Cos’è il buco dell’ozono: cause, conseguenze e soluzioni

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Il buco dell’ozono resta uno dei fenomeni ambientali più emblematici, con cause chiaramente individuate e conseguenze gravi per la salute umana e gli ecosistemi. Tuttavia, la sua evoluzione mostra anche che le azioni concrete, coordinate a livello globale, possono invertire tendenze preoccupanti

Per decenni il “buco dell’ozono” è stato uno dei simboli più forti della crisi ambientale globale, e non a caso: riguarda infatti lo strato che protegge la vita sul nostro pianeta filtrando gran parte delle radiazioni ultraviolette provenienti dal sole, essenziali per la vita ma devastanti se non filtrate correttamente. Lo strato di ozono presente nella stratosfera terrestre agisce infatti come un vero e proprio scudo naturale, ma — a partire dalla fine del XX secolo — gli scienziati hanno osservato un fenomeno preoccupante: in alcune regioni, lo strato di ozono si è drasticamente assottigliato. Questo fenomeno è noto come “buco dell’ozono” ed ha suscitato allarme a livello globale, per le gravi implicazioni ambientali e per la salute. Comprendere cos’è il buco dell’ozono, cos’è successo e perché, nonché cosa sta succedendo oggi, è fondamentale per leggere con lucidità un tema spesso dato per scontato.

Cos’è il buco dell’ozono e dove si trova

Lo strato di ozono — noto come ozonosfera — è una fascia della stratosfera dove le molecole di ozono sono particolarmente concentrate: questo strato funge da schermo fondamentale per l’intercettazione di radiazioni letali per la vita sulla Terra, assorbendo del tutto la componente UV-C delle dannose radiazioni ultraviolette, e per il 90% la componente UV-B.

Lo strato di ozono si forma principalmente nella stratosfera, alle latitudini tropicali, da cui si sposta grazie alla circolazione globale per accumularsi maggiormente alle alte latitudini e ai poli. Questo strato può assottigliarsi ma non può scomparire del tutto: è per questo che il “buco dell’ozono” non è un buco vero e proprio, ma piuttosto una riduzione marcata e stagionale della concentrazione di ozono stratosferico, che indebolisce la capacità di filtraggio dello strato.

Le regioni più colpite, principalmente in primavera, sono quelle polari: soprattutto l’Antartide, ma durante la primavera dell’emisfero australe (tra settembre e novembre) sono stati osservati fenomeni di assottigliamento sull’Artide, anche se in misura minore.

Cause del buco dell’ozono

Le cause del buco dell’ozono sono ormai ben note e riguardano soprattutto l’emissione, avvenuta per decenni, di alcune sostanze artificiali chiamate CFC, HCFC e halon. Questi composti, impiegati in passato nei sistemi di refrigerazione, nei condizionatori, nelle bombolette spray e nelle schiume isolanti, sono chimicamente molto stabili: per questo riescono a salire lentamente fino alla stratosfera senza degradarsi lungo il tragitto.

Una volta raggiunta la stratosfera, la radiazione ultravioletta proveniente dal Sole spezza le loro molecole e libera atomi di cloro e di bromo: questi atomi sono estremamente reattivi e innescano una serie di reazioni che portano alla distruzione dell’ozono. Il meccanismo è particolarmente dannoso perché il cloro e il bromo agiscono come catalizzatori: non si consumano nel processo e possono quindi distruggere migliaia di molecole di ozono prima di essere neutralizzati da altri processi atmosferici.

Il motivo per cui l’assottigliamento dello strato è così marcato soprattutto sopra l’Antartide risiede nelle condizioni atmosferiche uniche delle regioni polari: durante l’inverno australe, la stratosfera si raffredda a tal punto da permettere la formazione delle nuvole stratosferiche polari, minuscole strutture ghiacciate sulle quali avvengono reazioni chimiche capaci di trasformare il cloro e il bromo in forme ancora più reattive. Quando la luce solare torna in primavera, queste sostanze si attivano simultaneamente e provocano una rapida e intensa distruzione dell’ozono, dando origine al caratteristico “buco” stagionale.

Oltre a questo fenomeno molto evidente, esiste anche un assottigliamento più lento e diffuso dello strato di ozono a livello globale, anch’esso legato alla presenza delle stesse sostanze chimiche, dimostrando che gli effetti delle emissioni umane non si limitano ai poli, ma coinvolgono l’intero equilibrio dell’ozonosfera.

Un recente elemento che complica ulteriormente la situazione, viene dagli incendi catastrofici verificatisi in Australia nel 2019–2020: secondo una ricerca, il fumo generato da quei roghi ha avuto un impatto diretto sullo strato di ozono, portando a una perdita stimata dell’1% circa dell’ozono stratosferico globale. Questo suggerisce che, anche se le emissioni di CFC sono state drasticamente ridotte, eventi estremi come mega-incendi — sempre più probabili con il cambiamento climatico — rappresentano una nuova minaccia per la stabilità dell’ozonosfera.

Conseguenze del buco dell’ozono

Quando lo strato di ozono si assottiglia, la protezione naturale che filtra i raggi ultravioletti viene indebolita. Di conseguenza, una maggiore quantità di queste radiazioni nocive raggiunge la superficie terrestre — con effetti concreti sulla salute umana, sugli ecosistemi e sull’ambiente in senso più ampio. 

Per quanto riguarda la salute umana, l’aumento delle radiazioni UV-B comporta un aumento del rischio di malattie gravi: è accertato che favorisce l’insorgenza di tumori cutanei (tra cui forme aggressive come il melanoma), e di carcinomi della pelle. Allo stesso tempo, le radiazioni possono danneggiare gli occhi, aumentano i casi di cataratta e di altre patologie oculari legate all’esposizione solare. A questi rischi si aggiunge un possibile indebolimento del sistema immunitario: l’eccessiva esposizione a UV-B può ridurre la capacità di difesa dell’organismo, rendendo più vulnerabili a infezioni e a danni cellulari. 

Le ripercussioni ambientali e sugli ecosistemi sono altrettanto gravi: nelle piante, un maggior irraggiamento UV-B può compromettere la fotosintesi, rallentare la crescita, alterare lo sviluppo e ridurre la produttività agricola o forestale. Nel mondo marino, le conseguenze possono essere particolarmente drammatiche: il fitoplancton — alla base della catena alimentare oceanica e fondamentale per l’assorbimento di CO₂ atmosferica — è sensibile agli UV aumentati, tanto che questi possono far calare la sua produttività, con effetti a cascata su pesci, crostacei e altre forme di vita marina che dipendono da esso. 

Un’ulteriore conseguenza, spesso meno evidente, riguarda il deterioramento del materiale e degli ecosistemi terrestri: l’aumento dei raggi UV può accelerare il degrado di polimeri, legno, vernici e altri materiali esposti all’esterno. 

Insomma: un indebolimento dello strato di ozono significa una minore protezione naturale contro radiazioni potenzialmente molto pericolose. Questo si traduce in un aumento dei rischi per la salute umana, in danni profondi agli ecosistemi terrestri e marini, e, più in generale, in un aumento della fragilità ambientale del pianeta.

Il buco dell’ozono dal 1974 a oggi: come è cambiato e cosa ci dicono i dati scientifici

Dalla metà del Novecento, quando si scoprì che nella stratosfera esiste uno strato ricco di ozono capace di schermare i raggi ultravioletti, l’attenzione scientifica si è progressivamente concentrata sul suo stato di salute. Le prime misurazioni sistematiche degli anni Settanta rivelarono un assottigliamento anomalo sopra le regioni polari; un fenomeno che nel 1985 venne definitivamente riconosciuto nella sua gravità: fu allora che il termine “buco dell’ozono” entrò nel lessico pubblico e politico, portando i governi a intervenire rapidamente. La risposta arrivò con il Protocollo di Montréal del 1987, che impose la graduale eliminazione dei clorofluorocarburi, i CFC, all’epoca considerati i principali responsabili della distruzione dell’ozono. Nel giro di pochi anni oltre 90 Paesi si impegnarono a sospenderne la produzione.

Con l’avanzare della ricerca, però, emerse un quadro più complesso. Gli studi degli anni Duemila hanno dimostrato che, accanto ai CFC di origine antropica, esistono sorgenti naturali di clorocarburi, come per esempio il clorometano prodotto da processi biologici terrestri e marini. Questo ha acceso un intenso dibattito: alcuni gruppi attribuivano all’attività vulcanica e ad altre dinamiche naturali un ruolo più significativo del previsto, mentre altri — sulla base di analisi più complete — confermavano che l’impatto dei composti sintetici prodotti dall’uomo rimaneva comunque determinante.

A partire dal nuovo millennio, però, i segnali incoraggianti non sono mancati: nel 2016 uno studio ha mostrato che l’assottigliamento antartico si era ridotto di circa 4 milioni di chilometri quadrati rispetto al picco del 2000, grazie al drastico calo delle emissioni di CFC. Nel 2018, poi, la NASA ha confermato una riduzione complessiva del 20% rispetto ai livelli del 2005. La ripresa, tuttavia, non è lineare: nel 2020, per esempio, condizioni meteorologiche eccezionalmente fredde e persistenti hanno portato alla formazione di un buco dell’ozono insolitamente esteso, che si è poi chiuso a fine anno.

Il quadro più recente mostra comunque una tendenza positiva: nel 2025 NASA e NOAA hanno infatti classificato il buco dell’ozono antartico come uno dei più piccoli dal 1992: un’evoluzione che suggerisce come le politiche globali di riduzione dei CFC stiano continuando a produrre effetti reali, pur all’interno di un sistema atmosferico influenzato da variabilità naturali complesse.E oggi, i dati più recenti offrono un motivo concreto di speranza: il buco dell’ozono si è chiuso il 1° dicembre 2025, segnando la chiusura più precoce dalla stagione 2019, e risulta tra i più piccoli mai registrati. 

Il fatto che nel 2025 il buco dell’ozono si sia chiuso in anticipo e abbia raggiunto dimensioni insolitamente contenute rappresenta un segnale estremamente incoraggiante ed è la prova tangibile dei progressi costanti che si stanno osservando nel recupero dell’ozonosfera, frutto diretto della messa al bando delle sostanze che la danneggiavano. Questo risultato ricorda in modo potente ciò che la cooperazione internazionale può ottenere quando sceglie di affrontare insieme un problema ambientale globale.

Paola Greco

Foto di apertura: Foto wirestock su Freepik