opzióne

sf. [sec. XIX; dal latino optío-ōnis]. Atto ed effetto dell'optare; facoltà di scegliere liberamente tra due o più possibilità, di cui una esclude in genere le altre. In particolare, diritto di scelta in materia giuridica e contrattuale. § In filosofia, in senso lato, una “scelta” fra cose diverse; in senso stretto Kierkegaard e l'esistenzialismo designano con il termine di opzione un particolare tipo di libertà di scelta: in Kierkegaard è una scelta etica fondamentale (lo “scegliere di scegliere”) e quindi la “scelta di sé”; negli altri maggiori filosofi esistenzialisti (Heidegger, Jaspers, Marcel) è una scelta esistenziale, cioè la scelta dell'esistenza autentica e quindi la scelta radicale e decisiva. § Nel diritto romano il termine ebbe per tutto il periodo classico un significato analogo a quello di electio, come diritto a scegliere fra i vari candidati a una carica pubblica. Più tardi l'opzione divenne un atto solenne, con il quale si rendeva noto a una persona un fatto giuridico di rilievo: per esempio una decisione del legatario all'erede. L'opzione era atto personale non delegabile. Fra le opzioni importanti erano: l'optio servi, la facoltà riconosciuta all'erede di scegliersi il servo; l'optio tutoris, la facoltà concessa per testamento alla donna sotto tutela di scegliersi il tutore. § Nel diritto italiano moderno l'opzione in quanto facoltà di scelta è riconosciuta: al titolare di due o più cariche pubbliche, perché scelga quella che vuole esercitare e rinunci alle altre, evitando un dannoso cumulo di cariche; all'azionista di una società per azioni, che emetta nuove azioni per procedere a un aumento di capitale: l'azionista deve poter scegliere fra le azioni che già possiede e un numero a esse proporzionale delle nuove; a una delle parti contraenti (quando viene stilato un contratto), per cui essa, in base alla facoltà di opzione può accettare o meno la dichiarazione dell'altra parte. § In diritto internazionale si ha l'opzione di nazionalità, quando ai singoli cittadini di un territorio (che, in base a un trattato di pace o in forza di un accordo internazionale passa a un altro Stato) è riconosciuto il diritto di rimanere nel nuovo Stato o di emigrare in quello a cui appartenevano precedentemente al trattato. Questo diritto è stato riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo sancita nel 1948.