Descrizione generale

agg. (pl. m. -ci) [sec. XVIII; di liturgia]. Che riguarda la liturgia della Chiesa: cerimonie liturgiche; atti liturgici, la messa, i sacramenti, l'ufficio divino; canto liturgico, repertorio di canti eseguiti durante gli atti liturgici della Chiesa cattolica, nei vari riti; anno liturgico, vedi anno; calendario liturgico, quello che stabilisce le feste ecclesiastiche. § Canto liturgico, comprende due vasti gruppi: occidentale, in cui viene usata la lingua latina; orientale, dove invece è usata la lingua dei singoli Paesi ai quali questo gruppo appartiene. Il canto liturgico occidentale (o latino) prende denominazioni diverse secondo i vari riti: gregoriano, ambrosiano, gallicano, mozarabico. Nel corso dei secoli, sensibile fu l'influsso che i vari riti esercitarono l'uno sull'altro e risulta talora arduo ricostruirne i motivi originali. Le melodie liturgiche sono contenute nel Graduale, nel Responsoriale, nell'Antifonario, ecc. e sono cantate dai sacerdoti officianti l'atto o dal coro all'unisono. In tempo imprecisato venne introdotto l'uso dell'organo quale ausilio ai cantori. Il canto liturgico si caratterizza per due stili diversi: sillabico, con una sola nota o pochissime per ogni sillaba; vocalizzato, con gruppi di note per ogni sillaba. Caratteristica originaria del canto liturgico (già presente nei riti ebraici) è la forma ornamentale, che abbellisce le cadenze nelle pause dell'interpunzione dei testi. In questo modo la stessa melodia serviva per diversi testi sia in prosa sia in poesia. Solo più tardi furono introdotte delle varianti per distinguere la maggiore o minore solennità delle feste: per esempio, le cinque varianti del Kyrie o il bellissimo graduale Iustus ut palma florebit, che viene cantato ben ventidue volte nell'anno liturgico in ricorrenze diverse. A questa indipendenza della melodia dal testo fanno eccezione alcune melodie (per esempio il noto introito Exurge Domine) che si legano strettamente al testo: in questo senso il canto liturgico si aprì a continue variazioni, diventando più efficace nella comunicativa e più ricco nell'espressione. Purtroppo però, quando la ricerca dell'espressione diventava un canone fondamentale della musica, il canto liturgico era già entrato nella sua fase di decadenza. Il ritmo del canto liturgico non era “a battuta” e non esisteva probabilmente una sua precisa misurazione, ma veniva piuttosto affidata alla sensibilità individuale; il fatto è attestato dai codici, la metà dei quali porta solo le note, mentre l'altra metà è corredata di segni o lettere che precisano i valori di lunghezza o di brevità delle note. È importante notare che l'accentazione non seguiva l'accento tonico della parola ma quello della frase e del periodo tendendo a seguire la pura vena melodica nei passi dove il motivo s'arricchiva di ornamenti: di assoluta musicalità è, per esempio, il versetto Pascha nostrum immolatus est Christus, ma il caso è frequentissimo anche in altre melodie. Degno di rilievo anche il fatto che, dove la salmodia è fondata sull'accento, questo si trova solo alla fine della frase o del periodo. Per i toni base del canto liturgico sono gli otto modi con denominazione greca di: dorico, ipodorico, frigio, ipofrigio, lidio, misolidio, ipomisolidio. La loro classificazione è lontana dal concetto che di essa hanno i moderni e serve solo a classificare i canti in modo da poterli connettere con le loro rispettive antifone. Su questi toni il canto liturgico crea con grande libertà le sue melodie al punto che lo stesso canto si trova trascritto nei codici con tonalità diverse. La scrittura delle note era fatta in lettere o segni (note o neumi). Il canto liturgico orientale comprende i canti liturgici bizantini, greco-slavi, armeni, siriaci, maroniti, copti e abissini. Elementi comuni a questa interessante varietà di espressioni musicali sono: la loro esecuzione in tre stili diversi: rapida, solo sillabico; lenta, per l'introduzione di ornamenti; lentissima, per il prevalere dei vocalizzi sul sillabico; la presenza di due scale: di re e di do, la prima con la nota fondamentale do e con le note modali mi e sol (spesso trasportata in fa con il si bemolle); l'indipendenza della nota finale dalla fondamentale; il moltiplicarsi dell'ornamentazione con gruppetti di note ricorrenti a ogni istante; l'introduzione di alterazioni con semitoni o inferiori al semitono. Tutti questi sistemi musicali liturgici hanno gli elementi generali del ritmo comune, specialmente per quanto riguarda la divisione del tempo. E poiché le note rappresentano valori di tempo che stanno fra loro in proporzioni matematiche, nell'esecuzione si usa distinguere fra il modo in cui la scansione è rigorosa fino al martellamento e quello invece (detto “tempo rubato”) lasciato alla libera esecuzione del cantore. Unici strumenti tollerati nell'esecuzione del canto liturgico sono quelli a percussione e talora il ritmo si manifesta esteriormente attraverso la danza. Manca nel canto liturgico orientale la polifonia, mentre caratteristici sono la nasalità e il tremolio.

Cenni storici

Fino al sec. III i cristiani cantarono in greco ed è probabile che le prime manifestazioni di canto liturgico avvenissero sotto l'influsso di musiche ebraiche, greche e orientali: secondo la tradizione, infatti, i canti erano eseguiti con una nota costante, intervallata da cadenze melodiche alle interpunzioni; il canto recitato in processo di tempo s'impreziosì di tutta una gamma di ornamentazioni, in cui regnava sovrano il vocalizzo; anzi, in alcuni canti, specialmente d'origine orientale o africana, questo ne formava tutta la sostanza musicale. Tali canti entrarono nel patrimonio del cristianesimo europeo, con la varietà degli apportatori di queste tradizioni e subendo adattamenti dai vari ambienti dai quali erano recepiti. Vennero così a formarsi quattro filoni. Nell'ambrosiano il canto è vocalizzato secondo la maniera orientale con melodie molto diluite o, per contrasto, con altre asciutte e molto incisive, dando in complesso il senso dell'arcaico e del solenne. A essi si aggiunsero molti inni, che ebbero come autore Sant'Ambrogio e che furono eseguiti su melodie popolari preesistenti. Il gregoriano fa parte dell'ampia riforma liturgica operata da papa Gregorio I (Magno) fra i sec. VI e VII e include un buon numero di canti ambrosiani, anche se non si può affermare che il canto gregoriano derivi da quello ambrosiano. Più probabile è la loro derivazione comune da una medesima fonte. Il mozarabico era il canto della liturgia visigotica in Spagna, esteso poi a tutta la penisola dal Concilio di Toledo (633). Fu poi sostituito quasi completamenteda quello gregoriano e oggi è usato solo in una cappella del duomo di Toledo. Il gallicano ebbe probabilmente influenze orientali attraverso Sant'Ireneo, vescovo di Lione (sec. II), ma di origine orientale. Sicuro è il suo legame con quello ambrosiano. Con Pipino e Carlo Magno vi si aggiunse l'influenza del gregoriano. Progressivamente, su questi filoni prevalse quello gregoriano, che si andò cristallizzando, mentre sorgeva il canto polifonico (notizie certe dal sec. XI). Con il sec. XV ogni interesse per il canto liturgico tradizionale tramontò e risorse solo nel sec. XVIII con lo sviluppo dell'archeologia cristiana. In sintesi il canto liturgico fu il nucleo essenziale di tutta l'arte musicale del Medioevo; nella sua esecuzione a più voci gettò il germe della polifonia; alla musica moderna diede l'apporto di una tradizione più che millenaria per quanto concerne il tono, il ritmo della melodia e l'estetica del canto.

Lingua liturgica

Fin dai primi tempi dell'evangelizzazione cristiana dell'Occidente si usò anche nella liturgia la lingua greca. Infatti il primo centro di diffusione del cristianesimo, dopo Gerusalemme, fu Antiochia, provincia romana di lingua e cultura greca. Mentre nella Siria e poco per volta in tutte le regioni orientali si adottarono le lingue locali (siriaco, arabo, armeno, ecc.), nell'Impero romano si usò il greco, la lingua delle grandi città. Verso la metà del sec. IV, il greco non era più compreso a Roma e si ebbe il primo grande cambiamento con l'introduzione nella liturgia del latino, che rimase lingua unica e immutata, diventando un grande elemento di unità nella Chiesa. Il Concilio di Trento ravvisò l'utilità di adottare le lingue parlate, ma non giudicò opportuno il cambiamento a causa della riforma protestante, che aveva abbandonato il latino per il volgare. La questione della lingua liturgica fu lungamente dibattuta al Concilio Vaticano II il quale, pur riconoscendo il latino come lingua propria della Chiesa latina, ha ammesso l'uso delle lingue moderne, affinché i fedeli possano comprendere le celebrazioni sacre. Dal 1964 è così iniziato il secondo grande cambiamento nella storia della liturgia, con il passaggio dal latino alle lingue parlate. In questo modo tutte le lingue sono riconosciute atte a celebrare il culto. Praticamente tutta la liturgia è ora celebrata, oltre che in latino, in alcuni luoghi e in occasioni internazionali, nelle lingue nazionali, secondo le traduzioni approvate dai vescovi delle singole nazioni.

Bibliografia (per il canto liturgico)

U. Sesini, Decadenza e restaurazione del canto liturgico, Milano, 1933; G. Passalacqua, Biografia del gregoriano, Milano, 1964; J. F. Riviera Recio, Estudios sobre la liturgia mozarabe, Toledo, 1965.

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