Lessico

agg. (pl. m. -ci) [sec. XVII; dal greco dēmokratikós]. Della democrazia, ispirato ai principi fondamentali della democrazia e conforme ai suoi metodi: governo democratico; partiti democratici; politica democratica; sentimenti democratici. Per estensione, che è alla mano, che tratta con affabilità le persone di grado inferiore. Come sm., fautore della democrazia; iscritto a un partito democratico.

Dottrine politiche

Il concetto democratico si attua attraverso i partiti democratici, quali movimenti politici che mirano ad affermare, nella società e nello Stato, i principi ispiratori della rappresentanza popolare. Nel periodo che va dalle rivoluzioni americana e francese alla II guerra mondiale, i partiti democratici si distinsero per la lotta, condotta in diversi Paesi, in favore di una più vigile partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, tanto estendendo il diritto elettorale a tutti i settori della società, quanto utilizzando gli strumenti della democrazia diretta (referendum, iniziativa popolare). Scopo primario di questi partiti ha finito per essere l'effettivo allargamento a tutti gli individui dei diritti e delle garanzie di uguaglianza politica previsti formalmente dalle costituzioni liberali. In Italia i partiti democratici s'identificarono nella “Sinistra storica”, nei radicali e nei repubblicani; in Francia nel partito radical-democratico; in Russia nel partito dei Cadetti (o costituzionale), in Germania e in Austria nel partito democratico-sociale o social-democratico; in Gran Bretagna nel laburismo, mentre il primo grande partito designato con tale nome venne fondato negli Stati Uniti alla fine del sec. XVIII.

Storia dei movimenti politici: il partito democratico americano

(Democratic Party). Già nel corso del sec. XVIII erano presenti nelle colonie inglesi d'America numerosi gruppi di opinione e fazioni politiche e intorno al 1792 si formò, attorno a Jefferson e a Madison, un movimento politico (antenato dell'attuale partito democratico) di opposizione alle misure economiche di Hamilton e al partito federalista, giudicato troppo accentratore e legato agli interessi industriali e commerciali degli Stati dell'Est. Poiché Jefferson era profondamente convinto che la politica dei rivali mirasse all'instaurazione della monarchia, il partito si chiamò dapprima repubblicano e poi democratico-repubblicano. Fin dal 1791 esso diffuse con successo le sue tesi per mezzo del giornale National Gazette edito a Filadelfia. Già nelle elezioni presidenziali del 1793 apparve chiaro che le basi elettorali del movimento erano i piantatori del “Solid South” (in particolare della Virginia) alleati al North Carolina e allo Stato di New York: “I coltivatori e i debitori – si disse – contro i parassiti e i creditori”. Per la dialettica politica fu tuttavia determinante la crisi francese, durante la quale i repubblicani si schierarono a favore della rivoluzione; di qui una loro colorazione “democratica” in contrapposizione a quella “aristocratica” dei federalisti, anche se le differenze tra i due partiti furono, sin dall'inizio, assai più formali che sostanziali e molto spesso le divergenze furono dettate da considerazioni locali e contingenti. La prima campagna elettorale dopo Washington (1796) si svolse in condizioni di grande incertezza, ma solo con le elezioni del 1800 il partito riuscì a conquistare il potere; Jefferson divenne presidente, Camera e Senato ebbero una larga maggioranza democratica. Dopo Jefferson il partito restò al potere per un quarto di secolo, con J. Madison (1809) e J. Monroe (1817), caratterizzando la propria azione con un programma in difesa delle libertà costituzionali e dell'autonomia degli Stati. A cominciare dal 1815, sparì anche la più tenue differenza fra i due partiti; i repubblicani avevano ormai abbracciato il concetto di “unità nazionale” e quindi di un forte governo centrale tipico dei federalisti. Proprio da questa pacificazione generale nacquero, all'interno del partito democratico-repubblicano, due movimenti che si raggrupparono attorno ai due binomi Jackson-Calhoun e Adams-Clay, i quali tra il 1823 e il 1828 si batterono per la supremazia oltreché per la presidenza. Sorsero così, mentre scompariva completamente il partito federalista (1824), il partito democratico e il partito whig di tendenza più conservatrice. Le elezioni del 1828 segnarono il trionfo di Jackson e del partito democratico che rappresentava i gruppi progressisti. Coinvolto nel dramma della guerra civile, il partito democratico per alcuni decenni perse di incidenza nella lotta politica statunitense. Fu S. G. Cleveland a riconquistare la presidenza (1885-89 e 1893-97) con una linea di opposizione al prevalere degli interessi della nascente grande industria. Nuovamente sconfitto dai repubblicani, solo nel 1912 il partito democratico tornò alla presidenza con Th. W. Wilson. Il tentativo wilsoniano, dopo la vittoria nella prima guerra mondiale, di far accettare i principi democratici a tutto il mondo suscitò la reazione dei settori tradizionalmente isolazionisti del Paese, che nel 1920 sconfissero il candidato democratico. Ma la crisi del 1929 doveva ridare il potere a un democratico, F. D. Roosevelt, che riuscì a riportare la prosperità economica nel Paese. A Roosevelt succedette (1945) il vicepresidente H. Truman, rieletto nel 1948. Pur conservando la maggioranza al Congresso, nel 1952 il partito democratico cedette la Casa Bianca al prestigio di D. Eisenhower e solo nel 1960 J. F. Kennedy riportò il partito alla presidenza. Assassinato Kennedy nel 1963, la presidenza passò a L. Johnson, che si proponeva di condurre a compimento il programma kennediano di “una grande società” ricca e giusta. Ma il conflitto vietnamita fece fallire tali aspirazioni, consentendo al repubblicano Nixon di divenire presidente nel 1968 e di essere rieletto nel 1972. Il discredito gettato sull'amministrazione di Nixon, costretto alle dimissioni dallo scandalo Watergate nel 1974, e la successiva incolore presidenza di G. Ford crearono le condizioni favorevoli a una nuova affermazione del partito democratico nelle elezioni del 1976, che portarono alla presidenza J. Carter, sconfitto dal repubblicano Reagan nel 1980. Nelle successive elezioni presidenziali del 1984 e del 1988 i candidati del partito democratico vennero battuti rispettivamente da Reagan e Bush, anche se il partito confermava una maggioranza di membri eletti nel Congresso, e solo nel 1992 il partito riuscì a riconquistare la Casa Bianca con Bill Clinton. Alcuni scandali e le incertezze mostrate dal nuovo presidente nei primi anni del suo mandato indebolirono, però, la stabilità dell'elettorato democratico, come dimostrarono le elezioni parziali per il rinnovo del Congresso, vinte nel 1994 dai repubblicani. Il recupero di Clinton nelle presidenziali del 1996 – vinte facilmente anche perché la candidatura di Bob Dole opposta dai repubblicani si rivelò piuttosto debole – non fu però sufficiente a riportare il consenso elettorale e il partito democratico risultò nuovamente penalizzato perdendo la maggioranza al Congresso e al Senato. Le elezioni presidenziali del 2000 videro una sconfitta di misura del partito democratico: con uno scarto minimo di voti sul candidato democratico, Al Gore, veniva eletto infatti il repubblicano George Bush, figlio dell'ex presidente George Bush senior.

Bibliografia

M. Duverger, I partiti politici, Milano, 1961; G. Maranini, Il tiranno senza volto, Milano, 1963; S. Volterra, Sistemi elettorali e partiti in America, Milano, 1963; A. Colombo, Metodologia e storia nelle dottrine politiche, Milano, 1964; R. Michels, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, Bologna, 1966; P. Avril, Saggio sui partiti, Torino, 1990.

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