Biografia

(sanscrito, Buddhá, l'Illuminato). Il nome dato tradizionalmente al fondatore del buddhismo , Siddhartha Gautama (o Gotama) del clan Sākya (a capo di uno staterello dell'attuale Nepal). Siddhartha sarebbe stato il figlio del re dei Sākya, e quindi un membro della casta dei guerrieri; mentre secondo un'altra tradizione sarebbe appartenuto alla casta dei brahmani (sacerdoti). Gli studiosi moderni fissano le sue date di nascita e di morte, rispettivamente, al 560 e al 480 a. C. Numerose leggende compongono la sua biografia tradizionale: tutte con un particolare significato metastorico. A prescindere dalla verità storica, e tanto per dare un senso all'azione del Buddha, ricorderemo lo schema biografico essenziale. Siddhartha, educato a corte lontano dalle miserie del mondo, scopre il dolore incontrando casualmente, durante una passeggiata, un vecchio, un ammalato, un cadavere e un monaco. Decide perciò di abbandonare la vita mondana, la moglie e il figlio per abbracciare la via dell'ascesi e segue gli insegnamenti dei due brahmani, maestri di yoga, Arāḍa Kālāma e Udraka Rāmaputra. Non pago della loro dottrina, si sottopone a straordinarie privazioni che gli procurano l'ammirazione di cinque discepoli. Poi però comprende l'inutilità dell'ascesi e abbandona tale vita. I discepoli delusi lo lasciano e se ne vanno a Benares. Siddharta, solo, si reca in un bosco e, sedutosi sotto un albero di pippal (Ficus religiosa), fa voto solenne di non muoversi di lì finché non avrà raggiunto la conoscenza. Facendo uso di tutte le pratiche yoga, attraverso una serie di meditazioni profonde, giunge infine alla “Verità”, “Conquista”, “Illuminazione” e diventa onnisciente. Decide di proclamare questa “verità” agli uomini e, per primi, ai cinque discepoli che lo avevano abbandonato.

Il "discorso di Benares"

Egli li raggiunge a Benares, dove rivela loro di essere Buddha (ossia un “illuminato”) e pronuncia il celebre “discorso di Benares”, che costituisce il nucleo fondamentale del buddhismo: essenza della vita è il dolore (prima verità), che trova la sua origine nella sete di vivere, prodotta dai desideri dei sensi e dall'ignoranza (seconda verità). È quindi necessario distruggere il dolore (terza verità) attraverso l'ottuplice sentiero, che porta alla liberazione dall'esistenza, al nirvana (quarta verità). Per quarant'anni il Buddha predicò con incessante attività la sua dottrina, facendo molti discepoli e proseliti e morì a 80 anni, dicendo allo sconsolato discepolo Ananda che “il credente sa vincere anche il dolore del distacco”, raccomandando ancora una volta l'osservanza della dottrina e ricordando che “tutto è transitorio”.

Iconografia

Mutate esigenze di culto e complesse sollecitazioni culturali favorirono, nell'arte indiana del periodo di transizione (sec. II d. C.), la raffigurazione dell'immagine umana del Buddha, rappresentato invece nelle antiche scuole aniconiche attraverso simboli (impronta dei piedi, un trono vuoto, un turbante, un cavallo senza cavaliere). L'immagine umana del Buddha apparve quasi simultaneamente nell'arte indiana negli stili di tre scuole diverse: quella del Gandhara, di formazione ellenistica e greco-iranica, attiva al nord-ovest; quella di Mathura al nord, erede degli stili di Bharhut e di Sanchi, che aveva assunto, tramite i Kushāna, elementi iranici; e infine quella un po' più tarda di Amaravati, nel sud-est, pure vincolata alle esperienze plastiche di Bharhut e di Sanchi, sensibile, oltre ad apporti dell'oriente romano, alle influenze ellenistiche e iraniche riecheggiate dalle scuole settentrionali. Attraverso la diffusione e la penetrazione del buddhismo nel mondo asiatico si attuarono fecondi incontri con tradizioni estetiche e iconografiche che arricchirono e trasformarono i modelli iconografici originari elaborati nel sec. II d. C. La figura del Buddha che allora ne era scaturita corrispondeva perfettamente a quella descritta nei testi. Il Buddha plasmato dall'arte greco-buddhista reca alcuni dei 32 “segni del superuomo” e degli 80 “segni sussidiari” che erano stati predetti come caratterizzazione sul “corpo glorioso” del Buddha. Particolari essenziali che ogni scuola di scultura e di pittura si sforzò, pur nelle diverse interpretazioni, di raffigurare: l'ushnisha (turbante), che nella statuaria è stato tradotto come una protuberanza del cranio (di forma tonda nel Gandhara, conica nell'arte cambogiana, a cuspide in quella siamese, fiammeggiante in quella laotiana); l'urna tra le sopracciglia; l'impronta della Ruota della Legge (chakra) sul palmo della mano o sulla pianta dei piedi; il lobo delle sue orecchie “tre volte più lungo del normale”. Secondo gli atteggiamenti e i gesti (asana e mudra) in cui viene raffigurato , il Buddha esprime meditazione, rassicurazione, carità, testimonianza, messa in moto della Ruota della Legge per evocare il primo sermone.

Bibliografia

A. Foucher, La vie du Bouddha d'après les textes et les monuments de l'Inde, Parigi, 1949; E. H. Brewster, Gotama le Bouddha, sa vie d'après les Ècritures Palie, Parigi, 1951; M. Percherom, Le Bouddha et le Bouddhisme, Parigi, 1956; W. Rahula, L'enseignement du Bouddha, Parigi, 1961; A. Bareau, Recherches sur la biographie du Bouddha, Parigi, 1963; M. Bussagli, Che cosa ha veramente detto Buddha, Roma, 1968; A. Bareau, Buddha, Milano, 1972; O. Botto, Buddha e il Buddhismo, Milano, 1984.

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