Sul cammino della storia: dai briganti agli anni di piombo

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Racconti di dolore e fragilità, silenzi più assordanti di mille bombe, la ribellione e la rinascita: "Italia 70. 10 anni di piombo" e "Noi briganti", i due documentari proposti da Vativision per immergersi nella storia, una storia sia collettiva che individuale, dove il passato si fa portavoce di un dolore ancora visibile nel presente.

A un anno dalla sua nascita, Vativision propone una serie di film che accompagnerà lo spettatore in un toccante viaggio che attraversa arte, storia, cultura e fede: lo scopo è quello di indagare, con approccio profondamente umano, i diversi aspetti della conoscenza e della sua infinita bellezza. Un viaggio, appunto, che rispecchia lo scopo della piattaforma, e cioè quello di stimolare e recuperare le differenti riflessioni su quei valori terreni e spirituali così importanti per l’esistenza stessa dell’essere umano.

Due di questi documentari, Italia 70. 10 anni di piombo e Noi briganti, ripercorrono un itinerario, un cammino storico con intenti e finalità differenti. Mentre il primo si fonda su di una precisa e dettagliata ricostruzione composta di testimonianze, commenti e immagini dell’epoca di quel tremendo periodo che finisce sotto il nome di Anni di Piombo, il secondo prende spunto dal fenomeno postunitario del brigantaggio, e ci conduce sul cammino dei briganti, un sentiero appenninico tra Abruzzo e Lazio percorso dai fuorilegge dell’epoca, per raccontarci le storie di sei ospiti di una cooperativa sociale che vivono una condizione di difficoltà e fragilità personale. Due salti nella storia che segnano un cammino collettivo e individuale allo stesso tempo, dove il passato si fa portavoce di un dolore che lascia tracce e solchi profondi anche nel presente.   

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Gli anni di piombo: il terrorismo italiano

Dal 1969 al 1980 l’Italia visse un periodo segnato da un’altissima tensione nello scontro politico che sfociò in atti di terrorismo, manifestazioni violente, scontri di piazza che coinvolsero migliaia di giovani. Molte furono le vittime di questi episodi. Il nostro paese fu colpito da una serie di attentati stragisti, imputati a gruppi estremisti di destra (NAR, Ordine Nuovo) con il fine di far precipitare la società nel caos. La cosiddetta strategia della tensione che doveva servire a preparare una svolta autoritaria.

Parallelamente, da alcune frange estreme del movimento del sessantotto, nacquero gruppi terroristi di estrema sinistra che in disaccordo con il distacco del PCI da Mosca ripresero la lotta armata con gruppi clandestini. Fra le molte fazioni emersero nel terrorismo rosso le Brigate rosse (BR).

La strage di Piazza Fontana

Il documentario Italia 70. 10 anni di piombo, diretto da Omar Pesenti, con il supporto di filmati di Rai Teche e Istituto Luce, comincia la sua ricostruzione storica da uno degli attentati più cruenti di quel periodo, e cioè la strage di Piazza Fontana a Milano, quando il 12 dicembre 1969 al Banco Nazionale dell’Agricoltura esplose una bomba che causò 18 morti e 90 feriti.

Dopo inutili indagini sull’area anarchica, risultata estranea ai fatti, emersero responsabilità legate ai gruppi terroristi di estrema destra, con coperture da parte di alcuni funzionari dei servizi segreti e dell’esercito. Fortunato Zinni, allora bancario presso l’Istituto e sopravvissuto alla strage, ripercorre con la sua testimonianza i dettagli di quel terribile giorno. A colpire, inoltre, sono le immagini dell’epoca che mostrano la devastazione successiva all’esplosione, ma forse quelle più toccanti riguardano il funerale delle vittime che si svolse nel Duomo di Milano. E non tanto per la numerosa partecipazione, quanto per il silenzio che aleggiava sulla folla stipata in piazza. La gente non applaudì l’uscita della bare dalla chiesa, ma rimase in silenzio, un silenzio che però diventò più “assordante di mille bombe”, come dice Fortunato Zinni, per rimarcare il valore della reciproca comprensione nel lutto e nel dolore causato dalla violenza. Una partecipazione collettiva, una solidarietà cittadina muta eppure potente, una ribellione silenziosa che tentava di dire no ai boati che sconvolgevano la società del tempo.

Piazza della Loggia: continua l'orrore

È il 28 maggio 1974 e a Brescia, in Piazza della Loggia, è in corso una manifestazione indetta dai sindacati per protestare contro il terrorismo di stampo neofascista, quando alle 10:12 un boato, provocato da una bomba nascosta in un cestino dei rifiuti, fa precipitare i partecipanti nel panico e nell’orrore. È l’ennesimo attacco intimidatorio e stragista da parte di Ordine Nero, il gruppo di estrema destra nato sulle ceneri di Ordine Nuovo. Manlio Milano è un sindacalista giunto in piazza con la moglie pochi attimi prima dell’esplosione. Nel film lo vediamo ritornare sul luogo della strage e ricordare quegli istanti: lui si ferma un momento a salutare un conoscente, sua moglie prosegue di qualche passo. Le sarà fatale, verrà investita dalla forza d’urto dell’esplosione. 

Il terrorismo rosso

Le Brigate Rosse raccolsero centinaia di militanti – simpatizzanti passando dopo i primi anni di modesta attività ad effettuare attacchi sempre più gravi contro giudici (rapimento del giudice Sossi, uccisione del magistrato Coco), giornalisti, poliziotti e politici democristiani, tutti ritenuti dei “servi del potere”, cioè responsabili della politica italiana che secondo i brigatisti sfruttava le masse popolari. In un crescendo di assassini le BR arrivarono a circa duemila componenti, compiendo nel 1978 la loro azione più eclatante: il rapimento e l’uccisione del presidente della Democrazia cristiana, Aldo Moro

Franco Bonisoli: un ex brigatista pentito

All’interno del documentario troviamo un’altra importantissima testimonianza, quella di Franco Bonisoli, membro attivo delle Brigate Rosse in quegli anni, che partecipò a molte azioni del gruppo, tra le quali il ferimento di Indro Montanelli e il sequestro Moro. Bonisoli ripercorre quel periodo della sua vita sottolineando che la spinta ideologica di quel tempo era così forte da indurre il gruppo a una serie di omicidi a carico di magistrati, avvocati e poliziotti mentre si svolgeva il processo di Torino contro i principali esponenti delle Brigate Rosse, tra i quali Renato Curcio, uno dei fondatori delle BR.

Secondo Bonisoli lo Stato non veniva riconosciuto come un organo preposto alla democrazia. L’ex brigatista verrà condannato a metà degli anni ’80 a quattro ergastoli, dissociandosi in seguito dagli intenti delle BR. La sua intervista all’interno del film è tratteggiata da un’amara analisi di quel periodo della sua vita, emerge un pentimento che suona sincero e lucido allo stesso tempo, perché Bonisoli dice di ritenersi uno “sconfitto”, rivedendo la sua condotta e quella dei brigatisti, arrivati a un punto tale da disumanizzare completamente l’ideale politico perseguito, senza tenere conto che in gioco c’era la vita di persone in carne ed ossa.

L'informazione scomoda

Un altro contributo interessante che Italia 70 propone è il commento del giornalista e direttore Ezio Mauro, in quegli anni collaboratore della Gazzetta del Popolo di Torino. Anche lui oggetto di pedinamenti da parte dei brigatisti rossi, a causa di alcuni suoi articoli dell’epoca sui gruppi terroristici, ricorda quegli anni durissimi per gli addetti della carta stampata, spesso vittime di attentati attraverso la pratica della gambizzazione. Il già noto e ricordato attacco nei confronti di Indro Montanelli sarà solo uno dei tanti episodi di questo genere, che sfoceranno nell’omicidio di Carlo Casalegno, vicedirettore del quotidiano La Stampa, reo di aver pubblicato articoli estremamente polemici nei confronti della lotta armata.

Il brigantaggio

Dopo l’Unità d’Italia e il disfacimento del regime borbonico, il Mezzogiorno si ritrovò a dover fare i conti con una situazione economica che lo poneva in netto svantaggio rispetto a un Settentrione maggiormente sviluppato sul modello piemontese. I problemi sociali delle masse contadine e la delusione per un mancato miglioramento della loro condizione, causarono il primo fenomeno di ribellione: il brigantaggio. Si formarono vere e proprie bande che borseggiavano, contrabbandavano e vivevano in clandestinità. Questi gruppi di “briganti” formati da contadini che avevano contratto debiti, piccoli criminali ed ex soldati dell’esercito borbonico, ritenevano il nuovo stato un “nemico”. Nacquero delle vere e proprie figure leggendarie, come Nino Nanco e Carmine Crocco, eletti a giustizieri contro gli usurpatori piemontesi. Fenomeno questo, tra gli altri, che aprirà la cosiddetta questione meridionale.

Il cammino dei briganti fragili

Noi Briganti, prodotto dalla cooperativa sociale Alpha di Pesaro con regia di Eugenio Cinti Luciani, è un documentario che racconta il viaggio sull’antico cammino dei briganti da parte di sei ospiti della Onlus con problemi psicologici e vittime di dipendenze, accompagnati da due educatori della struttura. E durante il tragitto che fu quello di chi al tempo manifestava con quella condotta di vita un’avversione ai nuovi poteri costituiti, incontriamo diverse storie di fragilità di persone comuni che vivono nel nostro tempo. I sei protagonisti dovranno fare i conti con le difficoltà che un percorso a tappe tra la natura comporta, riscoprendosi, però, allo stesso tempo fragili e uniti, solidali e partecipi, quasi che la fatica del vivere quotidiano, e le sue conseguenze sulla salute, possano trovare nel cammino intrapreso un nuovo modo di poter affrontare il lato debole e umanissimo che ciascuno di noi porta con sé nella propria condizione terrena. 

Un percorso di rinascita

Il Cammino dei Briganti si snoda tra la Val de Varri, la Valle del Salto e il Monte Velino. È in pratica un anello della lunghezza di 100 km, percorribile in sette giorni, e attraversa l’appennino a quote medie che vanno tra gli 8oo e i 1300 metri. Le regioni geografiche della Marsica e del Cicolano erano un tempo zone di confine tra lo Stato Pontificio e il Regno Borbonico; i briganti attraversavano queste zone a seconda del pericolo proveniente dall’una o dall’altra parte, erano spiriti liberi che preferivano la clandestinità all’obbligo di dover entrare nell’esercito del nuovo Regno d’Italia.

Ecco, l’idea di fondo del documentario è forse proprio quella di creare un parallelo umano, e non storico, tra chi oggi si rifugia, volontariamente o meno, in un modo di vivere che esce da schemi socialmente e moralmente precostituiti, anche se estremi e a volte a danno della propria stessa esistenza, e chi in passato cercava una strada alternativa a una costrizione imposta che andava formandosi attorno a sé. Ecco, un nuovo percorso, una diversa via, una rinascita. E proprio nelle fasi iniziali del cammino, il documentario ci mostra un ospite della cooperativa che pianta dei semi sul ciglio del sentiero, augurandosi che tutto ciò possa rappresentare una nuova fioritura della propria esistenza, un altro inizio, perché nella vita c’è sempre la speranza di poter ricominciare.

Il percorso dei briganti

Un tempo che resiste

Bellissime e suggestive sono le immagini di Noi briganti che a più riprese colgono la comitiva nel passaggio tra la natura e i borghi della zona: una mucca col suo vitellino ci trasmette un senso di materna tenerezza, un asinello che pascola libero in un campo invoglia i partecipanti ad accarezzarlo, un casolare isolato tra i monti sporge su di un tramonto di rara intensità. Al termine del secondo giorno la comitiva fa la conoscenza di alcune donne e alcuni uomini del piccolo villaggio dove sosteranno per la notte. Si parla di religione, di prodotti locali, emerge una realtà dal sapore antico che ancora sembra resistere, lontana dalla frenesia e dalla dispersione caotica delle città, si fa strada un rapporto vivo e diretto con i propri luoghi di appartenenza e quelle tradizioni che ancora trovano il modo di continuare. Una cultura contadina e popolare che non si vuole arrendere all’accelerazione disumanizzante che è a volte causa di quel malessere di cui soffrono i protagonisti del film.

La tecnologia come aiuto

Il regista Luciani è però abile nel cogliere le telefonate quotidiane che i protagonisti del cammino fanno o ricevono nei momenti di pausa. Amici, parenti, ospiti rimasti a casa che non se la sono sentita di affrontare il viaggio, si mettono costantemente in contatto con loro per avere notizie, farsi raccontare la giornata trascorsa, mandare una parola di conforto e incoraggiamento. È particolare assistere a queste scene, che mettono in contrasto il duro adattamento incontrato nel dover mutare abitudini e stili di vita (basti pensare al problema del lavare i panni a mano) alla possibilità di sfruttare comunque la tecnologia, per restare in contatto con chi può supportare anche solo con la voce, seppur lontana. Chissà come gli antichi briganti riuscivano a comunicare con chi avevano lasciato.

Noi briganti e la tecnologia

Siamo noi i briganti

Ma sono le vicende personali, raccontate apertamente, accennate o sottaciute, dei sei ospiti della cooperativa, a fare di questo documentario un toccante eppure disincantato sguardo sull’umanità. Sono storie di estremo dolore e fragilità, riflesse nell’occhio di una macchina da presa che nel frattempo le incornicia in un paesaggio dolcissimo, a fare di questo cammino una sorta di allegoria dantesca, dove dall’inferno di una condizione irta e tortuosa si può risalire verso uno spiraglio di luce possibile. "Siamo noi i briganti”, sostiene uno dei protagonisti del documentario, giunto di fronte a un cartello che indica il sentiero storico di quei nostri predecessori. E forse ci viene da pensare che su quel tragitto ci siamo tutti, che ognuno ha il suo fardello di pena da portarsi sulle spalle, e che l’innocenza è una conquista prima di tutto interiore. 

 

Fabrizio Bernini