Il canto nelle chiese d'Occidente e d'Oriente

Si è soliti chiamare cantus planus, canto piano, il canto sviluppatosi nelle chiese cristiane d'Occidente e d'Oriente, per la sensazione di calma che suscita in virtù della sua unità di tempo indivisibile e del limitato numero di gradi che ricopre nella scala musicale. È un canto che per un lungo tratto della sua evoluzione non conoscerà accompagnamento strumentale, centrandosi sulla voce umana e avvalendosi pienamente della cantabilità, al fine di assumere in modo esclusivo i tratti semplici ed elevati della preghiera.

Il canto liturgico cristiano comprende due vasti gruppi: occidentale, in cui l'espressione è di lingua latina; orientale, dove invece è usata la lingua dei singoli paesi a cui appartengono di volta in volta le comunità che celebrano il culto. Questi due ampi raggruppamenti si diversificano poi, al loro interno, in vari riti con specifiche linee di canto.

Nelle chiese occidentali

Il canto liturgico occidentale (o latino) prende denominazioni diverse a seconda dei vari riti: gregoriano, ambrosiano, gallicano, mozarabico (nella Spagna). Sensibile fu l'influsso che i vari riti esercitarono l'uno sull'altro e risulta talora arduo ricostruirne i motivi originali. Le melodie liturgiche sono contenute nel Graduale, nel Responsoriale, nell'Antifonario ecc. e sono cantate dai sacerdoti officianti l'atto o dal coro all'unisono. In età imprecisata venne introdotto l'uso dell'organo quale ausilio ai cantori.

Il canto liturgico si caratterizza per due stili diversi: sillabico, con una sola nota o pochissime per ogni sillaba; vocalizzato, con gruppi di note per ogni sillaba. Caratteristica originaria del canto liturgico (già presente nei riti ebraici) è la forma ornamentale, che abbellisce le cadenze nelle pause dell'interpunzione dei testi. In questo modo, la stessa melodia serviva per diversi testi, sia in prosa, sia in poesia. Solo più tardi furono introdotte delle varianti per distinguere la maggiore o minore solennità delle feste: per esempio, le cinque varianti del Kyrie, o il bellissimo graduale Iustus ut palma florebit, che viene cantato ben 22 volte nell'anno liturgico in ricorrenze diverse. A questa indipendenza della melodia dal testo fanno eccezione alcune melodie (per esempio, il noto introito Exsurge Domine), che si legano strettamente al testo: in questo senso, il canto liturgico si aprì a continue variazioni, diventando più efficace nella comunicativa e più ricco nell'espressione. Purtroppo, però, quando la ricerca dell'espressione diventava un canone fondamentale della musica, il canto liturgico era già entrato nella sua fase di decadenza.

Il ritmo del canto liturgico non era "a battuta" e non esisteva probabilmente una sua precisa misurazione, ma questa veniva piuttosto affidata alla sensibilità individuale; il fatto è attestato dai codici, la metà dei quali porta solo le note, mentre l'altra metà è corredata di segni o lettere che precisano i valori di lunghezza o di brevità delle note stesse. È importante notare che l'accentazione non seguiva l'accento tonico della parola, ma quello della frase e del periodo, tendendo a seguire la pura vena melodica nei passi dove il motivo s'arricchiva di ornamenti: di assoluta musicalità è, per esempio, il versetto Pascha nostrum immolatus est Christus, ma il caso è frequentissimo anche in altre melodie. Degno di rilievo anche il fatto che, dove la salmodia è fondata sull'accento, questo si trova solo alla fine della frase o del periodo.

Per i toni, base del canto liturgico sono gli 8 modi con denominazione greca di: dorico, ipodorico, frigio, ipofrigio, lidio, ipolidio, misolidio, ipomisolidio. La loro classificazione è lontana dal concetto che di essa hanno i moderni e serve solo a classificare i canti in modo da poterli connettere con le loro rispettive antifone. Su questi toni, il canto liturgico crea con grande libertà le sue melodie, al punto che lo stesso canto si trova trascritto nei codici con tonalità diverse. La scrittura delle note era fatta in lettere o segni (note o neumi).

Nelle chiese orientali

Il canto liturgico orientale comprende i canti greco-bizantini, greco-slavi, armeni, siriaci, maroniti, copti e abissini. Elementi comuni a questa interessante varietà di espressioni musicali sono: la loro esecuzione in tre stili diversi (rapida, solo sillabico; lenta, per l'introduzione di ornamenti; lentissima, per il prevalere dei vocalizzi sul sillabico); la presenza di due scale (di re e di do); l'indipendenza della nota finale dalla fondamentale; il moltiplicarsi dell'ornamentazione con gruppetti di note ricorrenti a ogni istante; l'introduzione di alterazioni con semitoni o intervalli inferiori al semitono.

Tutti questi sistemi musicali hanno gli elementi generali del ritmo comune, specialmente per quanto riguarda la divisione del tempo. E, poiché le note rappresentano valori di tempo che stanno fra loro in proporzioni matematiche, nell'esecuzione si usa distinguere fra il modo in cui la scansione è rigorosa, fino al martellamento, e quello invece (detto "tempo rubato") lasciato alla libera esecuzione del cantore.

Unici strumenti tollerati nell'esecuzione del canto liturgico sono quelli a percussione e talora il ritmo si manifesta esteriormente attraverso la danza. Manca nel canto liturgico orientale la polifonia, mentre caratteristici sono la nasalità e il tremolio.