Descrizione generale

sm. [sec. XX; da nazionale+socialismo, sul modello del tedesco Nationalsozialismus]. Dottrina politica del sec. XX affermatasi in Germania attraverso la dittatura ideologica e politica del Partito nazionalsocialista. È intesa polemicamente a condizionare il socialismo antindividualistico con l'elemento nazionale come coscienza di purezza razziale, come solidarietà all'interno e volontà di preminenza all'esterno. Il nazionalsocialismo si è affermato in connessione col Partito operaio a cui ha dato il nome: questo aveva inserito nella tradizione dello Stato autoritario prussiano, comune alle Destre, l'elemento “popolare” rivoluzionario, quale forza di pressione in regime democratico-elettorale, traendo alimento dalla rivolta alla non riconosciuta sconfitta del 1918, attribuita alla “pugnalata nella schiena” dei “marxisti”. La formulazione del nazionalsocialismo, assurta a catechismo per il partito, è quella contenuta nell'opera programmatica di A. RosenbergIl mito del sec. XX. Una valutazione delle lotte spirituali del nostro tempo (1930). Qui la fonte di tutti i valori genuini è vista nell'“anima della razza”; è il “sangue” che determina per via misteriosa il carattere fisico e morale d'una persona. Dove quest'intima connessione tra sangue e carattere viene meno si determina “un caos culturale che porta alla rovina”. L'Impero romano era caduto per il mescolamento di razze che in esso s'era prodotto. Solo pertanto da una rinascita del senso della razza, del “mito del sangue”, era da attendersi il risollevamento della Germania e dell'Occidente, di cui l'uomo nordico tedesco costituiva il nucleo meno contaminato. La coscienza dei valori razziali non consentiva al carattere germanico alcuna tolleranza di quanto fosse scaturito da un “terreno razziale estraneo”. Di qui la nota antisemitica: “A chi professa le leggi talmudiche immorali e antigermaniche non possono essere riconosciuti gli stessi diritti di un ufficiale della Hansa per quanto concerne l'influsso sulla Nazione”. Compito dell'ora era quindi di liberare l'anima tedesca da tutti gli influssi estranei, di rinnovare in codesto spirito tutte le istituzioni, le scienze, le arti contaminate dell'ebraismo. Lo stesso cristianesimo doveva essere liberato dalla sovrastruttura degli elementi ebraici perché riemergessero in primo piano i valori nordici da esso accolti. In tale maniera si poteva reintegrare una civiltà germanica genuina, imperniata sui due supremi valori nordici, la “libertà” e l'“onore”, sostanziata da una religione veramente sentita, mistica. Così Rosenberg si faceva portavoce della numerosa schiera dei dottrinari d'una nuova “fede tedesca” che avrebbe alimentato un partito di “tedesco-cristiani” (Deutsche Christen) nella Chiesa evangelica, col programma di adeguarla nella dottrina e nelle strutture alle esigenze totalitarie del nazionalsocialismo sotto la formula: “Una Nazione, un Impero, una Chiesa” creando anche un Reichsbischof, un “vescovo dell'impero”, ed escludendo dall'ufficio di pastori i “non-ariani”.

Il programma politico

Assieme a quelle ideologiche si presentavano fin dal 1920 nel programma del movimento direttive nazionalistiche in politica estera e rivendicazioni anticapitalistiche in quella interna. Al paragrafo I si esigeva la riunione di tutti i Tedeschi in una grande Germania sulla base del diritto all'autodecisione dei popoli, uguale trattamento del popolo tedesco rispetto agli altri e l'abolizione dei trattati di Versailles e di Saint-Germain. Il motivo antisemitico era formulato duramente al paragrafo III: “Cittadino [tedesco] può essere solo chi è membro della Nazione e membro della Nazione può essere soltanto chi è di sangue tedesco... nessun ebreo quindi può essere cittadino [tedesco]”. Con tratti demagogici anticapitalistici e insieme antisemitici, il paragrafo XI contemplava “l'abolizione della rendita senza lavoro e senza fatica, la rottura della servitù dell'interesse”. Il motivo socialistico si presentava nel paragrafo XIII, che esigeva “la statizzazione di tutte le industrie la cui proprietà sia anonima” mitigata nel XVI a favore d'un medio ceto sano da conservare con la richiesta dell'“immediata municipalizzazione dei grandi magazzini e il loro affitto a prezzi bassi a piccoli commercianti e di un maggiore riguardo ai piccoli artigiani nelle forniture allo Stato e agli enti pubblici”. Allo stesso spirito s'informavano nel paragrafo XVII la postulazione di “una riforma agraria rispondente alle necessità della Nazione, d'una legge per l'esproprio della terra senza indennizzi per scopi di pubblica utilità, l'abolizione dell'interesse sulle cartelle del credito agrario e la proibizione d'ogni speculazione sui terreni”. Un vecchio risentimento antiromano ispirava la richiesta (paragrafo XIX) che “il diritto romano, che ubbidisce a una concezione materialistica del mondo” venisse sostituito “con un diritto comune veramente tedesco”. Fin dall'infanzia i “giovani in spirito hegeliano” (paragrafo XX) dovevano “essere consapevoli del concetto di Stato, della sua funzione e dei suoi compiti”. L'esercito (paragrafo XX) doveva ridiventare “nazionale” contro le imposizioni del Trattato di Versailles. Quanto alla religione e più concretamente alle Chiese, il paragrafo XXIV rivendicava “la libertà di tutte le confessioni entro lo Stato” però con la limitazione, “in quanto esse non minaccino la sua esistenza e non urtino contro il senso morale della razza germanica”. Il motivo hegeliano-bismarckiano emergeva infine nel paragrafo XXV con la richiesta di “un forte potere centrale nel Reich, di un'illimitata autorità del Parlamento politico centrale su tutto il Reich e sulla sua organizzazione”; alle Camere sindacali e professionali doveva poi essere affidata nei Länder (Stati regionali) l'esecuzione delle leggi emanate dal Reich.

L'affermazione: Adolf Hitler

Con questi richiami sostanzialmente di risentimento e con un'organizzazione propagandistica di cui Hitler era il precipuo regista, il Partito nazista s'affermava, tra gli ex militari e le formazioni paramilitari della Destra, partecipando anche al putsch di Monaco del generale Ludendorff (1923) in vista d'una “marcia su Berlino”. L'insuccesso e la condanna di Hitler non arrestavano l'espansione insieme organizzativa e ideologica (il giornale Völkischer Beobachter a Monaco, più tardi l'Angriff di Goebbels a Berlino e, inoltre, fogli regionali). Adunate in ogni centro con regia psicologica, azioni massicce di disturbo dei comizi altrui preparavano l'inserzione del partito nei Parlamenti regionali e nello stesso Reich. Questa affermazione del Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi si veniva intensificando nella grande crisi economica del 1929-30 che, tra l'altro, faceva milioni di disoccupati. In questa fase il Partito nazista penetrava nelle alte sfere della finanza e dell'esercito, le quali a loro volta pensavano di avvalersi della sua forza d'urto per scardinare il regime della Repubblica di Weimar dominato dalla coalizione delle nuove forze dei socialisti e cattolici che aveva accettato le imposizioni dei vincitori. Codesta alleanza obbligava i governi a legiferare con ordinanze del presidente (il maresciallo Hindenburg), permetteva complessi giochi d'intrigo che portavano l'esponente del nazismo alla Cancelleria (gennaio 1933), sia pure con conservatori alla vicepresidenza (von Papen), agli esteri (Neurath), all'economia (Hugenburg). Ma l'esigenza totalitaria e dittatoriale non tardava a imporsi nel maggiore Land (la Prussia sotto Goering) e successivamente negli altri, col controllo innanzitutto della polizia e dell'amministrazione. La nazificazione (Gleichschaltung) investiva col suo rullo compressore tutti i settori della società. Come dalla Chiesa, i “non-ariani” venivano esclusi dai quadri dell'amministrazione pubblica e dalla stessa attività professionale. Alla scuola venivano imposti programmi d'insegnamento d'ispirazione razzista, l'indottrinamento nazista diveniva il compito primario dell'organizzazione giovanile unitaria e totalitaria (la Hitlerjugend), delle attività ricreative del dopolavoro (Kraft durch Freude), mentre il primato della comunità nazionale era affermato nell'organizzazione corporativa del lavoro (Arbeitsfront). E per i resistenti più tenaci nella politica, nella scuola, nelle chiese venivano apprestati “campi di rieducazione”, di concentramento, che sarebbero divenuti campi di morte, sotto la sorveglianza di una polizia speciale (SS). La nuova classe dirigente veniva ricostituita su basi ideologico-razziali e assicurata da norme punitive nei riguardi dei rapporti sessuali tra ariani e non-ariani, dalla sterilizzazione prevista per gli affetti da “deficienze congenite, schizofrenia, mania depressiva, epilessia, sordità e cecità ereditarie” (già nel 1935 gli sterilizzati erano più di 200.000), dal configurare un primato razziale dei rurali in virtù della connessione tra “sangue e terra”. L'offesa al sentimento völkisch (insieme nazionale e razziale) era già di per sé reato, e il senso völkisch del diritto doveva prevalere sul diritto codificato. Per questa strada si arrivò alla creazione di centri di selezione per ottenere prodotti razzialmente puri. Il partito s'era venuto sviluppando con una struttura gerarchica dominata dal principio e dalla persona del Führer (capo) con l'unione nella figura del gerarca (Gauleiter) di cariche di partito e cariche amministrative. In esso venivano via via eliminate una sinistra (il “fronte nero” di O. Strasser), la preminenza delle Sturmabteilungen (“reparti d'assalto”) di Röhm a favore d'una milizia più selezionata e più legata al Führer, le SS di Himmler, col massacro delle SA (30 giugno 1934) e con l'eliminazione in questa occasione di scomode personalità della Destra, senza intervento dell'esercito. Così le Schutzstaffeln (“squadre di protezione”) dominavano la polizia, l'apparato di propaganda, intensificando la penetrazione dell'ideologia e del partito nella società e nello Stato. E questo si attuava anche fuori della Germania per la suggestione esercitata dal nazionalsocialismo sui movimenti antidemocratici, autoritari, del tempo, con alleanze dichiarate (per esempio col fascismo italiano, con le croci uncinate magiare e romene, coi “rexisti” belgi).

La politica estera

In politica estera, il nazionalsocialismo, fattosi Stato, dapprima lasciava agire con cautela i diplomatici della vecchia scuola, limitandosi a intrighi e putsch quali l'assassinio di Dollfuss in Austria (1934), realizzando già così, però, rivendicazioni revisioniste in misura dei cedimenti delle potenze e delle loro rivalità (rimilitarizzazione, Anschluss dell'Austria, Sudeti). Alimentando l'irrequietudine dei tedeschi fuori del Reich, provocava però, con la rivendicazione di Danzica, la II guerra mondiale (settembre 1939). Nel corso della guerra, che lo portava a controllare interi Paesi in Europa fra il 1939 e il 1944, il nazionalsocialismo faceva le sue esperienze più conseguenziarie, delle quali la “decisione definitiva” della deportazione ed eliminazione degli Ebrei fu l'espressione più cruda. E furono uomini e comandi delle SS, sempre più dominatori di partito e Stato, sia pur in rivalità con la Reichswehr, con l'ausilio di gruppi dei diversi Paesi partecipi dell'ideologia autoritaria e antisemitica in Francia, Olanda, Norvegia, ad applicare i principi di egemonia razziale, specialmente nei Paesi dell'Est. La forza delle armi coalizzate di Gran Bretagna, USA, URSS infranse lo “Stato delle SS”, attuando poi nella Germania occupata la “denazificazione”, invero in misura e con intensità diversa nelle differenti zone. Questa però non è riuscita a distruggere totalmente il nazionalsocialismo, che è riaffiorato in movimenti di Destra e in nostalgici di Germania e di altri Paesi coi suoi simboli (la svastica solare) e il suo antisemitismo.

Bibliografia

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