Lessico

Sm. inv. [sec. XX; abbreviazione di cinematografo, sul modello del francese cinéma].

1) Tutto ciò che concerne lo spettacolo cinematografico e concorre alla sua realizzazione: cinema muto, proiezione di immagini prive di commento sonoro; cinema sonoro, rappresentazione in cui procedono sincronicamente voce e immagine.

2) Per estensione, il locale in cui si proietta il film: entrò nel cinema a metà spettacolo. § Il termine ha avuto larga fortuna al punto di soppiantare quello di cinematografia per indicare la forma di spettacolo e di arte, cui lo strumento di registrazione e riproduzione della realtà, il cinématographe dei fratelli Lumière, ha dato luogo, e quello di cinematografo per designare il locale pubblico in cui viene presentato il prodotto cinematografico, che è il film. Quest'ultimo termine può anche assumere estensivamente lo stesso significato di cinema, inteso nella sua accezione culturale e artistica. La formula “il film è un'arte, il cinema un'industria” (dovuta a L. Chiarini) esprime dunque soltanto una suggestiva contrapposizione polemica; nella realtà linguistica sia l'uno sia l'altro termine vengono adoperati alternativamente nei due sensi. Così la storia del cinema non solo è storia dell'industria e quindi dei fattori tecnici, economici, produttivi, ma anche della cultura, dell'ideologia e, appunto, dell'arte. Per converso, essa non può fermarsi all'esame dei film sotto il profilo estetico, ma ne studia il terreno di nascita e di crescita. Secondo i luoghi, i tempi e le personalità che lo hanno giudicato, il cinema è stato infatti “la prima forma di divertimento” (Codice Hays) e “l'arte più importante” (Lenin), una “potenza internazionale” (Pio XI) e “l'arma più forte” (Mussolini). Senza dubbio è “lo spettacolo del secolo” ma è, insieme, anche “la settima arte”.

Cenni storici: le origini e il muto

La storia del cinema si apre con la preistoria dei pionieri, dall'archeologia della lanterna magica al giorno in cui (28 dicembre 1895) i fratelli Lumière presentano a pagamento l'apparecchio brevettato detto cinématographe al Grand Café di Parigi. Scene domestiche, l'arrivo del treno , l'uscita degli operai: la realtà riprodotta dal vero. Il cinema nasce come documentario, i reportages filmati delle ditte Lumière e Pathé girano il mondo e tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del secolo nuovo trovano imitatori quasi dovunque. Vengono ripresi fatti di cronaca, cerimonie, guerre, cataclismi, competizioni sportive. In Gran Bretagna, attorno al 1900, la scuola di Brighton perfeziona il montaggio; negli USA con Il grande assalto al treno (1903) E. S. Porter anticipa il western. Il cinema fa spettacolo: Ch. Pathé in Francia, Th. A. Edison negli USA si rivolgono alla clientela delle fiere, facendo pagare un soldino, un nichelino (da cui il nome di nickelodeon al locale che accoglie le proiezioni). Con G. Méliès irrompe la fantasia scenica: teatro fisso di sogni, magie fantascientifiche alla Verne, trucchi a non finire, persino la ricostruzione delle attualità. É. Cohl realizza l'arte dell'animazione inventata dal precursore É. Reynaud. Ai primi documentaristi si alternano i primi poeti artigianali. Ma il cinema già si profila come industria: da ambulante si fa stabile, le sale si moltiplicano, le ditte assumono i tecnici, si comincia a intuire il ciclo completo dalla fabbrica del materiale alla produzione del film e alla sua distribuzione sul mercato. Negli USA la guerra dei brevetti sfocia nel trust Eastman-Edison (1907). Per esaudire le crescenti richieste del pubblico si lanciano vari generi di cinema. In Italia la cronaca filmata prelude alla storia: si girano una corsa in auto, le manovre degli alpini e la presa di Roma. Le scene di vita vissuta, che F. Zecca sforna in Francia, vengono perfezionate in USA col finale immancabilmente lieto. Qui fallisce il Film d'Art troppo borghese, là trionfa il film di azione popolare. Dopo il melodramma emerge la farsa, con i primi comici; Max Linder anticipa Charlot. Il genere mondano attecchisce in Danimarca, il letterario ha fortuna in Russia, il film storico, sotto forma di rievocazione del mondo romano improntata al gusto del colossale, è dal 1908 al 1914 la grande trovata italiana (Gli ultimi giorni di Pompei, in due versioni; Quo vadis?, di E. Guazzoni, e Cabiria, di G. Pastrone). L'America ne è ammirata e lo copia. Nell'ombra rimane invece la tendenza naturalistica di Sperduti nel buio(1914, di N. Martoglio), soffocata dalla guerra e ancor più dal fatto che al verismo regionale si preferisce il dannunzianesimo provinciale: attrici come la Bertini e la Borelli, assurte al rango di grandi dive, lo illustrano con languide pose e sorprendenti toilettes. Il genere, adeguatamente diviso tra il floreale, il decadente e il vampiresco, ha successo anche altrove: con la danese Asta Nielsen, con l'americana Theda Bara, con la russa Vera Cholodnaja. La guerra, comunque, rovina l'Italia e prepara la leadership statunitense, per la cui affermazione è determinante la fondazione di Hollywood. Nato in funzione antitrust (dal 1908 al 1913 vanno a girare in California G. M. Anderson, il primo cow-boy, D. W. Griffith, C. B. De Mille, per allontanarsi dalla centrale di New York), il nuovo centro di produzione è destinato, con l'appoggio del capitale bancario, a conseguire il monopolio mondiale. Mentre un immigrato inglese, Charlie Chaplin, prende l'avvio con una lunga serie di comiche per quattro case produttrici, la Triangle riunisce dal 1915 al 1917 D. W. Griffith, che con le sue epopee storiche (Nascita di una nazione, 1915; Intolerance, 1916) crea la drammaturgia cinematografica basata sul montaggio parallelo a suspense; Th. H. Ince, che nei film che hanno per protagonista il cow-boy W. S. Hart innalza il western a tragedia; e Mack Sennett, che con la sua troupe di comici fa della farsa un prodigio di tecnica e d'azione e assicura alla storia del genere una galleria di attori, tra cui lo stesso Chaplin nel personaggio di Charlot. Tra i Paesi europei non investiti dalla guerra, la Svezia afferma una propria scuola, forse la prima che per la purezza dei risultati, ottenuti dall'impasto tra spirito delle saghe antiche, elaborazione letteraria e plasticità di un naturismo spontaneo, riceve l'appellativo di arte dai precursori della critica e della teoria del film. I maestri del cinema svedese sono V. Sjöström (I proscritti, 1917) e M. Stiller (Il tesoro d'Arne, 1919). Anche il cinema russo prerivoluzionario appare sempre molto legato alla letteratura: a quella realistica dell'Ottocento e a quella della decadenza. Della prima corrente il regista più rappresentativo è J. Protazanov (Padre Sergio, 1917), della seconda l'eclettico E. Bauer; l'attore I. Mozzuchin, che con disinvoltura trascorre dall'una all'altra, è il divo principale del periodo. Ma il divismo come tale, o meglio lo star system, è formula squisitamente hollywoodiana: perfezionamento del programma di A. Zukor, che per la sua Famous Players Film Corporation ricorre all'impiego di famous players in famous plays (attori celebri in testi celebri). Tuttavia i primi grossi divi impersonano piuttosto l'americano-tipo: Mary Pickford la “fidanzata d'America”, Douglas Fairbanks l'uomo-che-si-fa-da-sé, il vincitore sorridente, l'eroe positivo ante litteram. Nel 1919 i due attori sono già così popolari da fondare una società di produzione, la United Artists (Artisti Associati), insieme con Griffith, che in quell'anno firma il capolavoro Giglio infranto, e Chaplin, che ha già licenziato diversi capolavori brevi (come La strada della paura o Charlot poliziotto, 1917; Vita da cani e Charlot soldato, 1918) e aspira a divenire, oltre che autore, produttore di se stesso per film di metraggio normale. Alla fine della guerra il condizionamento dell'industria si fa avvertire in modo massiccio. L'importanza del cinema non solo come investimento e affare, ma anche come propaganda (più o meno indiretta) di un costume e di un sistema sociale, non è più contestata da nessuno. Intanto il conflitto mondiale ha paradossalmente giovato anche alla Germania, la quale ha approfittato dell'isolamento degli imperi centrali per edificare una possente industria cinematografica che nel 1917 si coalizza nel trust UFA, assorbendo la concorrenza danese e mutuando dagli italiani il gusto per i colossi storici. I tedeschi hanno in M. Reinhardt il loro Stanislavskij e a questo regista teatrale si rifanno le messinscene fastose di E. Lubitsch e di altri per conquistare i mercati stranieri. Però è la Germania uscita sconfitta e stremata dalla guerra che ispira il grande cinema tedesco dei primi anni Venti. Nel 1919 un film-manifesto, Il gabinetto del dottor Caligari di R. Wiene, simboleggia lo sconvolgimento del Paese nelle scenografie allucinate e contorte firmate da tre artisti del gruppo Der Sturm. Tale simbologia è raggiunta sia attraverso la stilizzazione e la deformazione nella tendenza più propriamente debitrice dell'espressionismo, illustrata da film di fantasmi e di mostri (Golem, 1920, di P. Wegener; Nosferatu il vampiro, 1922, di F. W. Murnau), da evocazioni del passato trasfigurate da luci misteriose (Ombre ammonitrici, 1922, di A. Robinson; Il gabinetto delle figure di cera o Tre amori fantastici, 1924, di P. Leni), sia attraverso un “gioco da camera” più realistico, ma altrettanto emblematico, nella tendenza detta appunto del Kammerspiel, dove la tragedia dell'uomo e l'ineluttabilità del suo destino sono racchiuse entro le pareti della sua casa (La notte di San Silvestro, 1923, di Lupu-Pick) o entro i ritmi del suo lavoro (L'ultimo uomo, 1924, di F. W. Murnau) e nessuna evasione è possibile (La strada, 1924, di K. Grüne). Ma la scuola tedesca, come quella svedese, deve fare i conti con Hollywood. In Svezia, la Svenska Filmindustri, dopo aver toccato l'apogeo con Il carretto fantasma (o Il carrettiere della morte, 1920) di V. Sjöström, La leggenda di Gösta Berling (1924) di M. Stiller e La stregoneria attraverso i secoli (1922), realizzato a Stoccolma dal danese B. Christensen, entra in crisi finanziaria e i suoi maggiori registi cedono al richiamo d'oltreoceano; con Stiller parte anche la sua scoperta, Greta Garbo, dopo avere interpretato in Germania La via senza gioia (1925) di G. W. Pabst. Nel 1924 l'inflazione scuote anche l'UFA e Hollywood acquista in blocco le sue maggiori personalità: il produttore E. Pommer, lo sceneggiatore C. Mayer, gli attori Pola Negri, E. Jannings, C. Veidt, i registi E. Lubitsch, P. Leni, F. W. Murnau. Restano, almeno fino all'avvento del nazismo, F. Lang, che in qualche modo lo prevede con I Nibelunghi (1923-24) e Metropolis (1926), e Pabst, il quale si orienta verso la nuova oggettività e il verismo psicologico e sociale che caratterizzano il cinema tedesco nella seconda metà degli anni Venti e nel passaggio dal muto al sonoro. All'espressionismo tedesco corrisponde in Francia una tendenza che si autodefinisce impressionista per i valori conferiti all'immagine nella tradizione pittorica nazionale, anche se è aperta alle suggestioni dell' “arte muta” straniera. I suoi esponenti sono L. Delluc, G. Dulac, A. Gance, M. L'Herbier, D. Kirsanoff, J. Epstein: quando il caposcuola Delluc muore (1924) il movimento ha già dato il meglio di sé ed è pronto a confluire nell'avanguardia e nel suo vario sperimentalismo. Ma la vera rivoluzione cinematografica viene dall'URSS: qui il montaggio alla Griffith non è più applicato a fini avventurosi, come nel suo Agonia sui ghiacci (1921), ma dialettici; protagonista è l'uomo-massa e per la prima volta lo schermo riflette il punto di vista del proletariato e la lotta di classe. Dziga Vertov con le cinecronache dei soviet (kino-glaz e Kino-pravda) e S. M. Ejzenštejn con Sciopero (1924) e con quell'enorme “attualità ricostruita” che è La corazzata Potëmkin(1925), danno vita a un cinema che travolge ogni schema e rinnova alle fondamenta il linguaggio. Il periodo rivoluzionario del cinema sovietico muto, nato da un'industria nazionalizzata su decreto di Lenin nel 1919, dal libero confronto di svariate poetiche innovatrici e insieme da un poderoso flusso ideologico verso obiettivi comuni, esprime opere e personalità (anche teoriche) di rilevanza internazionale. In dialettica con Ejzenstejn si pone V. Pudovkin (La madre, 1926), che privilegia l'attore e il realismo psicologico gorkiano; più tardi, con l'ucraino A. Dovženko, si costituisce una triade insuperata. In questo decennio in cui l'arte del film raggiunge le sue vette espressive, anche il cinema statunitense annovera personalità d'eccezione. Vi domina l'attore-regista: Chaplin, che eleva il comico a tragedia e il suo personaggio a simbolo dei poveri e degli oppressi; Buster Keaton, che non indebolisce con sentimentalismi il suo universo geometricamente assurdo; E. von Stroheim, crudamente romantico e barocco nella satira del suo mondo di gioventù (Femmine folli, 1922; Sinfonia nuziale, 1928) e della civiltà del danaro (Greed, Rapacità, 1924). Ma Stroheim si scontra coi produttori, come il documentarista R. J. Flaherty, che in Nanuk l'eschimese (1922) e Moana (1926) canta l'uomo primitivo, il suo dramma e la sua innocenza. Secondo la lezione di Greed l'apportostraniero coglie talvolta dell'America realtà inedite. Così l'oriundo tedesco J. von Sternberg coi bassifondi popolati da gangsters, lo svedese Sjöström con le campagne desolate (Il vento, 1928), l'ungherese P. Fejös col ceto impiegatizio, al quale pure dedica uno studio pessimista, “alla tedesca”, l'americano K. Vidor (La folla, 1928). Quanto a Lubitsch, egli si inserisce piacevolmente con le sue commedie ciniche che preludono a quelle sofisticate; Stiller ha meno fortuna della sua interprete, Greta Garbo, che gli vien tolta per farne una star di mai visto splendore; Murnau si unisce a Flaherty nei mari del Sud (Tabù, 1931). Neutralizzato ogni possibile concorrente, dal 1925 Hollywood è padrona dei mercati. I suoi soggetti attingono spregiudicatamente a qualsiasi fonte o folclore, livellandoli per il godimento di qualsiasi pubblico. I suoi divi sono americani (D. Fairbanks, T. Mix, H. Lloyd), latini (R. Valentino), scandinavi (la Garbo), tedeschi (E. Jannings), orientali (S. Hayakawa); i suoi generi vengono perfezionati da registi di ogni provenienza e scuola. I suoi film, distribuiti in ogni continente (anche nell'URSS, che però impone il diritto di scelta), condizionano le altre cinematografie e più spesso, in America Latina, Asia e Africa, ne impediscono la nascita o lo sviluppo. In Europa, l'Italia, ex regina del peplo, ospita i tedeschi per un nuovo Quo vadis? (1924), gli americani per un colossale Ben Hur (1926), e non riesce a risorgere; la Gran Bretagna non imbocca la sua strada; la Svezia è paralizzata dall'esodo dei suoi grandi; la Francia accoglie nel proprio seno un'avanguardia che, astratta e sperimentale com'è, e confinata in piccoli club, non infastidisce i commercianti di pellicola e gli esercenti di sale. Tuttavia nel clima fervidamente artistico di Parigi, dove cubismo, dadaismo e surrealismo producono i loro saggi cinematografici, qualcosa matura: vi compiono le prime prove registi come R. Clair (Entr'acte, 1924) e J. Renoir, vi approdano stranieri di avvenire. Due di essi anzi – il danese C. Th. Dreyer, con La passione di Giovanna d'Arco (1928), vera e propria sinfonia di primi piani, e lo spagnolo L. Buñuel, con l'aggressivo poemetto surrealista che è L'âge d'or (1930), già sonorizzato – vi realizzano addirittura i loro capolavori.

Cenni storici: l'avvento del sonoro

Il cinema si trova innanzi a sé il problema del sonoro e del parlato. Esso era stato presente, come il colore, fin dalle origini, ma gli sviluppi della tecnica ne consentono la soluzione. Gli artisti, Chaplin in testa, sono riluttanti: sanno che l'“arte del silenzio” sta per perdere gran parte della sua espressività. I sovietici, in un manifesto del 1929, teorizzano il fonofilm in funzione asincronica rispetto all'immagine; e così lo impiegano i registi più coscienti, che non vogliono sperperare tutto d'un colpo il patrimonio del muto. Pur con qualche esitazione l'industria hollywoodiana si decide per prima al gran passo quando una casa minore, la Warner Bros, che già l'anno prima aveva realizzato con il Don Juan il primo film sonoro, nel 1927, col boom del Cantante di jazz (di A. Crosland), da cui trarrà le proprie fortune, la pone di fronte al fatto compiuto. Il crollo di Wall Street (1929) accelera il processo di ridimensionamento degli impianti; Alleluja di K. Vidor, che nello stesso anno porta al successo le canzoni dei neri d'America, favorisce la richiesta del “parlato e cantato al 100%”. A eccezione di Chaplin, dei sovietici e delle cinematografie sottosviluppate che tardano, più o meno a lungo, a introdurlo, il 1930 è l'anno del sonoro per il cinema mondiale. A cavallo tra muto e sonoro, quasi a convincere polemicamente che il nuovo mezzo non frena lo slancio del cinema più degno, fioriscono diverse personalità di registi mentre si accentua, anche per l'influsso sovietico, l'impegno sociale. Clair in Francia passa dal vaudeville (Il cappello di paglia di Firenze, 1927) al balletto anarchico (À nous la liberté, 1931), Pabst in Germania dallo psicologismo sessuale (Lulù, 1928) alla trilogia della rivolta (Westfront, 1930; Die Dreigroschenoper e La tragedia della miniera, 1931), Vidor in America dal patriottardo La grande parata (1925) al quasi classista Nostro pane quotidiano (1934). Perfino nell'Italia fascista, in film di A. Blasetti e M. Camerini, e grazie a una parentesi intellettuale promossa da E. Cecchi alla Cines, si comincia a prestare attenzione alla gente comune e che lavora e a certe lezioni della storia (1860, di A. Blasetti, 1934). L'olandese J. Ivens, che viaggerà per decenni il mondo, dietro a tutte le rivoluzioni, crea con Zuiderzee (1930) e Borinage (1934) il documentario militante, mentre il francese J. Vigo in Zéro de conduite (1933) e L'Atalante (1934) brucia il proprio ardore libertario e la propria vita, e dalla Spagna L. Buñuel riporta un'implacabile testimonianza di desolazione e sottosviluppo (Las Hurdes o Terra senza pane, 1932). Intanto, in Germania, la Repubblica di Weimar agonizza. Rientrato nella patria d'origine, Sternberg scopre con L'angelo azzurro (1930) Marlene Dietrich e se la porta a Hollywood; Lang allude ai mostri incombenti in M (1931) e Il testamento del dottor Mabuse (1933); la denuncia del caos, degli squilibri sociali e dei veleni dell'“ordine” si fa più decisa non solo in Pabst, ma nell'intero movimento di realismo critico oggettivo (Ph. Jutzi, C. Junghans, V. Trivas, la L. Sagan di Ragazze in uniforme, 1931); però S. Th. Dudow, col concorso di Brecht, è l'unico a professare un coerente antinazismo in Kuhle Wampe (1932), alle soglie dell'avvento di Hitler. Nell'URSS l'aspra lotta ideologica e la dura dirigenza politica aprono, ben più del sonoro, problemi ai cineasti maggiori. Dalle cine-verità Dziga Vertov passa alle sinfonie del lavoro. Ejzenštejn, criticato per Ottobre (1927) e La linea generale (1929), si reca in Europa e in America, tenta l'avventura messicana, che si risolve nella “cattedrale incompiuta” di Que viva México!(1930-32) e, di nuovo a Mosca, si rifugia nell'insegnamento alla scuola del cinema, la prima fondata nel mondo. Pudovkin, dopo aver girato La fine di San Pietroburgo (1927) e Tempeste sull'Asia (1929), e Dovzenko, autore di Arsenale (1929) e La terra (1930), affrontano il sonoro con risultati meno cospicui. Ma, dopo questi grandi, emergono altre figure. G. Kozincev e L. Trauberg, provenienti dall'esperienza eccentrica del FEKS di Leningrado, dedicano alla Comune di Parigi un gioiello del muto, Nuova Babilonia (1929); B. Barnet dalle gustose commedie sulla NEP approda a un classico, Okraina (1933); F. Ermler invece retrocede dal problematico Frammento d'impero (1929) al didascalico Contropiano (1932); un giovane, N. Ekk, esordisce con Il cammino verso la vita (1931) che alla prima Mostra d'arte cinematografica di Venezia, nel 1932, fa risuonare dallo schermo le note dell'Internazionale. Tuttavia occorre un critico americano, H. A. Potamkin, per scoprire in URSS l'allucinante documentario di M. Kalatazov Il sale della Svanezia (1930), mentre A. Medvedkin deve sospendere, coi suoi viaggi sul “treno del cinema”, le incursioni nel vivo della realtà del Paese. A Hollywood il sonoro sviluppa il genere gangster (ora il crepitio dei colpi si sente) e dà il via a nuovi filoni come il film rivista, imperniato sulle rutilanti coreografie di B. Berkeley, e la commedia sofisticata, in cui, oltre a Lubitsch che è anche il mago dell'operetta viennese, ottengono i maggiori successi F. Capra, venuto dalle gags comiche, e H. Hawks, reduce da Scarface (1932). Si modernizzano nel frattempo le vecchie correnti: a S. Laurel e O. Hardy, della scuola di H. Roach succeduta a M. Sennett, si aggiungono i fratelli Marx, comici surrealisti e verbosi; il film di mostri (Frankenstein, 1931, di J. Whale, e King Kong, 1933, di E. B. Schoedsack e M. C. Cooper) si sublima nella poesia di Freaks (1932), di T. Browning; il poliziesco, quando non si scatena agli ordini del direttore del FBI J. E. Hoover (Sterminateli senza pietà, 1935, di G. Marshall), assume vesti letterarie (Delitto senza passione, 1934, di B. Hecht e C. MacArthur) e venature ironiche (L'uomo ombra, 1934, di W. S. Van Dyke). Mentre l'aggressiva Mae West scandalizza, soprattutto a parole, coi suoi inviti al sesso, procede imperturbabile il melodramma d'amore, talvolta in costume, con il predominio della “divina” Garbo e della barocca Marlene, affidata al pigmalione Sternberg. Ma la medaglia ha anche qui il suo rovescio, nelle tematiche incisive che affiorano in conseguenza della crisi economica e, ancora una volta, degli influssi europei. A parte Chaplin, che in Luci della città (1931) e in Tempi moderni (1936) si accosta ai drammi del capitalismo, opere come All'ovest niente di nuovo (1930) di L. Milestone o Io sono un evaso (1932) di M. Le Roy annunciano il parziale mutamento di rotta del periodo rooseveltiano che, in contrasto col divismo imperante del sex-appeal, onora un tipo di attore che di questo non ha bisogno per imporsi. Negli anni Trenta il cinema, ormai assurto al rango d'arte, non solo si stabilizza superando presto lo sconvolgimento del parlato ma estende la propria vitalità a nuove zone e nuovi continenti. Sotto la guida di J. Grierson, che tra l'altro permette a R. Flaherty di realizzarvi L'uomo di Aran (1934), la Gran Bretagna sale finalmente alla ribalta come scuola del documentario. Inoltre a Londra A. Hitchcock crea il thrilling; il produttore A. Korda, che in gioventù aveva lavorato per la Repubblica dei Soviet ungherese, rivaleggia con gli Americani nel colosso storico; gli attori inglesi esprimono il proprio magistero anche in patria sebbene, prima o poi, destinati a prendere o riprendere la via di Hollywood. Centro europeo diviene Praga che, dopo lo shock prodotto a Venezia dalla donna nuda di Estasi (1932, di G. Machatý), ospita nei propri studi troupes straniere. K. Plicka fa conoscere il folclore slovacco; M. Fric l'eroe Jánosík (1936); gli artisti di cabaret J. Voskovec e J. Werich satireggiano il fascismo e il naturalismo boemo si afferma, dopo Machatý, nei film di J. Rovenský e O. Vávra. In Egitto si assesta, tra melodrammi danzati e cantati, il cinema nazionale; e così in India, dove i cineasti bengalesi cominciano a far valere le istanze sociali. Nell'America Latina si registrano i primi tentativi di indipendenza culturale (Brasile, Argentina). In Asia (Giappone, Cina) emergono le forti personalità dei giapponesi K. Mizoguchi, Y. Ozu, T. Uchida e del cinese Tsai Chu-sheng; a Shanghai la Lega di sinistra guidata da Lu Hsun inserisce anche nel cinema i suoi scrittori progressisti che, sotto il Kuomintang, varano una corrente neorealista ante litteram. Tali cinematografie sono, all'epoca, praticamente sconosciute in Occidente, dove però la Mostra d'arte cinematografica di Venezia e, nel 1935, il Festival di Mosca ne esibiscono i primi esemplari. La rassegna internazionale moscovita (poi abbandonata fino al 1959) ha anche il compito di celebrare l'ascesa del realismo socialista: Ciapaiev (1934) dei Vasilev e La giovinezza di Massimo (1935) di Kozincev e Trauberg si dividono il primo premio precedendo i film concorrenti di Clair, Vidor, J. Feyder. La nuova tendenza, postulata da Gorkij e, con una certa diversità d'accenti, da Ždanov e ribadita nel congresso dei cineasti che mette sotto accusa Ejzenštejn per la sua ricerca troppo personale, esordisce infatti a un livello elevato mantenendo per tutto il decennio un'indubbia consistenza artistica. Tuttavia il male è alla radice dei principi ideologico-teorici e si chiarirà più tardi: bisogna attendere gli anni di guerra e dell'immediato dopoguerra e affidarsi ancora a Ejzenštejn perché l'ombra del demiurgo, con la mediazione di Ivan il Terribile (Ivan il Terribile, 1944, e La congiura dei Boiardi, 1946-48), appaia sullo schermo in una luce inquietante, prima di essere definitivamente avvolta nel mistico alone della trilogia staliniana di M. Ciaureli (Il giuramento, 1945; La caduta di Berlino, 1950, e L'indimenticabile 1919, 1952). Quasi nulla del realismo sovietico filtra in Italia durante il fascismo. Né il compito di supplire alla modestia della produzione nazionale può essere assunto dalla propaganda nazista o dalle deboli commedie viennesi o ungheresi. Il ruolo tocca invece al verismo romantico e pessimista francese, che arriva d'oltralpe con le firme di J. Duvivier e M. Carné e con il volto di J. Gabin. Meno bene si conosce la carriera di Renoir, il cui realismo poetico è il più legato al clima del Fronte popolare e le cui opere maggiori rimangono in Francia. Del resto, se Hollywood manda i disegni animati di W. Disney (Topolino, Paperino, Biancaneve, ecc.), le comiche di Stanlio e Ollio (che un doppiaggio ingegnoso rende familiari), la musical comedy di F. Astaire e G. Rogers, o le rosee commedie democratiche di Capra, niente si sa del documentarismo rigoroso del gruppo di P. Strand, né dopo Il traditore (1935) e Ombre rosse (1939) si vede Furore (1940) di J. Ford, né si conosce Citizen Kane (o Quarto potere, 1941) di O. Welles, né ovviamente si proietta Il grande dittatore (1940) di Chaplin. Eppure negli ultimi anni di fascismo e di guerra qualcosa si muove in Italia. L. Visconti con Ossessione (1942), Blasetti con Quattro passi tra le nuvole (1942) e V. De Sica con I bambini ci guardano (1943) preludono a un cambiamento.

Cenni storici: dal neorealismo all'età contemporanea

Nella scia della Resistenza il dopoguerra porta il neorealismo, fenomeno che mette il cinema all'avanguardia della cultura, non solo italiana. Praticamente senza produttori, con attori presi dalla strada, i film di R. Rossellini, di De Sica, di Visconti esprimono della nazione ciò che il fascismo aveva umiliato e nascosto. Dire la verità diventa così un imperativo morale, come rendere protagonisti gli sfruttati, gli abbandonati, i deboli. Per la prima volta si vedono le cose al di là della facciata ufficiale. All'immediatezza di questa tendenza, che produce dovunque una scossa salutare, fanno riscontro, quali modelli di un'arte di élite, Les enfants du paradis (1943-45) di Carné, l'Enrico V (1945) di L. Olivier, lo stesso già citato Ivan il Terribile di Ejzenstejn. Si discute di una “terza via” del cinema, ma la via che s'impone è soprattutto quella della constatazione autocritica, dell'esame e della presa di coscienza dopo gli orrori che l'umanità ha sopportato. Dopo la II guerra mondiale l'Europa cambia fisionomia: rinasce, o più sovente nasce, il cinema nei Paesi di nuova democrazia. Polonia, Repubblica Democratica Tedesca, Cecoslovacchia, Ungheria, Bulgaria, Romania, Iugoslavia nazionalizzano la produzione e battono strade comuni nel privilegiare certi generi ritenuti secondari e resi impossibili dal profitto privato, come il film d'animazione, il film per ragazzi, il film di divulgazione scientifica; generi, d'altronde, sviluppatissimi in URSS. Alla Mostra di Venezia del 1947 la Cecoslovacchia ottiene i premi principali e c'è tra essi quello a J. Trnka, che si annuncia maestro mondiale del film di pupazzi. La Repubblica Democratica Tedesca, con W. Staudte e S. Dudow, inizia l'esame autocritico che la Repubblica Federale di Germania rimanderà fino agli anni Sessanta. La Polonia nelle rovine e nei campi di sterminio, la Iugoslavia nella guerra partigiana, l'Ungheria nel feudalesimo agrario e nella rivolta dei contadini fissano i temi predominanti delle loro cinematografie. E tuttavia, nonostante le caratteristiche nazionali (Slovacchia, Bulgaria, Romania partono praticamente da zero), il comune stampo di realismo socialista influisce negativamente su uno sviluppo autonomo. L'URSS, infatti, conosce un momento di stasi e quasi d'impotenza a causa del soffocante “culto della personalità”. L'ultimo film di Pudovkin, Il ritorno di Vasili Bortnikov (1953), ha un valore di premonizione. Il 1956 e il XX Congresso del PCUS sbloccano parzialmente la situazione, aprendo un periodo di disgelo in cui si affermano G. Čuchraj, M. Chuciev e gli anziani M. Kalatazov e M. Romm. La Polonia prima (con i film di A. Wajda, J. Kawalerowicz, A. Munk), la Cecoslovacchia e l'Ungheria successivamente, registrano i momenti migliori del loro cinema. Tra i Paesi occidentali europei, l'unico movimento nazionale è il neorealismo italiano. La Francia sembra imboccare la strada resistenziale con La bataille du rail di R. Clément (1946), ma rinuncia presto per un eclettismo in cui ciascuna individualità e ciascuna corrente coesistono, da R. Bresson a J. Becker, da C. Autant-Lara a H.-G. Clouzot. Mentre il magnate A. Rank tenta di gareggiare con Hollywood come già il suo predecessore A. Korda, la Gran Bretagna pulitamente allinea il filone shakespeariano, l'intimismo piccolo-borghese, l'umorismo nero di Sangue blu (1949, di R. Hamer) e del trasformista A. Guinness. Influenzato dal neorealismo, negli anni Cinquanta emerge dal letargo, con J. A. Bardem e L. G. Berlanga, il cinema spagnolo. Intanto la Danimarca vanta il suo Dreyer e la Svezia vara il suo Bergman. Nell'America Latina, il Messico ha goduto una felice parentesi coi film di E. Fernández fotografati da G. Figueroa, mentre nel 1950, con Los olvidados, l'esule Buñuel rientra sulla scena internazionale. L'Argentina prosegue i suoi robusti melodrammi tradizionali (talvolta a sfondo sociale) prima che L. Torre-Nilsson cominci a fare i conti con la sua borghesia. Il Brasile registra il successo di O cangaceiro (1953, di Lima Barreto), il tentativo della Vera Cruz, il ritorno in patria del suo cineasta più illustre, A. Cavalcanti, che aveva partecipato all'avanguardia francese e al documentarismo britannico. Nel 1951 Rashomon di A. Kurosawa vince il Leone d'oro alla Mostra di Venezia. Il cinema giapponese non è più un mistero per l'Occidente, che nei suoi festival laurea a più riprese Mizoguchi, Kurosawa, T. Imai, K. Shindo e altri. La Cina, che nella seconda metà degli anni Quaranta ha concluso il periodo pre-liberazione, nel 1950 è già in grado di presentarsi al festival di Karlovy Vary con le prime ardenti epopee della Repubblica Popolare. Sempre ai festival filtrano notizie e film di altre cinematografie asiatiche: l'indonesiana, la coreana, la vietnamita. Da prima della guerra Hollywood ha introdotto il colore, che nel dopoguerra trova applicazione sempre più frequente dovunque, specie nelle costruzioni spettacolari e, s'intende, nel film d'animazione dove il predominio di Disney comincia a vacillare. Va però notato che ancora per diverso tempo i movimenti più avanzati, gli artisti più personali, le cinematografie dei nuovi continenti e quello che negli anni Sessanta si chiamerà il Nuovo Cinema internazionale rimangono in prevalenza fedeli al bianco e nero. Così i vari sistemi di schermo panoramico, dal cinemascope al cinerama, annunciano rivoluzioni che si risolvono regolarmente in arretramenti tematici e di gusto. Ciò vale anche per l'Unione Sovietica e per la Cina. La stessa produzione statunitense più seria, quella che riflette situazioni di emergenza, squilibri psicologici del dopoguerra e crisi generazionali, procede su binari modesti. In bianco e nero e formato normale sono non soltanto gli ultimi film di Flaherty e di Chaplin, ma tutti i migliori della pattuglia americana di punta (W. Wyler, B. Wilder, J. Huston, E. Dmytryk, J. Dassin, F. Zinnemann, E. Kazan, R. Aldrich, N. Ray, R. Brooks e altri), nonché Il sale della terra realizzato nel 1953 con la più limpida audacia sociale da H. J. Biberman, uno dei Dieci di Hollywood imprigionati dal maccartismo. Si può affermare che il largo schermo, anche a colori, viene adottato per la prima volta con una certa funzionalità, per ospitarvi le nevrosi dei rappresentanti della gioventù bruciata (e della scuola di recitazione dell'Actors' Studio) impersonati da M. Brando e J. Dean. Naturalmente i mezzi più spettacolari sono impiegati quasi subito per glorificare le ultime versioni dell'eterno femminino: B. Bardot, M. Monroe, le maggiorate fisiche italiane. Andando verso gli anni Sessanta diventa impossibile confinare la storia del cinema a un limitato numero di grandi Paesi: lo scacchiere mondiale non è più controllabile da un solo storico, fosse pure uno come G. Sadoul. Giappone, India, la sola città di Hong Kong sfornano annualmente più film di Hollywood, la quale, del resto, subisce un processo di graduale ridimensionamento sia per la concorrenza della televisione, sia per l'ascesa di molte altre “centrali” (tra cui anche Cinecittà), sia per l'affermazione di un nuovo e assai più libero modo di far cinema. Tramonta dunque in America, come anche a Tokyo, la dittatura delle major companies, anche se i capitali di Wall Street o dei finanzieri giapponesi trovano egualmente il loro impiego remunerativo: per esempio nel filone sexy-avventuroso o solamente sexy che un po' dovunque ha alimentato il cinema capitalistico. La storia del cinema tende anche a farsi storia di singoli cineasti, di “mostri” più o meno sacri: F. Fellini, M. Antonioni, L. Visconti in Italia, R. Bresson e A. Resnais in Francia, I. Bergman in Svezia, L. Buñuel in Messico, Francia e Spagna. Ma gli anni Sessanta vedono anche la confortante svolta del cinema d'animazione, sottratto definitivamente all'ipoteca figurativa più deteriore; la nascita di nuove cinematografie a Cuba, in Algeria, nell'Africa nera, in Bolivia; l'affermazione delle repubbliche meridionali e asiatiche dell'URSS; la turbinosa crescita del cinema d'intervento, contestazione o guerriglia. Vedono soprattutto, e quasi universalmente, il successo del Nuovo Cinema sotto varie denominazioni e scuole: la nouvelle vague francese, la più generazionale e reclamizzata; il free cinema inglese, che convoglia gli “arrabbiati” del teatro, del documentarismo e della letteratura; il cinema nôvo in Brasile che si presenta come cinema della fame, del sottosviluppo e della rivolta; la nová vlna cecoslovacca, che esprime la “primavera” di Praga; la Neue Wege tedesco occidentale, autocritica sul passato e che guarda dietro la facciata del miracolo economico; il New American Cinema e l'underground negli Stati Uniti. E anche senza bandiere o definizioni precise una potente scuola nazionale si impone in Ungheria, una contestazione assai vivace fermenta in Iugoslavia, la corrente “politica” italiana ripropone un impegno civile, personalità eterodosse (come A. Tarkovskij, S. Paradzanov) si affermano in URSS, il cinema “diretto” (cinema-vérité) affronta i problemi del Canada francese, uno stile egiziano si precisa, linguaggi autonomi affiorano in Romania, Bulgaria, Finlandia, Spagna, Portogallo; mentre dall'Argentina si volge al Terzo Mondo il modello di film militante (L'ora dei forni, di F. Solanas e O. Getino), mentre in Giappone perfino il film di sesso e di violenza è incorporato nel dibattito ideologico, mentre la Rivoluzione culturale cinese rimette in discussione anche il cinema più alto e progressista del passato. Questo nuovo cinema ha avuto spesso vita breve, travagliata, o bruscamente spezzata (Brasile, Cecoslovacchia); talvolta si è esaurito in se stesso (Francia) o è stato assorbito da altri (Gran Bretagna), ma comunque ha caratterizzato un periodo del cinema mondiale in modo irreversibile, apportando anche vere rivoluzioni di linguaggio (J.-L. Godard, M. Jancsó, N. Oshima, J. M. Straub, A. Warhol) e uno sguardo inedito, lucido e senza miti sulla realtà. Negli anni Settanta si registra anzitutto, dopo un ridimensionamento strutturale, la piena ripresa del cinema statunitense, con i supercolossi affidati ai giovani emersi dalla contestazione e con i conseguenti riflessi sui Paesi nuovamente invasi dai suoi prodotti. Nella Repubblica Federale di Germania l'ondata dei nuovi cineasti (Herzog, Wenders, Fassbinder, ecc.) si trova all'avanguardia culturale e artistica in campo internazionale, mentre fatica a imporsi in quello nazionale. Insieme con le ulteriori conferme dei grandi del passato, nomi inediti sono sbocciati: dopo la rivelazione del cinema svizzero, è esploso in Grecia il talento di Th. Angelopoulos e nuove fasi storiche si sono aperte in Portogallo e in Spagna, anch'essi liberatisi dalle rispettive dittature. Nell'area socialista un solido punto di riferimento continua a essere l'Ungheria, mentre interessanti sviluppi si sono avuti in Bulgaria e in Polonia (Wajda, Zanussi). Sul quadrante sovietico, da Mosca a Leningrado, rimaste le capitali tradizionali, l'interesse degli osservatori si è andato accentuando verso le repubbliche periferiche, meridionali e caucasiche in primo luogo. Emerge, riscuotendo enorme successo, il cinema australiano (P. Weir, B. Beresford), che mostra subito alta qualità e professionalità. Per quanto riguarda l'Asia, nessun discorso unificante è possibile: tra Cina, Giappone e India le distanze sono abissali. Nella Repubblica Popolare Cinese si è tornati a produrre film dopo la parentesi della Rivoluzione culturale: ideologicamente accentuati quelli del periodo della “ banda dei quattro”, più sfumati ma forse più eloquenti i “melodrammi socialisti” attuali. In Giappone l'esponente più prestigioso, Kurosawa, ha potuto risalire la china con l'aiuto sovietico (Dersu Uzala, 1975) e americano (Kagemusha, 1980); Oshima si è visto interdire in patria L'impero dei sensi (1976), prodotto con capitali francesi. In India si è invece raggiunto il record della produzione annua, con oltre 700 film: continua il magistero di S. Ray, cui si affianca M. Sen. Drammatiche voci si sono fatte udire dalla Turchia, dove l'attore-regista Y. Güney è incarcerato (Palma d'oro a Cannes con Yol, dopo una fuga avventurosa muore a Parigi nel 1984), e dall'Iran, prima della cacciata dello scià e anche dopo. Altrettanto meritoria la presenza, spesso militante come nei documentari palestinesi, di un cinema arabo che spazia dal Vicino Oriente all'Africa settentrionale; mentre anche il continente nero, nella sua battaglia contro il neocolonialismo interno e straniero, si è avvalso di film importanti, dal Senegal all'Etiopia, come di testimonianze girate tra l'emigrazione, specie a Parigi e a Londra. Con gli anni Ottanta il panorama internazionale del cinema si allarga ulteriormente e si fa più complesso. Nuovi Paesi si affacciano al panorama mondiale (dal Camerun al Costa Rica, dalla Nuova Zelanda all'Islanda). Il cinema poi fiorisce in luoghi di libertà limitata (Filippine, Corea del Sud) e si prende una rivincita dove ritorna la democrazia (Argentina, Brasile). Scompaiono purtroppo grandi nomi, come Huston, Buñuel, Losey, Tarkovskij, Fassbinder, Truffaut, Rocha, il ricordato Güney; Bergman si congeda con Fanny e Alexander; ma proseguono trionfalmente decani come Oliveira (Francisca), Bresson (L'argent), Kurosawa (Ran). In Italia, si riconfermano autorevolmente Fellini, Scola, Rosi, i fratelli Taviani. In campo europeo insieme al cinema francese, risorto (con Rohmer, Malle, ecc.) dalle ceneri della vecchia nouvelle vague, il cinema britannico ha ritrovato ottima salute; il cinema tedesco ha con Wenders i massimi successi (Leone d'oro con Lo stato delle cose, Palma d'oro con Paris, Texas e Il cielo sopra Berlino). Tra i Paesi dell'Est europeo, l'Ungheria conserva nel corso degli anni Ottanta la “tenuta” più costante; nell'Unione Sovietica, che ha in N. Michalkov il suo più noto cineasta, viene finalmente liberato Paradzanov (nuovi sviluppi si attendono ora dal processo di democratizzazione che, dopo aver investito sul finire del decennio tutti i Paesi dell'Est europeo, è culminato nel 1991 nella disgregazione stessa dell'URSS). Tuttavia il dato di fondo più rimarchevole è il ritorno, su tutti i mercati, del cinema statunitense, con colossali spettacoli (Spielberg, Coppola, ecc.), ma è in ascesa anche il movimento degli indipendenti, mentre Woody Allen si conferma grandissimo regista. Tra i generi, a trionfare negli anni Ottanta sono la commedia e l'horror, con cineasti (D. Cronenberg, W. Craven, J. Carpenter, T. Hooper) in grado di suggerire e sottolineare malesseri ben più generali. In Europa, nel generale declino dei mercati nazionali, si affermano personalità dai percorsi estremamente individuali, come lo spagnolo P. Almodóvar, il polacco K. Kieslovski, il finlandese A. Kaurismaki. Notevolissime poi le personalità di cineasti “terzomondisti” come Idrissa Ouedraogo (Burkina), il cinese Zhang Yimou e il nativo di Hong Kong Tsui Hark. Gli anni Novanta in Italia segnano numerose scomparse, Federico Fellini (1993), Massimo Troisi (1994), Giulietta Masina (1994), ma allo stesso tempo confermano una netta ripresa del cinema con autori come Gabriele Salvatores (Mediterraneo, Oscar come miglior film straniero, 1992), Nanni Moretti (premio per la migliore regia a Cannes per Caro diario, 1994), Mario Martone (L'amore molesto, 1994), Carlo Mazzacurati (Il toro, 1994). Una ripresa che ha, comunque, coinvolto tutta l'Europa: il cinema inglese con J. Sheridan (Orso d'oro al Filmfest di Berlino per Nel nome del Padre, 1994), il cinema francese con P. Chéreau (La regina Margot, 1994), il cinema spagnolo con P. Almodóvar (Kika, 1994), il cinema tedesco con W. Wenders (Così lontano così vicino, 1992). Tra gli anni Ottanta e i Novanta si registra anche l'egemonia della cinematografia statunitense, con alcuni generi prevalenti: soprattutto l'horror e la commedia, con i già citati Cronenberg, Craven e Carpenter. Il cinema off Hollywood rafforza una nuova ondata di cineasti dal linguaggio personale, a volte grottescamente estremo altre più intimo e realistico. Tra i primi a emergere David Lynch, Sam Raimi, i fratelli Coen, Abel Ferrara, mentre gli anni Novanta si aprono con l'esplosione del talento Quentin Tarantino. Dall'altro lato del fenomeno si situano autori dalla pratica più appartata come Hal Hartley e altri provenienti dal cinema più impegnato come Gus Van Sant e Gregg Araki. Come testimoni di una necessità irriducibile di trovare un linguaggio individuale e originale, che si è allargata dai territori tradizionali del grande cinema d'autore (l'Italia, la Francia, la Germania, la Gran Bretagna, la Russia) a regioni più periferiche, oltre ad Almodóvar e a Kieslowski, lo iugoslavo Emir Kusturica, gli inglesi Ken Loach, Peter Greenaway e Mike Leigh, il danese Lars Von Trier, il portoghese João Cesar Monteiro, per non parlare della vivacissima scena francese, sempre ricca di nuovi talenti (A. Techiné, Leos Carax, Olivier Assayas, Mathieu Kassovitz). Nomi nuovi arrivano anche dall'Oceania, che non rinuncia a esportare esempi di ottimo cinema, di buon livello qualitativo anche nel caso delle produzioni più commerciali, come fanno fede le opere di emergenti come Rolf de Heer e Scott Hicks in Australia e soprattutto come Jane Campion e Lee Tamahori in Nuova Zelanda. Per quanto riguarda il cinema di Hong Kong e quello di Taiwan l'offerta è articolata: dall'action movie – con registi-produttori come Tsui Hark e autori come il citato John Woo, vivacissimi innovatori nella fedeltà alla ricchezza visionaria di padri nobili come Kung Hu – agli esponenti di un cinema di grande raffinatezza drammatica, come Hou Hsiao-Hsien o Tsai Ming-Liang, che si avvicinano in qualche modo alle ispirazioni e alla pratica dei primi autori postmaoisti provenienti dalla Cina, Zhang Yimou e Chen Kaige. Mentre il Giappone non riesce a rinverdire i fasti della sua ammirevole tradizione narrativa, anche se non vanno dimenticate le digressioni noir di Takeshi Kitano e i deliri horror di Shinya Tsukamoto, si affermano dall'Iran due personalità di valore assoluto, che propongono profondissime riflessioni sul rapporto tra il mezzo e la verità dei contenuti: si tratta di Abbas Kiarostami e di Moshen Makhmalbaf, così come da Israele si fa sentire la lezione di Amos Gitai. Poco di nuovo è presente nelle produzioni brasiliane, argentine e cubane, così come ancora scarsamente significativa nel suo complesso appare la scena africana, nonostante la ammirevole abnegazione con cui i cineasti – tra cui si deve citare almeno Idrissa Ouedraogo del Burkina – si dedicano alla realizzazione dei loro progetti, mentre le cinematografie maghrebine ed egiziane, sembrano intorno agli anni Novanta segnare il passo.

Tecnica cinematografica: caratteri generali

Dal punto di vista tecnico, il fenomeno su cui si basa la cinematografia è quello della persistenza delle immagini sulla retina, per cui una serie di immagini fisse viste in successione sufficientemente rapida rende l'illusione del movimento. Questa teoria fu elaborata nel 1829 da J. A. F. Plateau che nel 1832 realizzò il fenachistoscopio, il primo apparecchio per la visione di immagini in movimento; contemporaneamente S. R. von Stampfel realizzò un apparecchio simile chiamato stroboscopio. Un perfezionamento di questi strumenti è costituito dallo zootropo realizzato nel 1833 da W. G. Horner. Un successivo importante sviluppo si ebbe con il coreutoscopio (Beale e Molteni, 1866) che consentì la proiezione di immagini in movimento. Nel 1877 É. Reynaud costruì il prassinoscopio, che perfezionò poi nel 1888 ponendo le basi del théâtre optique che rimase in auge fino al 1900. Nel frattempo ebbe notevole sviluppo la cronofotografia, nella quale si utilizzarono alcuni degliapparecchi menzionati per la ricostruzione del movimento mediante fotografie anziché con disegni. Ma la limitazione della cronofotografia consisteva nel fatto che con essa si potevano analizzare solo azioni molto brevi. E. J. Marey nel 1887 ideò, per i suoi studi cronofotografici, il “fucile fotografico” che utilizzava delle strisce di carta sensibile. Nel 1889 G. Eastman realizzò le prime pellicole trasparenti al nitrato di cellulosa la cui affermazione consentì, nel 1891, a Th. A. Edison la messa a punto definitiva del suo cinetografo con il quale riprendeva film che venivano proiettati mediante il cinetoscopio. Partendo dall'idea di Edison i fratelli L. e A. Lumière, noti produttori di materiali fotografici, perfezionarono (1895) il cinématographe di L. Boully. Nello stesso anno T. Armat stabilì il principio su cui si basano i proiettori moderni, nei quali il tempo in cui l'immagine rimane ferma in corrispondenza della finestra di proiezione è maggiore dell'intervallo di trascinamento del fotogramma. Lo sviluppo commerciale della cinematografia si può far iniziare nel 1896 con le proiezioni pubbliche dei fratelli Lumière e con la realizzazione del proiettore di Armat (vitascope). A partire da tale data si sono avuti continui perfezionamenti delle tecniche cinematografiche, ma senza innovazioni rivoluzionarie, fino all'introduzione del cinema sonoro prima e del colore poi. Benché l'invenzione del fonografo di Edison risalga al 1877 e fin dai primi tempi si sia tentato di associare le immagini in movimento al suono di questo strumento, i primi risultati soddisfacenti furono ottenuti solo nel 1904 quando E. A. Lauste riuscì a registrare suono e immagine sulla stessa pellicola cinematografica. Malgrado i notevoli miglioramenti che il sistema di Lauste ebbe negli anni successivi, l'epoca del cinema sonoro ebbe inizio però nel 1926 con il Don Juan della Warner Brothers, che utilizzava ancora la registrazione del suono dei dischi. Agli albori del cinema risalgono anche le prime applicazioni del colore, che però non veniva ottenuto con tecnica fotografica, ma colorando a mano ogni fotogramma: una variante di questo metodo, denominata Pathécolor, si serviva di maschere ricavate da positivi cinematografici per applicare automaticamente fino a sei colori, uno per maschera, su una pellicola positiva che scorreva con le maschere stesse in una macchina simile a quelle da stampa. Nel 1910 si ebbe il lancio commerciale del procedimento Kinemacolor, brevettato nel 1906 da G. A. Smith. Si trattava di un processo additivo a due soli colori nel quale i fotogrammi venivano ripresi alternativamente attraverso un filtro rosso e uno blu-verde, sistemati su un disco rotante. La sequenza di ripresa era di 32 fotogrammi al secondo, doppia di quella allora normalmente usata. La proiezione avveniva attraverso filtri uguali a quelli usati in ripresa. Successivamente furono messe a punto diverse altre tecniche di riproduzione dei colori tra cui occupano una posizione di particolare rilievo i vari procedimenti della Technicolor, il più importante dei quali, rimasto quasi invariato fino ai nostri giorni, fu lanciato nel 1933 con il film Flowers and Trees di W. Disney. L'esigenza di proiezioni cinematografiche spettacolari richiese fin dagli inizi lo sviluppo di sistemi di proiezione su grande schermo. Il problema era stato affrontato già nel 1896 da G. Demeny e nel 1900 da L. Lumière che avevano ripreso dei film su pellicola di grande formato. Nel 1897 R. G. Samson brevettò il cineramaun sistema di proiezione su uno schermo di 360º, precursore del circarama, che utilizzava dieci proiettori sistemati in un'unica cabina al centro della sala da proiezione. Il primo sistema soddisfacente di proiezione su schermo panoramico fu messo a punto da A. Gance nel 1927 e va considerato il precursore del cinerama. Si impiegavano tre proiettori mossi da un unico motore che proiettavano su uno schermo largo tre volte il normale tre differenti immagini oppure una panoramica ripresa da tre cineprese sincronizzate. Con questo sistema vennero realizzati dallo stesso Gance il film Napoléon vu par G. A. e altre pellicole, ma non ebbero seguito. I sistemi di proiezione su schermo panoramico si svilupparono dopo la II guerra mondiale: nel 1952 apparve il cinerama seguito nel 1953 dal cinemascope e successivamente dal technirama, dal panavision, dal vistavision, ecc. Un'esigenza sentita fin dai primi tempi della cinematografia è stata la realizzazione dei film stereoscopici. A questo scopo sono stati impiegati svariati sistemi, il primo dei quali, ideato da A. d'Almeida nel 1858, venne utilizzato nel 1897 da C. Grivolas. Il soggetto veniva ripreso con una macchina stereoscopica su due pellicole attraverso filtri di colore complementare. I positivi da proiezione, colorati come i filtri, venivano osservati attraverso occhiali con lenti del medesimo colore. Sistemi di questo tipo vennero usati ripetutamente tra il 1925 e il 1935 (anche da A. Gance) e tornarono alla ribalta nel 1950, ma furono presto sostituiti da sistemi che utilizzavano luce polarizzata, in quanto i precedenti metodi basati sul principio degli anaglifi non consentivano la riproduzione dei colori. La cinematografia stereoscopica è stata abbandonata in favore dei sistemi di proiezione su schermo panoramico per motivi di costo e per le difficoltà inerenti alla proiezione e alla visione.

Tecnica cinematografica: l'evoluzione

Un film si suddivide in tempi, la cui durata è determinata dalla capienza delle bobine del proiettore; le singole parti del racconto sono costituite da sequenze, formate da una successione di scene; ogni scena è composta da quadri (inquadrature). Questa organizzazione del linguaggio cinematografico suggerisce la successione delle operazioni necessarie alla preparazione delle riprese. Generalmente si parte da un soggetto intorno al quale si costruisce una trama, oppure da un racconto preesistente. Segue la preparazione della scaletta, ossia uno schema della struttura narrativa del film, con cui viene definita la successione delle azioni principali. In base alla scaletta si prepara la sceneggiatura, nella quale vengono riportati tutti gli elementi del racconto, suddivisi in scene e quadri, che possono essere realizzati in immagini. La sceneggiatura, oltre alla descrizione dell'azione, deve anche riportare tutte le indicazioni necessarie alla realizzazione delle riprese, come l'ambiente in cui esse devono essere effettuate, la loro durata, il punto di vista, il campo inquadrato, gli eventuali movimenti di macchina e gli attori impegnati (con le rispettive battute del dialogo). Oltre che come guida per le riprese, la sceneggiatura serve anche in fase di montaggio per ricostruire l'esatta successione dei quadri, che generalmente vengono ripresi in tempi diversi secondo una successione determinata unicamente da ragioni economiche e organizzative. Prima di procedere alla ripresa è necessario preparare l'ambiente in cui si svolge la scena e sistemare la macchina da presa nel posto indicato dalla sceneggiatura, disponendola su un cavalletto, eventualmente posto sul mezzo prescelto per effettuare i movimenti di macchina previsti. Se la ripresa è sonora, occorre anche sistemare i microfoni e gli apparecchi di registrazione. Viene poi approntato l'impianto di illuminazione, che può essere necessario anche nelle riprese in esterno per schiarire le ombre o per ottenere effetti particolari. A questo punto si passa alla prova del quadro per controllare che l'azione, l'illuminazione e i movimenti di macchina corrispondano a quanto richiesto dalla sceneggiatura. Al termine delle prove, dopo un controllo definitivo dell'esposizione, si avvia il motore della macchina da presa, si riprende il ciak e si inizia l'azione. Ogni azione viene ripresa più volte, eventualmente anche da più macchine sistemate in posizioni diverse, in modo da poter scegliere le inquadrature migliori in sede di montaggio. Nel corso della realizzazione delle riprese si prende nota di tutti quei particolari che possono cambiare tra una ripresa e l'altra (per esempio la disposizione degli oggetti, gli accessori dei costumi, la posizione del Sole o degli orologi, l'illuminazione, l'esposizione, ecc.), in modo da evitare errori di continuità. Se la scena è molto complessa, oltre a redigere queste note si riprendono delle fotografie. Al termine delle riprese il materiale filmato viene inviato al laboratorio di sviluppo, eventualmente accompagnato da indicazioni per il trattamento. Lo sviluppo dei negativi esposti viene ottenuto mediante sviluppatrici automatiche e da esso si ricavano successivamente le copie positive che servono per il montaggio, con il quale viene organizzata la struttura del film, stabilendo la successione definitiva delle immagini. La prima copia montata, ancora priva della colonna sonora, viene detta copia di lavorazione. Da questa, passando attraverso un negativo intermedio, si ottiene un certo numero di duplicati (detti copie lavanda nel bianco e nero perché ottenute una volta su pellicola con supporto di tale colore). La colonna sonora definitiva del film viene ottenuta combinando opportunamente le colonne sonore parziali in cui sono incisi i dialoghi, i rumori e le musiche. Questa operazione viene detta missaggio. Dalla copia lavanda e dalla colonna sonora missata si ottengono infine le copie per la distribuzione. Le copie da proiettare all'estero vengono ottenute a partire dalla copia lavanda e dalla colonna sonora internazionale, sulla quale non sono incisi i dialoghi che verranno incisi successivamente con il doppiaggio. Gli anni Novanta hanno visto l'ingresso sempre più massiccio dell'elettronica e dell'informatica nella tecnica cinematografica. Anche se il supporto finale di un film, la pellicola chimica, è rimasto lo stesso, tutto ciò che ne è a monte è stato profondamente rivoluzionato. L'uso delle tecniche digitali si è inizialmente esplicato nella realizzazione di effetti speciali, al posto dei pupazzi meccanici utilizzati in passato. Gli effetti (mostri, personaggi fantastici, scenari) vengono realizzati al computer con immagini sintetiche e successivamente uniti, sempre in workstation informatiche, alle scene reali girate in maniera tradizionale e poi digitalizzate, o girate direttamente in digitale. Con il sistema digitale le immagini non vengono impresse più sulla tradizionale pellicola, ma registrate direttamente su hard disk o su dischi laser, attraverso telecamere ad alta definizione. Lo sviluppo della cinematografia digitale, quindi, ha portato in questi anni a realizzare sempre più film con scene virtuali. Il termine virtuale, legato alla storia del cinema a partire dagli anni Novanta, ha in realtà una doppia valenza. Da un lato, infatti, indica un preciso nuovo genere cinematografico, che racconta appunto universi artificiali e tridimensionali, spesso legati alle regole combattive ed elementari di un videogioco, creati per mezzo del computer. Dall'altro ha invece un significato più squisitamente tecnico, collegato alle radicali trasformazioni che il cinema ha vissuto grazie alle nuove tecnologie computerizzate e digitali. Il primo esempio di film che si occupa della realtà virtuale risale al 1982, ovvero due anni prima che lo scrittore William Gibson, vero e proprio guru del genere, creasse il termine “cyberspazio”. Ma Tron, diretto da Steven Lisberger e prodotto dalla Disney, benché contenga per la prima volta sequenze completamente realizzate in computer grafica, è allo stesso tempo visivamente troppo innovativo e narrativamente troppo poco coraggioso (benché il protagonista sia un moderno inventore di videogames la storia ricicla stereotipi della fantascienza più tradizionale) per colpire nel segno. Dopo il suo insuccesso, passeranno dieci anni prima che il cinema provi ad affrontare nuovamente il tema. Il nuovo tentativo, Il tagliaerbe (1992) di Bret Leonard, ha invece la fortuna di uscire nelle sale quando Internet inizia già a essere un fenomeno e usufruisce inoltre di tecnologie più sofisticate e meno costose (il film costa appena quattordici milioni di dollari, dieci dei quali spesi per gli effetti speciali). Il tagliaerbe, che in virtù del suo successo si guadagnerà anche un mediocre sequel, apre la strada a riflessioni più alte e più complesse sulla realtà virtuale, come quelle presenti in Strange Days (1995) di Katherine Bigelow, dove virtuali diventano invece le emozioni, o in eXistenZ (1999) di David Cronenberg, in cui la separazione fra realtà vera e realtà videogioco diventa angosciosamente impercettibile. Abitualmente, però, il cinema sulla realtà virtuale sceglie una strada meno filosofica e più di puro intrattenimento, come dimostrano Hackers (1995) di Iain Softley e The Net-Intrappolata nella rete (1995) di Irwin Winkler, semplici thriller con maghi del computer come protagonisti, o Johnny Mnemonic (1995) di Robert Longo, storia di un fattorino cyber tratto da un romanzo di Gibson, e Matrix (1999) di Larry e Andy Wachowski, che mescola 1984, kung fu e l'estetica dei videogiochi. L'universo virtuale ha comunque interessato autori fra loro molto diversi, dall'italiano Gabriele Salvatores (Nirvana, 1997) a Stanley Kubrick che, prima di morire, progettava A I (Artificial Intelligence). Oltre a essere un affascinante tema narrativo, la realtà virtuale sta radicalmente modificando le strutture produttive. Solo grazie alle CGI (Computer Generated Images/Immagini Generate dal Computer) e al VRML (Virtual reality Modeling Language/Linguaggio di modellazione della realtà virtuale) in Forrest Gump (1994) sono stati realizzati gli incontri “virtuali” di Tom Hanks con John Kennedy e John Lennon, mentre ne Il corvo (1994) sono state realizzate alcune scene “resuscitando”, mediante scannerizzazione, il protagonista Brandon Lee, morto durante le riprese. Grandi protagonisti del nuovo cinema virtuale sono compagnie di effetti speciali come la Industrial Light & Magic di George Lucas e la Digital Domain di James Cameron, in grado di creare veri e propri set digitali tridimensionali, che permettono di dimezzare i costi e aumentare la grandiosità. Grazie alle nuove tecnologie, infatti, un vero Himalaya è stato “montato” sul set in Marocco di Kundun di Scorsese e il mare di Normandia è stato riempito di navi virtuali per Salvate il soldato Ryan di Spielberg. Se la Pixar di John Lasseter ha realizzato con soli trenta milioni di dollari Toy Story (1995), primo lungometraggio animato tutto in digitale che ha arricchito la Disney, George Lucas in Star Wars: Episodio 1 (1999), film che contiene tremila inquadrature in digitale con set completamente realizzati al computer, ha presentato il primo attore virtuale della storia del cinema, l'alieno Jar Jar Binks. Il connubio fra informatica e cinema, comunque, negli anni Novanta, ha condotto anche allo sviluppo del cosiddetto restauro elettronico di vecchi film, a cui sono stati restituiti il colore e il sonoro originali. L'esempio più significativo in questo campo è stato il restauro del primo lungometraggio a colori della Disney, Biancaneve e i sette nani.

Il cinema da amatori

La cinematografia amatoriale si distingue da quella professionale innanzitutto per la minore complessità dell'organizzazione e per il minore numero di persone che partecipano alla produzione del film che, al limite, può essere realizzato da una sola persona. Anche le attrezzature per la ripresa sono più semplici e il materiale sensibile impiegato, che è di formato minore e quindi più economico, è normalmente del tipo invertibile, per cui si ottiene direttamente un positivo che viene montato e proiettato senza la necessità di produrre duplicati. Le macchine da 16 mm, leggere e maneggevoli, sono state utilizzate soprattutto per documentari, molti dei quali erano poi riversati, dopo il montaggio finale e l'applicazione della colonna sonora, su pellicola da 35 mm per la distribuzione. Quelle da 8 mm, che in origine usavano corte bobine di pellicola da 16 mm, esposte prima su una metà, poi sull'altra, e tagliate dopo lo sviluppo (chiamate perciò 2´8) conobbero una notevole diffusione, nell'uso familiare, dopo che la Kodak, nel 1960, introdusse il formato “super 8”, con il caricatore a tenuta di luce che rendeva facile il caricamento della macchina. Negli anni Settanta i perfezionamenti dell'elettronica consentirono la registrazione del suono contemporaneamente alla ripresa, su una pista magnetica applicata alla pellicola vergine, invece di registrare la colonna sonora, dopo il montaggio, su una pista magnetica riportata. Ma la notevole complessità e il costo delle macchine, e l'alto costo della pellicola, segnarono la fine del boom dell'8 mm, gradualmente sostituito, a partire dai primi anni Ottanta, dalla ripresa televisiva effettuata per mezzo di camcorder (videocamera): quest'ultimo registra immagini e suoni su nastro magnetico in cassetta riproducibile da un comune videoregistratore.

La cinematografia scientifica

A scopo scientifico vengono spesso impiegate, per l'osservazione di fenomeni particolari, tecniche cinematografiche speciali, tra le quali hanno particolare interesse l'uso di radiazioni non visibili e la ripresa con frequenza superiore o inferiore a quella di proiezione. L'uso di radiazioni non visibili è possibile sfruttando emulsioni sensibili ai raggi X, alle radiazioni nucleari, all'ultravioletto o all'infrarosso (emulsione). La ripresa con frequenza inferiore a quella di proiezione permette l'osservazione di fenomeni che si svolgono molto lentamente: per esempio eseguendo riprese alla velocità di 10 fotogrammi al minuto e proiettando alla frequenza normale di 24 fotogrammi al secondo, il fenomeno risulterà accelerato di 144 volte. Viceversa, se la frequenza di ripresa è superiore a quella di proiezione (cinematografie rapida e ultrarapida) il fenomeno, con proiezione a velocità normale, risulta notevolmente rallentato. La cinematografia ultrarapida richiede l'uso di apparecchiature la cui complessità è in relazione alla frequenza di ripresa che si richiede. Fino a circa 500 fotogrammi al secondo si usano cineprese concettualmente identiche a quelle usuali, con movimento intermittente della pellicola e otturatore meccanico. Fino a 100.000 fotogrammi al secondo si adottano macchine da presa con pellicola a scorrimento continuo, per evitare eccessive sollecitazioni meccaniche sulle perforazioni. Oltre tale velocità le sollecitazioni sulla pellicola diventano talmente grandi che risulta indispensabile tenere ferma la pellicola e fare invece muovere lungo questa l'immagine proiettata dall'obiettivo. Con particolari accorgimenti è possibile raggiungere frequenze di ripresa dell'ordine di diverse decine di milioni di fotogrammi al secondo. Nelle macchine da presa a scorrimento continuo della pellicola, per mantenere l'immagine ferma rispetto alla pellicola durante l'esposizione, l'otturatore viene sostituito da un prisma rotante. Per aumentare ulteriormente la frequenza di ripresa si proietta l'immagine da riprendere al centro di un tamburo rotante sul quale sono applicati numerosi obiettivi che, a loro volta, proiettano l'immagine sulla pellicola posta dietro di essi. Con le macchine a tamburo rotante si raggiungono frequenze di ripresa dell'ordine dei 500.000 fotogrammi al secondo , velocità che può essere superata proiettando l'immagine al centro del tamburo sopra uno specchio rotante. Frequenze di ripresa ancora superiori possono essere ottenute sfruttando il fatto che la luce si propaga alla velocità finita di ca. 300.000 km al secondo, e quindi percorre ca. 30 cm in un miliardesimo di secondo. Per mezzo di un sistema di obiettivi e di specchi si fa in modo che l'immagine del soggetto giunga alla pellicola in tempi diversi, percorrendo cammini ottici distinti e di differente lunghezza. Usando un otturatore a cellula di Kerr, capace di dare un tempo di posa dell'ordine dei cinque miliardesimi di secondo, è possibile ottenere frequenze di ripresa superiori ai 60 milioni di fotogrammi al secondo.

Industria

Perché l'industria del cinema raggiunga, in un Paese, un notevole sviluppo sono necessarie almeno due condizioni di base: alto livello generale di industrializzazione ed esistenza di un mercato capace di alimentare una consistente domanda di questo tipo di spettacolo. Di conseguenza, le principali industrie cinematografiche del mondo sono quelle di Paesi avanzati come Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone, Italia, Francia, ecc. Nel suo insieme, l'industria del cinema comprende i settori della produzione, della distribuzione e dell'esercizio. La produzione si incarica della materiale “fabbricazione del film”, avvalendosi anche delle prestazioni di industrie tecniche quali i teatri di posa, gli stabilimenti di sviluppo e stampa e quelli di doppiaggio ed effetti sonori. A differenza di quanto avviene nella maggior parte delle industrie, la produzione non è in serie ma unitaria, ed è il frutto di un investimento assai elevato. Il film, comunque, è agevolmente riproducibile a basso costo, una volta che se ne è ottenuto il prototipo. Si tratta peraltro di un prodotto durevole che può essere sfruttato ripetutamente e a lungo, compatibilmente col cambiamento dei gusti dei consumatori. Il rischio commerciale è molto alto rispetto agli altri prodotti industriali ed è sopportato in massima parte dal produttore, il quale spende notevoli somme nelle operazioni di lancio pubblicitario sui mercati nazionale e internazionale. Successivamente accorda la diffusione del film al distributore concedendo non la proprietà, ma solo un diritto di sfruttamento. A sua volta, il distributore concede ai proprietari delle varie sale cinematografiche la possibilità di utilizzare una copia del film per un periodo prefissato, svolgendo una funzione analoga a quella del grossista in altri settori produttivi. L'industria cinematografica, data la necessità di notevoli finanziamenti, di vasti mercati e per gli elevati rischi, tende strutturalmente alle concentrazioni, sia orizzontali sia verticali. Il controllo dell'intero ciclo, dalla produzione all'esercizio, rappresenta, dal punto di vista gestionale, la soluzione ideale, che si è verificata solo negli Stati Uniti, nel periodo compreso fra il 1930 e il 1950, fin quando le grandi compagnie furono sciolte in base ai provvedimenti anti-monopolio. La crisi del cinema, comune oggi a tutto il mondo occidentale, ha provocato cambiamenti importanti nella struttura dell'industria del cinema, favorendo, tra l'altro, la co-produzione dei film a cui concorrono, oltre ai quadri tecnici, anche capitali internazionali. A causa della sua diffusione e della sua importanza come strumento educativo e di propaganda, il cinema viene inoltre aiutato (con agevolazioni fiscali, contributi e premi) e controllato (mediante apposite commissioni di censura) quasi ovunque dalle autorità statali dei vari Paesi.

Edilizia

L'ambiente attrezzato per la proiezione di un film comprende una sala da proiezione, oscurabile, con relativo schermo, una cabina di proiezione e locali accessori. Il cinema si dice all'aperto quando gli spettatori, anziché in una sala chiusa, prendono posto all'aperto e in questo caso la proiezione può avvenire solo di sera; un tipo particolare di cinema all'aperto è il cineparco. § Un cinema si trova, in genere, incorporato in edifici a diversa destinazione (abitazione, albergo, uffici, grandi magazzini) e molto raramente sorge isolato. La sala può essere su uno o più livelli e avere dimensioni diverse a seconda delle esigenze: si considera economicamente valida una sala la cui capienza sia compresa tra un limite minimo di 250 e un limite massimo di 2000 spettatori. Per ogni spettatore si considerano necessari non meno di 0,75 m² (e quindi 2-6 m3); nella determinazione della cubatura complessiva è preferibile orientarsi verso i valori minoriper un miglior rendimento acustico; la lunghezza massima della sala resta comunque fissata, dai limiti di visibilità, intorno ai 35-40 m, mentre la forma varia da rettangolare a trapezio, a ventaglio, ovata. Lo schermo adottato è ormai sempre del tipo panoramico; la cabina di proiezione è posta normalmente alle spalle della sala dalla quale è completamente isolata mediante un muro tagliafuoco; l'impianto sonoro è diffuso in tutta la sala per raggiungere effetti stereofonici. Più complessi sono gli impianti necessari per una proiezione in cinerama, che richiede tre cabine di proiezione angolate esattamente come i tre obiettivi di ripresa (48º), una cabina del suono con molti gruppi di altoparlanti, un posto di comando per il coordinamento delle quattro cabine e un grande schermo curvo con base minima di 16 m. I locali accessori sono costituiti da atrio, biglietteria, servizi ed eventuale zona per conversazione e ristoro. Per un cinema si richiede un grande spazio completamente libero, senza alcun appoggio intermedio; ciò porta a un'oculata scelta della forma della sala e quindi alla soluzione dei problemi della visibilità e dell'acustica. Per quel che riguarda la visibilità, sia la profondità sia la larghezza della sala sono legate alle dimensioni dello schermo da rapporti determinati sperimentalmente; particolarmente importante, per tracciare l'inclinazione della platea, è la costruzione della cosiddetta curva di visibilità, ottenuta congiungendo, a file alterne, l'occhio dello spettatore con il margine inferiore dello schermo e controllando che questa congiungente passi a 0,15 m sopra l'occhio dello spettatore seduto due file più avanti. Per l'eventuale galleria, normalmente a un'altezza compresa tra i 3,50 e i 6 m sopra la platea, non vi sono particolari problemi di visibilità, che vengono globalmente risolti da una maggiore pendenza, il che però comporta la necessità di scale in luogo dei corridoi tra i settori di posti. Anche sui problemi acustici influisce la forma della sala, con la forma e dimensione delle pareti e della copertura; si dovranno correggere eventuali difetti della diffusione del suono disponendo, dove occorrano, pannelli acustici assorbenti o diffondenti. Altri problemi specifici sono quelli della ventilazione e del condizionamento dell'ambiente e della sicurezza; quest'ultimo richiede di provvedere uscite di sicurezza, di dimensionare tutte le uscite sulla capienza della sala (partendo da una larghezza minima di 1,50 m) munendole di porte con battenti apribili verso l'esterno.

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