Terremoto dell'Irpinia del 1980: storia di una tragedia
Il terremoto dell’Irpinia del 1980 fu non solo una tragedia, ma anche uno specchio capace di mettere in evidenza fragilità antiche e limiti strutturali per troppo tempo ignorati. La forza del sisma rivelò la vulnerabilità di territori segnati da decenni di spopolamento, da edifici non adeguati e da infrastrutture insufficienti. Allo stesso tempo, però, mise in moto un’ondata di solidarietà che attraversò l’Italia e superò i confini nazionali.
Il 23 novembre 1980 una scossa sismica di straordinaria intensità colpì vaste aree dell’Appennino meridionale, tra Campania e Basilicata, causando uno dei terremoti più gravi nella storia italiana dal secondo dopoguerra. Il sisma investì soprattutto l’Irpinia, ma gli effetti furono avvertiti in tutto il Sud: in poco più di un minuto, la vita quotidiana lasciò spazio a uno scenario apocalittico, in cui una fredda serata invernale venne spezzata da un avvenimento straordinario che raggiunse livelli distruttivi molto gravi. La portata del terremoto in Irpinia fu chiara quasi da subito: la durata insolitamente lunga della scossa, l’ampiezza dell’area colpita e la vulnerabilità edilizia di molti centri contribuirono a un bilancio pesantissimo. Nei giorni successivi furono avviate le prime verifiche ufficiali, mentre le notizie arrivavano con una lentezza angosciante a causa dell’interruzione delle comunicazioni e dell’isolamento in cui versavano numerosi paesi. Vediamo insieme nel dettaglio che cosa successe, come fu gestita la fase di ricostruzione e quali furono le cause.
Terremoto dell'Irpinia: dal sisma alla tragedia
Secondo i dati ufficiali, il terremoto dell’Irpinia colpì alle 19:34 di domenica 23 novembre 1980: un orario che aumentò tragicamente il numero delle vittime, riunite in casa per la cena. La scossa principale, con un ipocentro di circa 10 km di profondità, raggiunse una magnitudo di 6.9 (pari al X grado della scala Mercalli), un valore che colloca l’evento tra i più forti registrati in Italia nel Novecento.
Per comprendere meglio la portata di questo dato, è utile ricordare che la scala della magnitudo è logaritmica: ogni punto in più corrisponde a liberare un’energia circa 32 volte maggiore del precedente e oscillazioni 10 volte più grandi. In termini pratici, un terremoto di magnitudo 4 può risultare un’esperienza sgradevole ma raramente provoca danni, mentre un evento di magnitudo 5 genera fluttuazioni 10 volte superiori e può causare danni in edifici vulnerabili. Ma già un terremoto di magnitudo 6 (10x10 =100 volte superiori) è in grado di produrre effetti seri in aree urbanizzate e, come è facile dedurre, un valore di 6.9 (siamo a quasi 1.000 volte superiori) rappresenta un livello capace di generare distruzioni significative su un territorio esteso, soprattutto quando — come avvenne per il terremoto dell’Irpinia del 1980 — la scossa si protrae per 60–90 secondi, una durata molto superiore alla media dei terremoti italiani di analoga potenza.
Uno scenario apocalittico
L’epicentro del terremoto dell’Irpinia del 1980 venne individuato tra i comuni di Teora, Castelnuovo di Conza e Conza della Campania: da questa zona le onde sismiche si propagarono rapidamente lungo l’Appennino meridionale, colpendo un’area di 17.000 km e raggiungendo quasi 700 comuni tra Campania, Basilicata e Puglia, a cavallo delle province di Avellino, Salerno e Potenza.
Molti edifici crollarono durante la scossa principale, altri divennero inagibili nei giorni successivi: le tre province che subirono i maggiori danni materiali furono quelle di Avellino (in 103 comuni), Salerno (in 66 comuni) e Potenza (in 45 comuni). In 36 comuni epicentrali si contarono circa 20.000 alloggi distrutti o irrecuperabili mentre in altri 244 comuni delle province di Avellino, Benevento, Caserta, Matera, Foggia, Napoli, Potenza e Salerno altri 50.000 alloggi subirono danni da gravissimi a medio-gravi.
Molte lesioni e crolli coinvolsero anche la città di Napoli, dove furono interessati molti edifici fatiscenti e vecchie abitazioni in tufo: basti pensare che nel quartiere di Poggioreale crollò un intero palazzo, che da solo provocò 52 morti. A Balvaro, nel potentino, il crollo di una chiesa provocò la morte di 77 persone, di cui ben 66 tra bambini e adolescenti, che stavano partecipando alla messa della domenica.
L’ampiezza territoriale degli effetti, unita alla lunga durata della scossa, contribuì a delineare la gravità del terremoto dell’Irpinia: il bilancio finale fu drammatico e comprese circa 2.900 vittime, oltre 8.000 feriti e quasi 300.000 sfollati.
Il fatale ritardo degli aiuti
Nelle prime ore dopo il terremoto, l’estensione del disastro rimase sconosciuta a causa del crollo delle comunicazioni: i telegiornali parlarono soltanto di una generica scossa in Campania, mentre dai comuni dell’Irpinia non arrivava alcuna informazione. La reale dimensione dell’evento divenne evidente solo nella mattina del 24 novembre, quando una ricognizione in elicottero mostrò interi centri abitati distrutti e un numero crescente di località colpite.
A mano a mano che le notizie raggiungevano le redazioni, anche la stampa riportò l’evolversi della situazione: Il Mattino titolò il 24 novembre “Un minuto di terrore – I morti sono centinaia”, poi, con dati più completi, passò a “I morti sono migliaia – 100.000 i senzatetto”, fino all’appello del 26 novembre “Fate presto”, divenuto uno dei simboli di quei giorni. Le prime cifre, stimate spesso per eccesso a causa della difficoltà di ricognizione, vennero poi ridimensionate, mentre il numero dei senzatetto rimase imprecisato.
Parallelamente, emersero fin da subito difficoltà nei soccorsi: l’isolamento geografico dell’entroterra, il crollo di ponti e infrastrutture, il danneggiamento delle reti elettriche e di comunicazione e l’assenza, all’epoca, di una struttura nazionale di protezione civile resero complesso organizzare interventi rapidi e coordinati.
L'appello di Sandro Pertini
Il presidente della Repubblica Sandro Pertini fu tra i primi a richiamare l’attenzione su questa situazione: il 25 novembre si recò personalmente nelle zone colpite e, una volta rientrato a Roma, rivolse un messaggio televisivo agli italiani in cui segnalò la gravità dei ritardi e delle difficoltà operative. Le sue parole portarono a provvedimenti immediati e contribuirono a mobilitare numerosi volontari provenienti da tutta Italia, che ebbero un ruolo cruciale nei primi giorni dell’emergenza.
L’appello del Presidente contribuì anche ad ampliare la rete degli aiuti provenienti dall’estero: molti Paesi si attivarono rapidamente inviando fondi, mezzi e personale specializzato. Arrivarono contributi economici e squadre di soccorso dagli Stati Uniti, dalla Germania Ovest, dalla Francia, dall’Austria, dalla Svizzera e da altre nazioni, che misero a disposizione ospedali da campo, unità militari, elicotteri, gruppi cinofili e tecnici per le operazioni di emergenza. Questi interventi si affiancarono alla mobilitazione interna, che vide impegnate numerose organizzazioni e migliaia di volontari.
Tra le realtà italiane che si attivarono con maggiore rapidità vi fu la Federazione Unitaria CGIL-CISL-UIL, che partecipò alle operazioni di aiuto attraverso raccolte di beni di prima necessità e l’invio di personale specializzato nelle zone colpite. Le strutture sindacali organizzarono la distribuzione degli aiuti e coordinarono l’arrivo di lavoratori volontari provenienti da diverse parti del Paese e dall’estero, contribuendo alla gestione dell’emergenza e alle prime attività di recupero.
Irpinia, dopo il terremoto: la ricostruzione
La fase della ricostruzione iniziò dopo il primo periodo di emergenza, quando furono allestiti campi, aree di accoglienza e strutture temporanee per ospitare gli sfollati. Nei mesi successivi vennero avviati sopralluoghi tecnici per valutare gli edifici coinvolti e definire i piani di intervento, ma il processo che seguì fu lungo e complesso: in molti comuni si procedette alla realizzazione di nuovi quartieri, con edifici progettati secondo criteri antisismici più rigorosi; le infrastrutture furono ripensate per migliorare i collegamenti interni e ridurre l’isolamento delle aree montane, mentre strade, scuole, ospedali e servizi vennero ricostruiti o rinnovati, contribuendo alla trasformazione urbanistica di intere comunità.
La ricostruzione comportò inoltre un aggiornamento dei piani regolatori in numerosi comuni e la definizione di nuove zone edificabili. L’impatto del sisma non si limitò dunque ai crolli immediati, ma modificò in modo permanente la struttura del territorio, influenzando la disposizione dei centri abitati e le scelte urbanistiche dei decenni successivi. A distanza di 45 anni, la memoria dell’evento continua a essere custodita nelle comunità locali e nella documentazione ufficiale che ne ha ricostruito dinamica e conseguenze.
Terremoto dell'Irpinia: cause e contesto geologico
Il terremoto dell’Irpinia del 1980 si sviluppò in un territorio in cui l’attività sismica è parte della sua stessa storia naturale: nell’Appennino meridionale, infatti, i movimenti delle placche africana ed eurasiatica creano da sempre un sistema di faglie che attraversa la dorsale appenninica e che può liberare energia in modo improvviso e intenso.
In questo scenario, la scossa del 23 novembre 1980 si sviluppò attraverso la rottura di più segmenti di faglia, una dinamica che ampliò sia l’area interessata sia la durata del movimento del terreno: è questo intreccio di meccanismi a spiegare perché il sisma fu percepito in un territorio così vasto e perché lasciò segni profondi in molte comunità dell’entroterra.
Il contesto edilizio del tempo, come abbiamo visto, contribuì notevolmente ad aumentare gli effetti del terremoto: gran parte degli edifici, soprattutto nei centri minori, era costruita secondo criteri tradizionali in muratura, senza gli accorgimenti antisismici introdotti solo in anni successivi. Di fronte a una scossa lunga e intensa, queste strutture non riuscirono a mantenere la stabilità, e i crolli coinvolsero interi isolati, accentuando tragicamente la gravità dell’evento.
Paola Greco
Foto di apertura: Pro Loco Compsa, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons