L'esordio del teatro classico: Corneille

La vita e le opere

Pierre Corneille (1606-1684) nacque da un'agiata famiglia della borghesia. Dopo brillanti studi nel collegio dei gesuiti di Rouen, sua città natale, si dedicò al diritto, diventando avvocato al Parlamento di Rouen (1624) e in seguito magistrato.

Le prime opere

Non si sa che cosa lo spinse a scrivere la prima commedia. Forse l'amore per una giovane donna, Catherine Hue, la cui mano gli venne rifiutata, gli suggerì un sonetto e quindi una commedia, Mélite ou les fausses lettres (Melito o le lettere false, 1629). La pièce venne accettata dal noto attore Montdory e rappresentata a Parigi con grande successo. Recatosi a Parigi, coinvolto nel dibattito sulle regole, compose una tragicommedia rigidamente organizzata nel quadro delle tre unità aristoteliche (di unità d'azione, intorno a un solo intreccio principale; di unità di tempo: i fatti rientrano nelle ventiquattro ore; di unità di luogo, che non deve mutare mai): Clitandre (1631). Nelle commedie successive, La veuve (La vedova, 1632) e La galerie du Palais (La galleria del palazzo, 1633), ritornò ai caratteri più liberi della prima opera: ambientazioni familiari, linguaggio concreto e vivo che non disdegnava l'uso di espressioni e vocaboli comuni. La vena comica però andò attenuandosi; nella pièce La place Royale (La piazza reale, 1635), il protagonista innamorato rinuncia all'amore per preservare la propria libertà, annunciando così le tematiche delle tragedie della maturità. Diventato autore celebre, fu chiamato da Richelieu a far parte del gruppo di scrittori incaricati di mettere in versi La comédie des Tuileries (La commedia delle Tuileries, 1635). Nel 1635 rappresentò la sua prima tragedia, Médée, ispirata ai modelli di Euripide e Seneca. Tornò alla commedia con L'illusion comique (L'illusione comica, 1636), composizione originale e bizzarra in cui, attingendo al teatro borghese e alla commedia dell'arte, affida al personaggio di Alcandro l'esaltazione del teatro e la difesa della dignità dell'attore.

La polemica sul "Cid"

Il 9 gennaio 1637 andò in scena a Parigi Le Cid, una nuova tragicommedia ispirata a un dramma spagnolo di Guillén de Castro. Nel Cid appaiono già temi tipici di Corneille: l'affermazione esaltata di sé, la lucidità, la forza eroica dei protagonisti, messi di fronte a una scelta angosciosa. La rappresentazione ottenne un successo immenso. La corte assisté ad alcune repliche e concesse all'autore patenti di nobiltà. Corneille chiese allora per sé dagli attori un compenso maggiore di quello pattuito. Ottenuto un rifiuto, decise di pubblicare la tragedia, un gesto contrario alle consuetudini e che danneggiava la compagnia, in quanto, non esistendo allora i diritti d'autore, chiunque avrebbe potuto utilizzarla una volta in circolazione. Inoltre, inorgoglito dal successo, rese pubblici dei versi, Excuse à Ariste, in cui eccedeva nell'esaltazione della propria opera e non lesinava attacchi ai colleghi, guadagnandosi violente critiche. La polemica, forse innestata anche da invidia per il suo successo, si rivelò subito assai aspra: Corneille fu accusato di aver copiato interi brani dal dramma di de Castro, di aver presentato scene dai tempi inverosimili, di aver offeso le regole della tragedia. Da una parte e dall'altra si trascese nelle ingiurie, finché Richelieu intervenne, affidando l'arbitrato all'Académie française che a dicembre espresse un parere che, pur riconoscendo i pregi dell'opera, era sfavorevole a Corneille: al Cid si rimproverava di offendere la verosimiglianza e le convenienze; le sue verità mostruose, pur "vere", non erano "verosimili" e quindi dovevano essere soppresse per il bene della società. Corneille si sottomise al giudizio e per tre anni non scrisse più nulla.

Tragedia romana e tragedia cristiana

Nel 1640 Corneille compose Horace, la prima tragedia, ispirata alla storia romana, che rispettava quasi del tutto le tre unità classiche e presentava grande efficacia drammatica. Ben più del Cid, Orazio appare un eroe cornelliano tipico, deciso a perseguire la propria gloria, a servire la patria, con un'intransigenza che si può definire brutale. La seconda tragedia romana, Cinna, scritta nel 1642, si ispirava a un brano di Seneca: una congiura ordita da Cinna contro Augusto offre all'imperatore l'occasione per una profonda meditazione morale e politica, dalla quale dolorosamente emergerà elevandosi fino al perdono e conquistando così la grandezza della magnanimità. Nel 1643 Corneille fece rappresentare la prima tragedia di argomento religioso, Polyeucte, da molti giudicata il suo capolavoro. Anche Poliuto può apparire incurante di travolgere i destini altrui pur di perseguire il proprio fine di gloria, di obbedire al proprio comando interiore. Egli sacrifica l'amore per la moglie Pauline per conquistare la santità. Charles Péguy ha indicato nelle quattro tragedie citate il culmine dell'arte di Corneille, definendole un solido geometrico le cui basi sono: onore (Il Cid), patriottismo (Orazio), generosità (Cinna); il vertice è la santità (Poliuto). L'eroismo umano è diventato santità, virtù; la forza dell'eroe è illuminata dalla luce della grazia: il martirio di Poliuto trascina e innalza verso Dio anche la sua sposa; così amore terreno e amore divino appaiono infine riconciliati.

La volontà di potere

Rinnovando ancora una volta il proprio repertorio, Corneille scrisse, tra il 1642 e il 1643, una tragedia storica La mort de Pompée (La morte di Pompeo), quindi una commedia piena di vivacità e fantasia, Le menteur (Il bugiardo). Seguì la cosiddetta trilogia del male: Rodogune (1645); Théodore (1645); Héraclius (1647), tragedie cupe e violente in cui egli mise in scena personaggi brutali e crudeli. La più bella è certo Rodogune, dallo stesso autore giudicata la migliore di tutte le sue opere. Nell'Examen del 1660 (sorta di analisi con cui accompagnava la pubblicazione delle opere), Corneille ammetteva il fascino che esercitava su di lui la feroce eroina della tragedia: i suoi orrendi delitti gli apparivano accompagnati da una "grandezza d'animo" che non si può non ammirare. Il poeta andava giustamente fiero della potenza poetica di questa tragedia, del crescendo apocalittico dell'ultimo atto. Ormai all'apogeo della gloria, nel 1647 venne ammesso all'Académie Française.

Le ultime opere

Corneille compose ancora Andromède (1650), un divertimento musicale richiesto da Mazarino; una tragicommedia, Don Sanche d'Aragon (Don Sancio di Aragona, 1650); Nicomède (1651), una tragedia storica e politica in cui campeggiano due eroi inflessibili, che ottenne un grande successo. Tanto più sorprendente dunque appare il fallimento di Pertharite l'anno successivo. Avvilito, l'autore si ritirò a Rouen e si dedicò a una parafrasi poetica dell'Imitazione di Cristo, celebre opera mistica medievale. Ritornò al teatro nel 1659 con Oedipe, accolto con grande favore. Pubblicò alcuni testi teorici: gli Examens (1660) e i Discours (Discorsi) sul poema drammatico; seguirono altre opere teatrali, La toison d'or (Il vello d'oro, 1661-62), Sertorius (1662), Sophonisbe (1663), Othon (1664), Agésilas (1665), Attila (1667), ma i tempi erano cambiati, e con essi i gusti del pubblico. Corneille appariva ormai attardato e la sua fama offuscata dall'astro nascente di Jean Racine. Nel 1670 il confronto fra la sua tragedia Tite et Bérénice (1670) e la Berenice di Racine fu favorevole a quest'ultimo. Compose ancora Psyché (1671), una tragedia-balletto scritta in collaborazione con Molière, Pulchérie (1672) e l'ultima tragedia, Suréna général des parthes (Surena generale dei parti, 1674). Suréna è la tragedia della rinuncia al mondo, del misticismo dell'amore. Surena ed Euridice preferiscono salvare il proprio sogno interiore piuttosto che piegarsi ai compromessi della vita. Ancora due eroi inflessibili dunque, ma non vittoriosi. La loro scelta non li conduce alla gloria, né all'affermazione di sé, ma semplicemente al distacco dal mondo, alla salvezza di un'intima irrinunciabile purezza. Dopo quest'opera, stanco, provato da dolorose vicende familiari, Corneille abbandonò il teatro. Morì a Parigi.