intorno al 1970 è stato scoperto che alcune zone di molte proteine sono uguali fra loro, soprattutto quelle in grado di conferire alcune strutture tridimensionali fondamentali per il funzionamento delle proteine stesse; leggendo questo risultato in chiave evolutiva si può ritenere che tali zone polipeptidiche, definite domini, possano aver rappresentato un prerequisito per la comparsa della vita sulla terra, e devono pertanto essere comparse più di tre miliardi di anni fa. In seguito si sono ritrovate a far parte di moltissime proteine enzimatiche, che si sono poi evolute diversificandosi fra loro ma mantenendo in sé il progenitore aminoacidico comune. Si può quindi ritenere che non solo il fenotipo è stato sottoposto a selezione, ma anche il genotipo, non indirettamente ma direttamente. Si cerca in questo modo una risposta all'evoluzione molecolare, soprattutto alla luce del fatto che – mentre fino agli ultimi decenni del sec. XX si supponeva che le mutazioni sul DNA avvenissero casualmente, e che i prodotti proteici codificati dai geni mutati venissero selezionati per il loro minore o maggiore vantaggio evolutivo – col tempo si vanno accumulando prove a favore dell'ipotesi che lo stesso DNA sia stato selezionato anche quando i prodotti proteici provenienti da due diversi alleli risultano essere identici (come nel caso della degenerazione del codice, per cui un gruppo di tre diversi nucleotidi può determinare la codifica dello stesso amminoacido). L'idea dominante era che le mutazioni, sebbene forniscano la materia prima per il procedere dell'evoluzione, siano in realtà spesso dannose, e che avvengano in maniera casuale. Ma sicuramente quest'ultima affermazione è inesatta: esistono infatti delle zone del DNA, dette punti caldi di mutazione, in cui si riscontra un aumento delle probabilità che la mutazione avvenga, il che significa che alcuni geni cambiano, e quindi si evolvono, più velocemente di altri. Per esempio, mentre i geni codificanti per la regione variabile delle immunoglobuline sono soggetti a numerosi eventi mutazionali, il che di fatto fa sì che l'organismo possa produrre anticorpi contro un maggior numero di antigeni e sia evolutivamente avvantaggiato, così i geni strutturali di moltissime cellule hanno una bassissima frequenza di mutazione. Oltre al ruolo giocato dalle mutazioni, anche altri aspetti del genoma sono stati modificati dalla selezione naturale, primo fra tutti la dimensione. Il materiale ereditario degli organelli subcellulari, quali i mitocondri, o delle particelle virali, deve essere piccolo per potersi duplicare rapidamente; i virusono addirittura provvisti di un genoma in grado di codificare più proteine solamente cambiando il punto d'inizio della trascrizione su uno stesso tratto di DNA, e così risparmiano nella grandezza del proprio genoma. Questo, però, sembra non accadere per gli altri organismi, che presentano grandissime porzioni di DNA non codificante, apparentemente inutili. Perché questo materiale non sia stato eliminato dalla selezione naturale, soprattutto pensando che tale presenza è antieconomica, per il suo mantenimento e la sua duplicazione nella cellula, è stato un importante oggetto di ricerca degli anni successivi. Nel 1979, con la scoperta che all'interno di tutto il genoma eucariote sono presenti delle zone di DNA non codificante, a opera di Gilbert, dette introni, è stato ipotizzato che queste potessero aumentare la possibilità di ricombinazione delle zone adiacenti codificanti, dette invece esoni. Si originerebbero così nuove sequenze proteiche che, se vantaggiose, accelererebbero i processi evolutivi. Questo accade anche grazie al rimescolamento dei vari esoni all'interno di un genoma; questo fenomeno, evidenziato negli anni Ottanta, ha permesso la comprensione della presenza di grande variabilità all'interno di alcuni sistemi, quali per esempio, quello del coagulo del sangue, in cui le proteine vengono assemblate a partire da esoni “a mosaico”. Gli introni si ritrovano solo negli eucarioti, mentre sono del tutto assenti nel DNA procariote. Poiché è innegabile che i batteri abbiano subito una enorme evoluzione e che mostrino una grandissima capacità di adattamento a qualsiasi tipo di ambiente, ci si chiede se la presenza degli introni sia un segno di arretratezza evolutiva o se in qualche modo sia la chiave di lettura per la comprensione del passaggio da forme procariotiche a forme eucariotiche. La teoria esonica dei geni sostiene che geni ancestrali codificanti per piccole proteine si siano progressivamente combinati fra loro, in ordine casuale, per generare proteine più grandi e con un ruolo più specifico. Fondendosi tra loro, però, restavano separati da piccole zone non codificanti. Questi eventi risultano matematicamente poco probabili, mentre sembra più verosimile che le forme di vita ancestrali avessero già un piccolo patrimonio genetico funzionale, che si è progressivamente accresciuto grazie a eventi di duplicazione e mutazioni successive (teoria del rimescolamento dei domini) facilitati dalla presenza di parti strutturali non codificanti, gli introni. Questo potrebbe spiegare perché fra la comparsa dei primi organismi unicellulari e quella dei primi metazoi sulla terra siano intercorsi 2,5 miliardi di anni: il prerequisito per la formazione di individui pluricellulari è la possibilità di scambi e comunicazione fra cellule, nonché di un ambiente circostante definito e controllabile; queste caratteristiche potrebbero essere state acquisite grazie alla presenza di esoni e introni, cioè alla possibilità di riassemblare domini. A conferma di questa ipotesi c'è l'evidenza che i geni che codificano per le proteine implicate nei processi di comunicazione extracellulare sono effettivamente formati da domini più evoluti rispetto ad altri, cioè in grado di codificare per zone proteiche che svolgono funzioni più raffinate, separati da introni. L'ipotesi più attendibile è quella per cui alla base della microevoluzione ci sia il cambiamento di alcuni caratteri grazie alla mobilità di alcune zone del DNA (quali per esempio i trasposoni) e alla loro capacità di congiungere i domini con maggiore o minore possibilità di variazione, eventi che potrebbero causare l'isolamento riproduttivo e di conseguenza la formazione di nuove specie simili fra loro, mentre la possibilità di giustificare la macroevoluzione può venire non solo grazie alle scoperte sul massiccio riassemblaggio di geni ancestrali, ma anche dalla futura possibilità di definire gli eventi operati dalla selezione a livelli non organici. Si potrà così formulare una teoria generale dell'evoluzione, basata sempre, comunque, sui principi darwiniani. La biologia evoluzionistica, ha messo quindi in evidenza come non possa esistere una differenza sostanziale fra micro e macroevoluzione: cambiamenti su piccola scala hanno progressivamente causato l'impossibilità di incrocio fra due gruppi originariamente uguali; la nascita di nuove specie, le variazioni climatiche e la conquista di nuovi territori avrebbero creato nuove e immense diramazioni e le estinzioni di massa avrebbero in seguito cancellato dei tasselli dell'intero percorso evolutivo.

Antropologia

Le ipotesi evoluzioniste hanno avuto dei precursori, nei sec. XVIII e XIX, in G. L. Buffon (le specie sono variabili nel loro interno e da esse si formano le varietà razziali), È. Geoffrey Saint-Hilaire e J.-B. Lamarck (le diversità di specie e di razze sono in stretto rapporto con l'ambiente), ma è con le tesi di Ch. Darwin che si affermano, dopo la metà del sec. XIX, come fondamento dell'antropologia biologica. All'inizio del sec. XX si contrappongono due correnti di pensiero: quella monogenista, che fa discendere l'uomo attuale in linea diretta da un solo “tipo” di Ominide comparso in una determinata regione del vecchio mondo (l'Africa), e quella poligenista, che ritiene le diverse “razze” esistenti derivate da specie evolutesi ciascuna nel proprio territorio di origine. I progressi della genetica e il grande numero di reperti fossili che si andavano man mano scoprendo portarono, già nella seconda metà del sec. XX, ad accettare da parte di quasi tutti gli antropologi le tesi neodarwiniste che estendevano all'uomo la “teoria sintetica dell'evoluzione” alla cui base vi è il principio che i cambiamenti graduali lungo una medesima linea (anagenesi) seguono una modalità “a mosaico”: ogni parte della struttura di un essere vivente ha un suo proprio schema evolutivo e la mutazione si compie quando “l'insieme” ha assunto una nuova forma definitiva. Questo, tuttavia, non risolveva il dilemma fra poligenisti e monogenisti, in quanto ammetteva pur sempre che la speciazione avviene sì lungo una medesima linea che però non necessariamente deve essere l'unica; ciò contrastava col fatto che tutti i ritrovamenti di specie umane diverse avevano un capostipite “africano”, per di più localizzato nelle regioni orientali. L'ipotesi formulata da Gould ed Eldredge, quella degli “equilibri punteggiati”, sembra pertanto essere quella che meglio risponde al modello necessario agli antropologi per spiegare le modalità dell'ominazione così come essa appare dalla successione dei fossili, dalla diversificazione “a salti” della loro morfologia e dalla coesistenza per lunghi periodi di forme diverse di Ominidi, nonché il fatto che le “forme nuove” che si sono affermate siano “tutte” originarie di una medesima area geografica. Lo sviluppo dell'antropologia culturale e sociale, ponendo l'attenzione sulle relazioni storiche e culturali e sullo studio delle interrelazioni tra le differenti istituzioni di una società, ha causato il progressivo distacco dalla prospettiva evoluzionistica, in genere considerata uno schema troppo angusto in cui situare i processi sociali e culturali.

Bibliografia

L. Eiseley, Darwin Century, Evolution and Men Who Discovered It, Garden City, 1958; R. Hooykaas, Natural Law and Divine Miracle, Leida, 1963; B. Glass e altri, Forerunners of Darwin, 1745-1859, Baltimora, 1968; D. Freeman, Origini della vita, Torino, 1987.

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