La cancel culture, spiegata: significato ed esempi
Un fenomeno che mescola giustizia sociale e censura: la cancel culture mette in discussione comportamenti, parole e opere, solleva dibattiti su responsabilità e libertà di espressione e riflette le tensioni della nostra epoca, spingendoci a ripensare il modo in cui giudichiamo e affrontiamo gli errori altrui.
Negli ultimi anni si parla sempre più spesso di cancel culture: c’è chi la vede come una forma di giustizia sociale, chi come una nuova forma di censura - una sorta di caccia alle streghe - e chi ancora come il riflesso dei tempi moderni, in cui tutto viene giudicato in diretta sui social.
Ma la cancel culture è molto più di un fenomeno mediatico: è un laboratorio in cui la nostra epoca cerca un nuovo equilibrio tra libertà e responsabilità, memoria e cambiamento. Ha portato alla luce questioni urgenti e necessarie, ma ha anche mostrato quanto sia difficile trovare la misura tra diritto alla critica e diritto all’errore. Approfondiamo insieme cos’è la cancel culture, come è nata, perché è così divisiva e controversa e quali ne sono gli esempi più celebri.
Cerchiamo di comprendere quali sono i pro e contro di un fenomeno che sta cambiando il modo in cui giudichiamo persone, opere e comportamenti e che fa discutere filosofi, artisti e opinione pubblica in tutto il mondo.
Cos’è la cancel culture
Il termine cancel culture significa letteralmente “cultura della cancellazione”: si usa per indicare il fenomeno per cui una persona, un’azienda o anche un’opera subiscono forti critiche pubbliche – fino ad arrivare ad essere messe al bando, cancellate, appunto - per comportamenti, idee o linguaggi ritenuti offensivi.
Si tratta di una sorta di boicottaggio sociale, amplificato dalle piattaforme social che rendono immediata la reazione collettiva. Ciò che per alcuni è un necessario atto di responsabilità, per altri diventa un giudizio rapido e inflessibile che non lascia spazio a dialogo: una frase, un vecchio tweet o un’intervista diventano virali, e in poche ore l’opinione pubblica chiede scuse, dimissioni, o la rimozione di un prodotto. In certi casi la reazione porta a riflessioni sincere e cambiamenti positivi; in altri, si trasforma in un vero e proprio “processo collettivo” senza possibilità di difesa.
Ma al di là di qualunque considerazione, la cancel culture è soprattutto un termometro culturale che ci mostra quanto la società contemporanea stia ridefinendo i confini del rispetto, della responsabilità e anche della memoria.
Origini e sviluppo storico della cancel culture
Benchè si tratti di un fenomeno relativamente nuovo, la storia ci insegna che la cancel culture fa parte dell’animo umano praticamente da sempre. Già nell’antica Roma, infatti, era consuetudine cancellare il nome di un imperatore deposto – ma anche di un semplice condannato - eliminandolo da iscrizioni pubbliche, abbattendo le statue che lo ritraevano, distruggendo la tomba e addirittura raschiandone il ritratto dalle monete. Similmente, alla fine della seconda guerra mondiale, in Italia vennero distrutti busti, monumenti e fotografie del Duce, in un gesto catartico di chi voleva rinnegare il proprio passato con un colpo di spugna.
Ma anche più recentemente, la cancel culture non compare all’improvviso, ma affonda le radici in decenni di trasformazioni culturali e sociali continuando a rappresentare il modo in cui le società imparano a confrontarsi con le proprie ingiustizie.
Già negli anni Cinquanta e Sessanta, negli Stati Uniti, i movimenti per i diritti civili iniziano a mettere in discussione rappresentazioni razziste e ruoli stereotipati radicati nella cultura popolare: non si parla ancora di cancel culture, ma il principio è già presente e quando un linguaggio ferisce, quando un simbolo perpetua un’ingiustizia, ci si chiede se debba continuare a occupare lo spazio pubblico. La critica non è punitiva ma politica, ed è il primo segnale di una società che prova a rivedere i propri valori.
Negli anni Ottanta e Novanta, poi, nasce il dibattito sul politically correct, e qui la domanda diventa più sofisticata: come creare un linguaggio che rispetti tutti senza limitare la libertà di espressione? Si sperimentano codici, linee guida e politiche che cercano di conciliare inclusione e confronto. Ed è in questo clima che si afferma l’idea che anche le parole siano atti sociali, capaci di generare o ridurre discriminazioni.
Con l’arrivo del web 2.0, nei primi anni Duemila, lo scenario cambia radicalmente: internet non è più solo un archivio, ma diventa un luogo di partecipazione attiva ed i comportamenti diventano pubblici, condivisibili, commentabili. Non esistono più “spazi privati” celati allo sguardo collettivo: è il terreno perfetto per far crescere da un lato forme di responsabilizzazione dal basso, dall’altro dinamiche virali in cui la discussione si trasforma rapidamente in giudizio.
Il vero salto avviene negli anni 2010, con movimenti come #MeToo e Black Lives Matter: per la prima volta, milioni di persone raccontano contemporaneamente esperienze di discriminazione, violenza e abuso taciute per decenni. Non si tratta più di correggere il linguaggio, ma di portare alla luce sistemi di potere che hanno protetto comportamenti inaccettabili.
È in questo clima che la cancellazione assume una forma riconoscibile: la società, attraverso i social, interviene direttamente dove le istituzioni hanno fallito, chiedendo responsabilità immediata e visibile. La cancel culture, quindi, è l’erede di questo lungo e intricato processo: nasce dall’attivismo, si alimenta delle battaglie per i diritti e trova nei social un megafono potentissimo. È figlia di due tensioni opposte: il desiderio di giustizia e la rapidità del giudizio. La miscela è esplosiva e se da un lato continua la tradizione di critica sociale che vorrebbe essere costruttiva, dall’altro inaugura un nuovo modo — spesso impulsivo e distruttivo — di gestire la memoria, le colpe e i simboli.
Pro e contro: la doppia faccia della responsabilità
La cancel culture ha una forza notevole, ma porta con sé anche fragilità molto profonde, e in questa ambivalenza si crea il cortocircuito che la caratterizza: da un lato promuove consapevolezza, inclusione e giustizia, dall’altro può generare paura, divisione e limitazioni alla libertà di espressione.
Da un lato, infatti, rappresenta un passo avanti nella consapevolezza collettiva, permettendo a chi normalmente non ha voce nei media tradizionali di far sentire la propria opinione e di mobilitarsi per cause sociali importanti, come i diritti delle minoranze, l’uguaglianza di genere o la giustizia sociale. In questo modo, può diventare uno strumento efficace per contrastare abusi di potere e disuguaglianze, spingendo aziende, media e istituzioni a riflettere sui propri comportamenti e linguaggi, tanto che, spesso, personaggi pubblici criticati per dichiarazioni sessiste, razziste o omofobe hanno dovuto scusarsi o modificare il loro comportamento proprio grazie alla pressione collettiva.
Ma dall’altro lato, può diventare una forma di controllo sociale punitivo, agevolata dalla rapidità dei giudizi pubblici: quando la condanna è immediata, il perdono sembra impossibile e la paura di essere “cancellati” spinge molte persone all’autocensura, la cancel culture rischia di diventare una cultura del silenzio.
È qui che entra in gioco la questione della libertà di espressione: se tutti temono il giudizio immediato, anche opinioni legittime o discussioni costruttive vengono represse. La sfida consiste proprio nel trovare un equilibrio tra il diritto di esprimersi e la responsabilità sociale, evitando che la difesa dei diritti e della dignità altrui si trasformi in limitazione della libera parola.
Un altro limite della cancel culture riguarda la mancanza di procedure formali: le condanne avvengono spesso nel dibattito pubblico, senza passaggi verificabili o possibilità di difesa, con il rischio di giudizi affrettati o fraintendimenti. Non tutti gli errori hanno la stessa gravità e non tutte le azioni meritano la cancellazione: alcune situazioni richiedono confronto, crescita e dialogo, piuttosto che punizione immediata.
Esempi celebri della cancel culture
Negli ultimi anni, diversi casi, spesso molto diversi tra loro, hanno alimentato il dibattito sulla cultura della cancellazione. Il caso di Kevin Hart, costretto a rinunciare alla conduzione degli Oscar a causa di vecchi tweet omofobi, ha mostrato quanto sia difficile stabilire se e quando un errore passato debba pesare sul presente di una persona pubblica.
La vicenda di J.K. Rowling – autrice della saga di Harry Potter – ha invece evidenziato come la pressione online possa trasformare un confronto complesso in un conflitto polarizzato: la scrittrice è stata criticata per alcune dichiarazioni considerate ostili verso il movimento transgender, portando a dividere il pubblico tra chi ha preso le distanze dall’autrice, e chi difeso il suo diritto di esprimere opinioni impopolari.
Un’altra vicenda spesso citata è quella di Kevin Spacey, che dopo le accuse di molestie ha visto la sua carriera quasi azzerarsi nell’arco di pochi giorni: rimosso da progetti già completati, tagliato da produzioni milionarie, sostituito digitalmente in un film intero. Anche dopo essere stato assolto in più processi, la sua immagine pubblica è rimasta compromessa, e il suo ritorno nel cinema mainstream appare ancora difficilissimo. È un esempio emblematico: persino quando la giustizia formale assolve, la “giustizia” sociale può continuare a colpire.
Più ambiguo il caso di Will Smith, travolto da una valanga di critiche dopo lo schiaffo in diretta agli Oscar. Non si è trattato di una cancellazione totale — continua a lavorare — ma l’episodio ha comunque generato una sospensione di alcuni progetti, la presa di distanza di vari partner commerciali e un dibattito esplosivo sulla responsabilità delle celebrità. In questo caso, la reazione del pubblico è stata frastagliata, oscillante tra chi invocava sanzioni severe e chi interpretava il gesto come un errore grave ma non irreparabile.
La dinamica della cancellazione riguarda però anche le opere culturali: emblematica la discussione sul “bacio non consensuale” di Biancaneve, o il caso di Via col vento, rimosso temporaneamente da alcune piattaforme per la rappresentazione idealizzata del Sud schiavista, ha mostrato come le sensibilità contemporanee possano intervenire sulla fruizione di opere storicamente contestuali e quanto velocemente un’opera o un comportamento possa diventare terreno di scontro pubblico. La pellicola è stata poi reinserita con un’introduzione critica, ma resta aperta la domanda su come gestire i contenuti problematici: rimuoverli, contestualizzarli o lasciarli intatti?
Il mondo dell’istruzione non è rimasto immune: in alcune scuole statunitensi sono stati rimossi dai programmi testi come L’Iliade e L’Odissea, giudicati troppo legati a modelli culturali considerati oppressivi. Un aspetto che attraversa molti di questi episodi è il legame della cancel culture con quella che viene chiamata cultura woke, una sensibilità nata nei movimenti antirazzisti e poi ampliata alle battaglie per i diritti e l’inclusione. In alcuni casi questa consapevolezza ha favorito letture più critiche delle opere e dei comportamenti pubblici, in altri ha contribuito a creare reazioni immediate e polarizzate, in cui il dibattito si sposta dal merito delle questioni all’identità di chi parla.
Paola Greco
Foto di apertura: Freepik