Biografia

Uomo politico statunitense (Shadwell, Virginia, 1743-Monticello, Virginia, 1826). Figlio di un convinto democratico e di una discendente dell'eminente famiglia dei Randolph, compì i suoi studi al William and Mary College. Avvocato, eletto nel 1769 alla House of Burgesses (il Parlamento della Virginia), fu tra i primi a pronunciarsi a favore dell'indipendenza. Nel 1773 fu tra gli organizzatori del Comitato di corrispondenza della Virginia, l'anno seguente divenne membro del Comitato di salute pubblica e della Convenzione della colonia, che nel 1775 rappresentò al Congresso continentale, dove si distinse per la sua abilità di teorizzatore dei diritti delle colonie. Fu l'autore della Dichiarazione di Indipendenza del 1776. Tornato in Virginia, dal 1776 al 1783 si dedicò all'organizzazione dello Stato del quale si impegnò a democratizzare le strutture in conformità ai suoi principi antiaristocratici. Eletto al Congresso degli USA nel 1783, l'anno seguente fece parte con B. Franklin e J. Adams della delegazione che negoziò a Parigi i trattati commerciali con le potenze europee. Ministro in Francia dal 1785 al 1789, fu profondamente influenzato dall'illuminismo francese. Nel 1789 G. Washington lo chiamò a far parte del suo governo con la carica di segretario di Stato. Nel 1800 ottenne il mandato presidenziale, riconfermato ancora una volta nel 1804. Abbandonata poi la vita politica si dedicò completamente all'architettura.

Il pensiero e l'impegno politico

La convivenza con A. Hamilton nel governo non fu facile per Jefferson, poiché i due uomini erano divisi da profonde differenze ideologiche e di carattere. Capofila degli antifederalisti del Sud, Jefferson era idealista quanto Hamilton era realista; assai colto, sognava per gli USA un avvenire imperniato sull'avvento di una democrazia rurale di piccoli proprietari, nella quale la semplicità e l'uguaglianza avrebbero prevalso contro l'affarismo e la sete di ricchezza caratteristiche degli ambienti mercantili dell'Est. Benché rivelatosi ben presto utopistico, il “mito agrario” jeffersoniano rimarrà una costante periodicamente riemergente nella storia americana. Durante la sua permanenza al governo, Jefferson riuscì ad assicurarsi l'appoggio degli elementi democratici di New York; ebbe luogo così quella saldatura tra questi e gli agricoltori della Virginia che costituì la base del Partito repubblicano (come si chiamava allora l'attuale Partito democratico) e che resta tuttora (intesa in senso lato come convergenza tra i lavoratori del Nord e gli esponenti del “solido Sud”) la base del partito democratico. Sconfitto da Adams alle elezioni del 1796, Jefferson ottenne il mandato presidenziale nel 1800 con un voto della Camera che, anche grazie all'appoggio che gli fornì il suo grande avversario Hamilton, lo preferì ad Aaron Burr che aveva ottenuto lo stesso numero di suffragi dal collegio elettorale. Divenuto presidente cercò di tradurre in pratica la sua concezione democratica: accettando infatti la teoria contrattualistica, egli asseriva che “lo Stato è un male necessario” correggibile solo con il sistema rappresentativo sotto le forme di governo locale, al quale si deve attribuire maggior potere perché più vicino al popolo e quindi in grado d'interpretarne la volontà, e federale, per le questioni di carattere generale e di politica estera. Convinto assertore di un'educazione schiettamente laica, fu intransigente verso ogni intromissione della religione nella vita politica. Anche se non riuscì a realizzare pienamente i principi ai quali si ispirava la sua filosofia, il suo governo costituì un notevole progresso sulla via della democratizzazione delle istituzioni americane, sino allora dominate dall'oligarchia federalista. Tra l'altro fu introdotto il suffragio universale maschile e furono abolite le leggi che favorivano la grande proprietà fondiaria e in genere gli interessi delle classi economicamente dominanti. In politica estera i maggiori problemi che dovette affrontare furono quello della Louisiana – l'immenso territorio che, retrocesso dalla Spagna alla Francia nel 1800, rischiava di bloccare lo sviluppo a Ovest degli USA – e quello della neutralità americana. Il primo fu risolto nel 1803 con l'acquisto del territorio dalla Francia per 15 milioni di dollari. Con tale acquisto, che è considerato il miglior affare di tutta la storia americana, gli USA diventarono padroni dell'intero sistema del Mississippi, ponendo definitivamente le basi per la loro espansione a Ovest. Non altrettanto successo ottennero gli sforzi di Jefferson per imporre ai belligeranti europei il rispetto della neutralità americana. L'Embargo Act emanato nel 1807 danneggiò gli interessi americani più di quelli inglesi e francesi, tanto che lo stesso Jefferson lo revocò il 1º marzo 1809, tre giorni prima di lasciare la presidenza, alla quale era stato rieletto nel 1804.

L'attività di architetto

Jefferson occupa un posto di rilievo anche nell'ambito della storia dell'architettura americana. Già appassionato artista dilettante, nel 1809 abbandonata la vita politica si dedicò completamente agli studi di architettura. Legato inizialmente ai modelli palladiani, passò in seguito a un personale approfondimento dell'architettura romana, le cui forme applicò con intendimenti propagandistico-celebrativi dell'ideologia democratica e repubblicana. Tra le sue opere, che diffusero le forme classiche negli USA, il Campidoglio della Virginia a Richmond (1785-96), eseguito con la consulenza di Clérisseau sul modello della Maison Carrée di Nîmes, e l'Università di Charlottesville (1817-26), in collaborazione con B. H. Latrobe. Attivo anche in campo urbanistico, con la Land Ordinance (1785) applicò lo schema a griglia alla colonizzazione dei territori dell'Ovest. A tale schema si mantenne fedele anche nelle proposte d'ampliamento di Richmond, mentre per Jeffersonville (1802) e New Orleans (1804) riprese il tracciato a scacchiera con aree libere interposte già proposto da W. Penn per Filadelfia.

Bibliografia

G. Chinard, Thomas Jefferson, the Apostle of Americanism, Boston, 1939; Sarah N. Randolph, The Domestic Life of Thomas Jefferson, Cambridge, 1939; Nevins e Commager, America, storia di un popolo libero, Milano, 1956.

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