Piazza Fontana, l'eredità della strage secondo l'ultimo superstite

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Intervista a Fortunato Zinni, l'ultimo testimone vivente di quel tragico 12 dicembre 1969.

Il 12 dicembre 1969 alle 16.37 una bomba devastava la sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana a Milano, portandosi via le vite di 17 cittadini, che in quel momento si trovavano all’interno dell’edificio. Una strage ancora oggi rimasta senza colpevoli, sebbene la magistratura abbia individuato in un gruppo eversivo che faceva capo al movimento neofascista Ordine Nuovo, la progettazione e l’esecuzione dell’attentato.
Quel giorno in banca era presente anche Fortunato Zinni, all’epoca 29enne, e oggi l’ultimo sopravvissuto alla strage rimasto in vita. Su quei fatti ha scritto il libro "Piazza Fontana, nessuno è Stato" e da oltre cinquant'anni porta la sua testimonianza di una giornata che ha vissuro in prima persona e che ha segnato indelebilmente la Storia del nostro Paese.

Zinni, per molti la strage di Piazza Fontana viene vista come uno spartiacque tra gli anni sessanta e gli anni Settanta, come il punto d'inizio di una delle pagine più oscure della storia italiana. Lei è d'accordo con questa definizione?
«È una definizione che non mi convince molto. Questa narrazione della strage di piazza Fontana come momento in cui l’Italia perde la propria innocenza suona quasi come un alibi per quelli che negli anni successivi allo scoppio della bomba hanno scelto la lotta armata, per i terroristi, che vedono in quell’attentato un innalzamento dello scontro che avrebbe legittimato, secondo la loro ottica, il ricorso alle armi. Ma anche l’estrema destra eversiva, che, seguendo questa logica, scarica sullo Stato ogni responsabilità, e si autoassolve. La verità è che l’Italia l’innocenza l’aveva già persa e la sua coscienza civile era già macchiata di sangue».

In quale momento?
«Senza dubbio con i vent’anni di regime fascista. Se non vogliamo andare troppo indietro, possiamo citare la strage di Portella della Ginestra del 1947, in cui furono uccisi quattordici manifestanti comunisti che festeggiavano il Primo Maggio; la strage di Reggio Emilia nel 1960, una manifestazione sindacale in cui morirono 5 persone uccise dalle forze dell’Ordine; l’eccidio di Avola nel ‘68, quando durante una protesta contadina furono uccisi due manifestanti; la rivolta di Battipaglia del ‘69, in cui morirono 2 manifestanti. C’era una generazione intera che aveva ben presente quali fossero le “controindicazioni” di vivere in una democrazia ancora giovane. Piazza Fontana segna però una svolta».

In che modo?
«Il dissenso tra le parti sociali in quel momento fa un salto di qualità. Prima le vittime erano obiettivi con un’identità ben definita: un manifestante in protesta, un operaio, un contadino. Con la bomba del 12 dicembre si colpisce nel mucchio. Quei 17 morti erano cittadini che semplicemente si trovavano in una banca. E il bilancio poteva essere molto più alto se fosse esploso anche l’ordigno ritrovato lo stesso giorno nella banca commerciale di piazza della Scala a Milano. Parliamo di un edificio in cui lavoravano 2000 persone».

C’è comunque un prima e un dopo il 12 dicembre 1969?
«Il prima lo raccontano bene i giornali usciti in edicola proprio in quella data. La notizia del giorno era l’approvazione in prima seduta al Senato dello statuto dei lavoratori. Era un periodo di grande fermento. Un pezzo di Italia era consapevole che il Paese stesse ripartendo senza che quel cosiddetto benessere venisse equamente ripartito. La gente scendeva in strada per rivendicare diritti sacrosanti: salari adeguati, la casa, servizi degni di un Paese civile. Era la stagione dei grandi scioperi, della protesta degli operai che si unì a quella degli studenti, dell’autunno caldo. Una stagione di conquiste storiche, che agli occhi di qualcuno non poteva più essere tollerata. Ecco le ragioni che hanno portato alla strage».

E il dopo?
«Oltre a quel salto di qualità nell’uso della violenza di cui ho parlato prima, ci sono altri due avvenimenti importanti. Da un lato la scelta degli inquirenti di seguire fin da subito e a tutti i costi una pista di indagini che individuava nel movimento anarchico i responsabili dell’attentato. Un filone del tutto inventato, che portò all’incarcerazione da innocente del ballerino Pietro Valpreda e alla vicenda di Giuseppe “Pino” Pinelli, ferroviere anarchico morto dopo essere caduto dal quinto piano della Questura di Milano durante un lunghissimo interrogatorio.
Il secondo, e più importante, fu la risposta dei cittadini: 300.000 milanesi che il 15 dicembre, in occasione dei funerali delle vittime, si sono trovati compatti, irremovibili sul sagrato del Duomo senza parlare, senza un grido e senza alcun simbolo di partito o slogan. Erano zitti e in quel silenzio hanno fatto sentire la loro voce a chi voleva che l’Italia dichiarasse lo stato di emergenza, per trascinarla verso una forma di governo dittatoriale, sulla scia di quelle che in quel momento erano presenti nell’Europa del Mediterraneo, con i fascisti in Grecia, Spagna e Portogallo. Era questo che voleva chi ha fatto esplodere la bomba».

Chi ha messo la bomba?
«Io sono tra i sostenitori dell’ipotesi che quella di piazza Fontana sia stata una strage di Stato. Ma questa è solo una parte di verità. Nella piazza c’è una lapide che recita così “Strage di piazza Fontana, 17 vittime, ordigno collocato dal gruppo di estrema destra Ordine Nuovo” e anche questa è solo una parte di verità. Se la regia è da cercare tra i potenti di turno, gli esecutori di quella strage erano la manovalanza fascista e nazista. Queste sono le conclusioni a cui è giunta la magistratura nel 2005 (data in cui si conclude il terzo processo legato alla strage), cioè che storicamente questa è una strage con matrice nazifascista, individuando nel movimento Ordine Nuovo l'area di provenienza e quindi in Franco Freda e Giovanni Ventura la responsabilità dell'organizzazione della strage (questi ultimi non più perseguibili, perché già assolti in passato per lo stesso reato per mancanza di prove, ndr). Ma anche questa è una verità parziale. Perché sì, c’erano i “manovali” di Ordine Nuovo, ma chi li aveva mandati?».

Perché si parla di strage di Stato?
«Io ho letto 1 milione e 220 mila pagine di atti giudiziari su piazza Fontana. Tra quelle pagine si legge chiaramente un dito puntato contro la gestione della Suprema Corte dei processi: la scelta di trasferire i procedimenti da Milano a Catanzaro e a Bari, la scelta di tutelare Guido Giannettini, attivista di estrema destra che si è rivelato essere a libro paga del Sid (i servizi segreti italiani)... Il messaggio era chiaro: “Lo Stato non può essere giudicato”. E lo fecero intuire i politici stessi, quando, chiamati a testimoniare nel corso del processo di Catanzaro: ex presidenti del Consiglio ed ex ministri, come Mariano Rumor, Giulio Andreotti, Mario Tanassi, che si esibirono in una serie di “non so, non ricordo”. Una figura pessima. Lo ribadì il Parlamento, quando negò l'autorizzazione a procedere nei loro confronti per falsa testimonianza».

Nelle sue testimonianze sottolinea spesso il ruolo nella ricerca della verità delle vedove e delle famiglie a cui questa strage ha tolto moltissimo.
«Ci sono in questa vicenda delle eroine civili, che non conosce nessuno. E in questo anche l’informazione ha delle responsabilità. Queste eroine hanno subito un'incredibile violenza giudiziaria. A queste donne è stato impedito il diritto di partecipare con un carico di lutti e di dolore a un processo che a un certo punto è stato mandato a 1.350 chilometri di distanza, per decisione di sei toghe di ermellino, che hanno deciso di trasferirlo da Milano a Catanzaro. Tutte loro: Costantina Ferrari, Annunciata Balossini, Luigina Corbellini, Olga Cottini, Anna Maria Maiocchi, Nives Gioveti. Rosa Galatioto, che mandò un telegramma al presidente della Corte scrivendo “Lei mi ha invitato a venire a Catanzaro, ma non posso: devo assistere la mia famiglia. Però sappia come la penso: state istruendo un processo eterodiretto dalla Suprema Corte”. Anna De Gubernatis, che quel viaggio verso Catanzaro lo fece, arrivando in aula stremata. La dovemmo portare a braccia nella palestra del carcere militare, dove si svolgeva il processo. Appena De Gubernatis entrò in aula, il presidente, il giudice Pietro Scuteri, un gentiluomo del Sud vecchio stampo, fermò il processo, andò di persona da lei, la abbracciò, la fece accomodare e chiese di portarle un bicchiere. Dal banco degli imputati, un uomo in maglioncino bianco si voltò, e, puntando il dito contro il giudice, disse: “Si vergogni! Sfruttare le vedove per condannare degli innocenti”. Quell’uomo era Franco Freda di Ordine Nuovo».

Come fu raccontata la strage di piazza Fontana dall’informazione dell’epoca?
«Le racconto un aneddoto, che forse aiuta a capire. Pochi giorni dopo la strage ci furono i funerali di Pino Pinelli. Vidi in televisione un servizio in cui una troupe aveva raggiunto le figlie di Pinelli, che ritornavano a scuola dopo la morte del padre. Le accompagnava la nonna, che, vedendo avvicinarsi i giornalisti, cercò di proteggere le bambine, coprendole con uno scialle nero. Non bastò. Uno dei cronisti infilò il microfono sotto lo scialle e chiese “Cosa si prova a essere la figlia di un mostro?”».

In più di un’occasione lei ha parlato di Giuseppe Pinelli come della diciottesima vittima della strage, perché?
«In realtà non è una decisione mia, ma dell’associazione dei familiari delle vittime. Ed è significativo. Io nei confronti della famiglia Pinelli ho un rimpianto. Il giorno dopo l’attentato, sabato 13 dicembre, il procuratore capo Enrico De Peppo, ci autorizzò ad aprire la banca (che era sotto sequestro per le indagini), dicendoci che avevano già individuato i colpevoli in un gruppo di anarchici. Avevamo due giorni per rimettere a posto una sede devastata. Per riuscirci organizzammo turni che coprivano 24 ore e decidemmo di devolvere tutti i compensi straordinari in un fondo per i figli minorenni delle vittime e per i fratelli Pizzamiglio, due ragazzi rimasti feriti nello scoppio. Quando vidi il filmato delle figlie di Pinelli, ne fui talmente scosso che convocai un’assemblea dei lavoratori e feci la mia proposta: aggiungere Silvia e Claudia Pinelli alla lista di beneficiari del fondo. Io da sindacalista ho condotto molte assemblee, a tutti i livelli. Le ho sempre vinte. Tranne quella. Eravamo in 312 e persi per 8 voti, con i colleghi contrari che agitavano le copie del Corriere d'informazione, dove in prima pagina campeggiava il titolone “La furia della bestia umana” con la foto di Pietro Valpreda. Ci vollero sei mesi prima che si iniziasse a parlare di “pista nera”».

Lei da cinquant’anni porta tra ragazzi e studenti il ricordo di quella giornata. Com’è andata la prima volta?
«Fu a Padova, in un’università. Ci andai con un altro lavoratore della banca e con Piero Bassetti, da poco eletto presidente della Regione Lombardia. Ero molto emozionato, ma nel silenzio assoluto di quei ragazzi che mi ascoltavano capii che il mio racconto stava scuotendo le loro coscienze. Avevo la percezione, poi diventata convinzione, che quello fosse il mio destino: continuare a reclamare giustizia e a raccontare quello che era successo. È la stessa sensazione di oggi.
Io, così come gli altri narratori della memoria (come i sopravvissuti alla strage di Bologna) abbiamo il dovere di andare nei posti dove ci chiamano a raccontare i nostri ricordi, che non possono che essere soggettivi. Ma raccontati a dei ragazzi di 17-18 anni che ascoltano in religioso silenzio, diventano memoria collettiva.
Ovviamente nessuno pretende che i ragazzi e gli studenti prendano per oro colato tutto quello che viene detto loro. Ma oggi hanno gli strumenti per verificare, per approfondire quello che viene loro racconto. E lo devono fare, hanno il dovere di farlo. Devono chiedersi perché la giustizia non ha funzionato. La memoria collettiva si costruisce così».

Marco Vannicelli