Approfondimenti

  • Il protagonista di <em>Auto da fé</em>

Il protagonista di <em>Auto da fé</em>

Peter Kien si sente così minacciato che rinuncia alla propria autonomia, per non esserne privato dagli altri; egli si oppone all'amore, per non esserne risucchiato e cioè assorbito sino all'annientamento; esclude la realtà, perché ne teme l'implosione ossia teme che la realtà lo colmi fino a cancellare la sua precaria identità, ch'egli avverte quale un vuoto. [...] Kien persegue un'estrema razionalizzazione linguistica; vuole soffocare la pressante e irridicibile molteplicità dei fenomeni nella rigida classificazione della nomenclatura scientifica. Si rivolge infatti alla terminologia greco-latina, per eliminare qualsiasi pericolo di mobilità e mutamento. [...] Kien si protegge dietro i segni rigidi e fissi di quella convenzione, perché egli cerca una protezione dalla vita e la trova appunto nel rigor mortis del segno istituzionalizzato.

Tutta l'opera di Canetti è pervasa da un tenero amore per ogni palpito di vita non riconducibile al linguaggio, e al giudizio ch'esso sempre sottintende e che è sempre crudele [...]. La grande ossessione di Canetti è il paradossale rifiuto della morte, che egli non può accettare e della quale egli non si risolve ad ammettere l'inevitabilità. In questo rifiuto c'è un'accanita tenerezza, una capacità d'amore – rivolta ad ogni creatura – che talora sembra pervasa da una segreta, compostissima eppure inquietante follia.[...] Nell'altissimo finale dell'Auto da fé, quando Peter Kien si dà fuoco insieme alla sua biblioteca, egli ride forte, col riso di trionfo di chi si assicura per sempre una preda o del potente che riesce ad incorporare per sempre gli oggetti e i beni della sua realtà, portandoseli dietro nella morte. Questo riso, d'una distorta conoscenza e di un invasato dominio riacquistato sul mondo senza testa, è una delle grandi pagine del romanzo novecentesco. Auto da fé è il ritratto di un delirio che continua ad abbagliare mortalmente, il delirio che vaneggia di salvare la vita annientando la vita, e che si protende con folle ghigno storicista verso un futuro il quale abbia inghiottito e cancellato ogni traccia di esistenza concreta.

Claudio Magris, L'anello di Clarisse, Einaudi, Torino 1984, pp. 260, 275-276, 281, 285.