Lessico

sf. [sec. XIV; dal latino recitatío-ōnis]. Atto ed effetto del recitare; declamazione o interpretazione di brani in poesia o in prosa: recitazione teatrale; anche il modo e l'arte di recitare: una buona recitazione; scuola di recitazione.

Teatro

L'arte che un tempo si diceva rappresentativa, l'arte del dire un testo in maniera espressiva, di fronte a un pubblico. Si identifica nell'uso con l'interpretazione, cioè con l'arte del dare vita a un personaggio scenico, impiegando non solo il mezzo vocale della dizione, ma la mimica facciale e in genere il “linguaggio” comunicativo di tutto il corpo. L'un elemento o l'altro può prevalere nei diversi stili e tendenze. La mimica facciale è per esempio abolita o limitata dall'impiego della maschera in forme di spettacolo come quelle del teatro classico greco, della Commedia dell'Arte, del teatro orientale, legate talora a origini “rituali”. Nell'epoca moderna si può dire che la storia della recitazione coincida con una continua tensione verso una maggiore “naturalezza”. Ogni riforma teorizzata o praticata (si pensi a quella di Goldoni, volta al superamento degli schemi della Commedia dell'Arte) genera nuove convenzioni (su cui il teatro comunque si basa) contro le quali una generazione successiva di teatranti si ergerà, denunciandole, nel nome di una “verità” che meglio aderisca alla natura, alla vita da riprodurre sul palcoscenico. Il punto d'arrivo di tale aspirazione sempre rinnovantesi è, nell'Ottocento, il naturalismo, che postula l'esistenza di una “quarta parete”, abolendo idealmente la convenzione creata dal boccascena, nell'illusione di riprodurre sul palcoscenico una tranche de vie. A questo punto, che coincide con la nascita di una regia modernamente intesa, ha inizio una reazione antinaturalistica, la quale caratterizza le vicende dello spettacolo novecentesco, assumendo forme diverse di stilizzazione (simbolistica, espressionistica, biomeccanica, ecc.), tra cui va ricordata la paradossale, polemica concezione, agli inizi del secolo, di Gordon Craig secondo il quale la recitazione era affidata all'attore-supermarionetta, con un ritorno alle maschere antiche. Nel corso di questa fioritura di proposte teoriche e pratiche per il superamento del naturalismo vengono anche “recuperati” intellettualisticamente moduli remoti dal punto di vista geografico o temporale: si ricordi l'influenza del teatro orientale sulle teorie di A. Artaud, che stanno alla base di tanto sperimentalismo contemporaneo, mirante a esprimersi fra l'altro mediante una sorta di ritualismo gestuale. Dopo il naturalismo e lo psicologismo stanislavskiano, rilanciato in anni recenti dall'Actors' Studio newyorkese, l'orientamento che ha esercitato maggiore influenza, in direzione diversa da quella di Artaud, è l'“epicità” brechtiana, fondata sul principio dello “straniamento”, di una recitazione in cui l'attore non viva, ma mostri, per così dire, il personaggio, al fine di raggiungere un realismo quintessenziato e dotato di valore pedagogico. Il riferimento alla teoria brechtiana ci conduce a sottolineare l'antitesi fondamentale che si è venuta riproducendo lungo i secoli dell'età moderna tra i sostenitori della soggettivazione e quelli dell'oggettivazione. Tra i sostenitori della seconda fa spicco, nel Settecento, D. Diderot con il suo celebre Paradoxe sur le comédien, dove egli sostenne la necessità del lucido e freddo autocontrollo da parte dell'attore come criterio essenziale per il raggiungimento dell'espressività. La recitazione è naturalmente legata a un'infinità di fattori culturali, sociali, ambientali, tecnici; il suo evolversi dipende fra l'altro dal tipo di repertorio dominante o prescelto, dalle caratteristiche dello spazio scenico e della struttura architettonica del teatro, dal tipo di rapporto con il pubblico e dalla composizione di quest'ultimo, che l'avanguardia contemporanea mira a “coinvolgere” anche fino all'estremo limite dell'happening. L'attore, che nella recitazione fa strumento di se stesso, può essere impiegato nello spettacolo come una “pedina” o può esserne il vero protagonista, anche fuor degli eccessi “mattatoristici” del teatro ottocentesco, cioè con funzione di mediatore tra l'autore e il pubblico, mediatore ormai tuttavia subordinato alla concezione generale di quel supermediatore che è il regista. Il temperamento del singolo attore continua tuttavia il più delle volte ad avere un peso determinante, qualora – s'intende – egli possieda una sua spiccata personalità, la quale può fare di lui, secondo la distinzione di L. Jouvet, un acteur o un comédien. Nell'un caso l'attore ripete in sostanza se stesso, di personaggio in personaggio, nell'altro caso si cela, trasformandosi, nel personaggio di volta in volta interpretato. S'intende che questa distinzione non può essere intesa rigidamente, potendosi avere gradazioni intermedie tra i due estremi, contaminazioni tra le due opposte posizioni.

Cinema

La recitazione cinematografica differisce da quella teatrale in quanto l'attore non interpreta un testo definito con una continuità d'azione in un ambiente scenograficamente conchiuso e di fronte a un pubblico, bensì partecipa alla creazione di un personaggio in un'atmosfera variante e con tecnica spezzettata dalle esigenze di ripresa e di montaggio. Sia che improvvisi sul set, sia che abbia rigorosamente preparato la parte a tavolino con il regista, l'attore di film sa che in primo piano non è, come su un palcoscenico, la sua dizione (che infatti può essere “doppiata”) quanto la mimica, la microfisionomia, l'autocontrollo gestuale. La gesticolazione eccessiva dei primi anni del muto rivelava un'origine teatrale, mentre grandi mimi come Chaplin e Keaton, provenienti dalla disciplina ritmica del music-hall, aderivano appunto alle necessità figurative del cinema e al suo nuovo dinamismo. Né il parlato, pur spalancando le porte agli attori di teatro, mutò sostanzialmente il carattere “visivo” della recitazione per lo schermo, dove l'immagine fisica, l'espressività del volto e del corpo sono più importanti della parola, dove il fascino fotogenico può supplire all'inesperienza dell'attore, dove interpreti “presi dalla strada” risultano talvolta superiori, per naturalezza e realismo, ai maggiori artisti. Analizzata dalla cinepresa fin nei dettagli, frantumata nelle diverse fasi di lavorazione di un film, la personalità umana dell'attore di film, non di rado creatrice, si ricostruisce a opera ultimata, quando i vari frammenti compongono il disegno globale del personaggio.

Bibliografia (per il teatro)

A. Villers, L'art du comédien, Parigi, 1953; B. Matthews, Paper on Acting, New York, 1958; G. Calendoli, L'attore. Storia di un'arte, Roma, 1959; G. A. Bianca, Il cinema, l'attore e il rapporto arte-vita, Messina-Firenze, 1960; L. Chiarini, La recitazione, in “Arte e tecnica del film”, Bari, 1962; K. Stanislavskij, Il lavoro dell'attore su se stesso, Bari, 1991.

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