Idee e istituzioni educative nell'età medievale

Il progressivo aumento del potere della Chiesa cristiana rispetto all'influenza civile del potere dello Stato fu quanto mai evidente all'epoca delle invasioni barbare, quando la Chiesa si pose come unico punto di riferimento forte contro la confusione economica e politica data dalle invasioni.

I monasteri come centri di cultura

I monasteri, dapprima visti come punto di rifugio e di protezione, assunsero quindi la funzione di mercati, magazzini, banche, punti di ritrovo. Quando la situazione politica tornò a essere più tranquilla essi divennero invece punto di riferimento e raccordo per le attività agricole che si svolgevano nel loro circondario – facendosi promotori delle principali forme di produzione e commercio riscontrabili in Europa nel periodo che intercorse tra il crollo dell'Impero Romano e l'ascesa al potere di Carlo Magno.

I monasteri si proponevano anche come importante e spesso unico centro di formazione culturale, anche perché nella società dell'epoca, che si era andata configurando come rigidamente classista, la carriera ecclesiastica oltre a essere l'unica strada che garantiva una qual certa formazione culturale era anche l'unica che prospettasse una qualche forma di promozione sociale.

L'ideale pedagogico di cui il clero si faceva promotore può essere ben esemplificato da quello in vigore nei monasteri benedettini. Benedetto da Norcia (ca. 480-ca. 547), oltre a essere il fondatore della famosa abbazia di Montecassino lasciò anche la famosa regola che nei secoli successivi regalò non solo i monasteri benedettini, ma che fu alla base dell'impostazione di quasi tutte le comunità religiose. Tale regola, riassumibile nel celebre motto “ora et labora” era basata sull'idea che il frate doveva sempre essere tenuto lontano dall'ozio. Le giornate dei monaci erano dunque occupate o nella preghiera e meditazione dei testi sacri o in attività lavorative assegnate ai diversi membri del monastero sulla base delle singole competenze. Questo portò a una netta distinzione di ruoli all'interno dei monasteri stessi che si accentuò soprattutto con l'espandersi dei monasteri e delle attività a essi collegati. I monaci che occupavano i livelli più alti di questa gerarchia interna erano solitamente esentati dal lavoro manuale che sostituivano con lavori collegati alle ricche biblioteche monastiche (per lo più trascrizioni e decorazioni dei manoscritti) oppure con l'insegnamento.

Infatti, fino al XII secolo la scuola collegata al monastero con i suoi monaci-maestri sarà l'unica forma di scolarizzazione istruzione per qualsiasi livello educativo. Nonostante la diffusa applicazione della regola benedettina in capo formativo, essa non riporta precise indicazioni metodologiche o didattiche, ma incoraggia unicamente la socializzazione dei giovani attraverso la frequentazione delle pratiche religiose, raccomandando agli insegnanti di mantenere un atteggiamento severo ma comprensivo nei confronti degli studenti.

In questo periodo la scuola era dunque destinata unicamente a quanto si preparavano a intraprendere la vita religiosa, con l'eccezione dei figli dei nobili cortigiani, per i quali era ritenuta utile, accanto alla preparazione militare, anche una certa educazione in campo letterario e giuridico. Ma in questi casi l'educazione era scarsamente formalizzata, tanto che risulta difficile parlare di scuole.

Per la grande maggioranza della popolazione non era previsto alcun tipo di istruzione che, secondo l'ottica del tempo, era del tutto inutile per chi era destinato al lavoro dei campi.

Tra l'altro lo stesso livello di istruzione degli ecclesiastici era spesso estremamente basso (Pipino il Breve per porre rimedio a questa situazione emanò la regola di Lodregango volta a favorire la lettura tra gli ecclesiastici) ed era considerato un problema di difficile soluzione il tentativo di migliorare le scuole pensate per la formazione del ceto sacerdotale. Di conseguenza la questione di una possibile forma di istruzione per il resto della popolazione non veniva neppure preso in considerazione.

La riforma carolingia

Carlo Magno, una volta salito al potere, si rese ben conto del basso livello dell'istruzione promossa dalle scuole ecclesiastiche, e di quanto ristretta e settoriale fosse la loro utenza. Cercò dunque di porre un rimedio alla cosa affidando da una parte funzioni civili agli ecclesiastici (organizzazione e controllo dei registri anagrafici, conservazione e restauro dei codici, e soprattutto insegnamento) e cercando di promuovere l'elevamento del livello dell'educazione di base e la sua diffusione, sulla base della lungimirante previsione che un investimento a livello formativo avrebbe portato risultati positivi a livello sociale ed economico.

Ma questa riforma scolastica ipotizzata da Carlo Magno stentò a ottenere un successo che fosse altro che nominale. Il clero si risentiva dell'aggravarsi degli impegni che il governo aveva loro affidato e per i quali riteneva di non aver ricevuto sufficienti benefici in cambio, inoltre le scuole ecclesiastiche pur accettando di buon grado quanto veniva loro concesso per favorire il loro sviluppo (per lo più strumenti didattici e insegnanti) non erano ancora propensi ad aprire le loro aule a chiunque ne facesse richiesta se non intenzionato a intraprendere il cammino verso il sacerdozio o il monachesimo.

Fu l'imperatore Lotario nell'825 ad aprire le prime scuole statali – ma anche questa iniziativa ebbe poco successo. In primo luogo gli insegnanti erano prevalentemente religiosi anche nelle scuole pubbliche, pertanto l'impostazione didattica era sempre decisa in ultima istanza dal potere religioso; in secondo luogo pochi furono gli iscritti laici a queste scuole che ebbero al più l'unico merito di spingere i monasteri ad accettare – per paura della concorrenza statale – come alunni anche laici che ne avessero fatto richiesta.

Interessante però l'organizzazione degli studi prevista nelle scuole carolinge, dove le materie insegnate erano divise in due aree forti: il trivio (che corrispondeva all'area letteraria, quindi grammatica, retorica e dialettica) e il quadrivio (area matematica: aritmetica, geometria, astronomia, musica). Le arti del trivio cui era comunque sempre attribuita una maggiore importanza nel processo formativo del giovane, erano organizzate secondo il modello pedagogico ellenistico, mentre quelle del quadrivio, ben lontane dal rispecchiare le nostre idee di insegnamento scientifico erano insegnati a partire dalla lettura di brani di autori cristiani incentrati sulla natura del mondo, sulla ricerca delle leggi divine che regolano il creato e via di seguito, cercando però di trarre da tali speculazioni nozioni che risultassero utili alla vita religiosa (calcolare per esempio la data in cui cadeva il giorno di Pasqua, o apprendere la musica in funzione dei canti delle celebrazioni religiose).

La metodologia didattica impiegata era quella basta sulla lettura e sul commento di testi. La finalità di tale lettura era inizialmente solo la meditazione e la riflessione sul testo stesso che portava alla scoperta della verità celata dietro di esso, verità vista come unica, fissa e assoluta. Successivamente si aggiungerà la disputatio, una fase successiva alla lettura e riflessione sui testi che vedeva alunni e insegnanti impegnati in una discussione volta però sempre a cogliere il senso profondo degli autori che si studiavano.

Il trivio e il quadrivio potrebbero essere paragonati alla nostra istruzione secondaria. Non molta attenzione didattica era riservata invece all'istruzione primaria, vista unicamente come preparazione alla più importante formazione di livello avanzato (essendo l'istruzione riservata solo a un'utenza scelta era estremamente raro il caso di persone che abbandonassero la scuola dopo aver raggiunto solo un livello di base). L'apprendimento di abilità di lettura e scrittura avveniva tramite esercizi di ripetizione di lettere e sillabe seguiti dall'apprendimento mnemonico e poi dalla lettura e copiatura di testi. Il tutto veniva portato avanti senza alcuna fretta (l'acquisto della sapienza dipendeva da Dio, ed era quindi giusto rispettare i suoi tempi) né alcuna attenzione all'interesse o alla motivazione degli studenti.

La figura del cavaliere

La nobiltà dell'epoca, basata sul sistema feudale, aveva una posizione opposta rispetto a quella dei monaci nei confronti della cultura messa decisamente in secondo piano rispetto alle virtù guerriere.

Di conseguenza la formazione dei signori feudali seguiva ben altro percorso rispetto a quella dei futuri ecclesiastici.

I bambini erano affidati alle cure della madre fino ai sette anni, quando venivano mandati a servire come paggi presso la corte di altri signori, amici o alleati del padre. Successivamente, intorno ai quattordici anni, i giovani venivano promossi a scudieri e accompagnavano il loro signore alle guerre o ai tornei; questo tirocinio durava circa fino al compimento dei vent'anni quando generalmente arrivava la nomina a cavaliere, la cui vita sarebbe poi stata impegnata tra tornei, guerre e crociate.

A livello ideologico i cavalieri disprezzavano il lavoro manuale e chi lo praticava. Di conseguenza i cavalieri, pur alternando imprese nobili e protettive nei confronti dei poveri e degli indifesi ad altre basate sul sopruso nei confronti dei loro sottoposti, contribuirono a instaurare un sistema non volto alla produzione di nuova ricchezza ma allo sfruttamento delle risorse già esistenti, tanto che la cavalleria decadde proprio quando il sistema feudale iniziò a entrare in crisi con lo spostamento della “forza produttiva” dalle campagne e dagli insediamenti nati intorno ai castelli verso le città, nuovi centri di produzione e commercio.

Durante il periodo del feudalesimo è possibile però riscontrare dei modelli educativi anche nelle classi popolari, basati da una parte sull'educazione reciproca all'interno delle comunità rurali (che si estendeva dalla formazione a livello sociale data dal rispetto di precise gerarchie alla condivisione di saperi pratici) e, naturalmente, sulla trasmissione generazionale di nozioni pratiche collegate al lavoro.

Le corporazioni di arti e mestieri

Dopo l'XI secolo il commercio conobbe una forte ripresa che portò non solo una ripresa economica ma anche un notevole cambiamento nella vita della popolazione che iniziò progressivamente a spostarsi dalla campagna nei nuovi borghi dove crescenti erano le richieste di manodopera specializzata e di commercianti.

Iniziarono a sorgere le prime corporazioni di arti e mestieri, che favorirono la specializzazione di alcuni artigiani e rafforzarono il collegamento tra artigianato e commercio.

Sia per gli artigiani che per i commercianti era ovviamente previsto un preciso iter formativo, che, nel caso della prima categoria era piuttosto rigido e scarsamente aperto a innovazioni, basato sull'apprendimento pratico scaglionato in lunghi anni di apprendistato, che non sempre culminavano con il conseguimento della piena padronanza delle tecniche collegate al mestiere intrapreso. Per la formazione dei mercanti era necessario invece considerare nuove metodologie che si adattassero ai nuovi contenuti introdotti con lo sviluppo del commercio – quali le tecniche di calcolo, competenze cartografiche e nautiche, e via di seguito. Tali iter formativi non erano però facilmente accessibili a giovani che non avevano alle spalle famiglie che avessero fatto fortuna. Solo le famiglie più ricche, infatti, potevano permettersi di fare accedere i propri figli a questo tipo di istruzione, soprattutto perché, oltre a essere piuttosto limitato l'accesso ai tirocini delle diverse arti, era anche estremamente costoso.

Le corporazioni prevedevano al loro interno norme precise per un lungo e specifico tirocinio che terminava con un severo esame da sostenersi davanti a rappresentanti della corporazione stessa. Il tirocinio era impostato sulla base della modalità didattica che per secoli era stata alla base dei rapporti formativi legati all'apprendimento di un mestiere, e quindi il rapporto maestro-apprendista era avvicinabile a quello padre-figlio, con l'aggiunta però della competitività tra apprendisti, che era un fattore sconosciuto all'interno dell'educazione familiare. Siccome poi non a tutti gli apprendisti sarebbe stata offerta la possibilità di diventare maestri e per molti gli anni di studio sarebbero culminati in una condizione stabile di lavorante salariato presso la bottega del maestro, il tirocinio stesso era strutturato in modo da fomentare la competitività per il raggiungimento delle più alte vette professionali.

Resta il fatto che nonostante diventasse sempre più difficoltoso diventare maestro, e nonostante la tendenza sempre più radicata a trasmettere le conoscenze solo all'interno delle medesime famiglie, l'educazione offerta dalle corporazioni artigiane fu di gran lunga la più valida riscontrabile in tutto il Medioevo. Infatti era l'unica ad avere una sua struttura ed esami periodici che richiedevano una seria preparazione. Queste organizzazioni della borghesia diedero poi origine a scuole comunali, che si occupavano di trasmettere agli alunni un'educazione di base, ma, andando a integrare il sistema formativo collegato alle arti del trivio e del quadrivio posero anche la base per la nascita delle università.

La nascita delle università

Nel XII e nel XIII secolo con il termine “università” si indicavano associazioni che raggruppavano al loro interno più corporazioni: c'erano, per esempio, le corporazioni a cui facevano capo le arti meccaniche – quali quelle collegate alla tessitura, alla tintura alla concia delle pellicce – contrapposte a quelle liberali – a cui si riferivano giudici, notai, medici speziali... Successivamente il termine università rimase a indicare solo il corso di studio associato alle arti liberali, e aveva la caratteristica di non poter vantare una sede fissa, tanto che professori studenti erano costretti per lo più a vagare alla ricerca di ospitalità per le loro lezioni. A meno che i docenti fossero ecclesiastici, in questo caso le lezioni si tenevano ovviamente presso il convento di appartenenza dei professori.

Ma è da sottolineare come una delle caratteristiche principali delle nascenti universitas studiorum fosse la loro autonomia dal controllo ecclesiastico, anche se spesso tale autonomia era garantita a prezzo dell'accettazione nominale di un supervisore, nominato dal vescovo, che concedeva la licentia docendi (l'abilitazione all'insegnamento).

Un altro aspetto saliente delle prime università era che spesso erano promosse e gestite da studenti (per lo più borghesi non giovanissimi) e che quindi i professori erano in tutto e per tutto dei dipendenti. Come tali venivano rimproverati o multati se a parere degli studenti non compivano il loro dovere in maniera sufficientemente accurata.

La loro attività era assicurata tramite appositi contratti, che data la forte competizione tra università dovettero presto comprendere una clausola di fedeltà, per impedire che i docenti lasciassero improvvisamente la loro sede di lavoro per raggiungerne un'altra economicamente più vantaggiosa.

All'interno dell'università tutti i dipendenti, dai professori ai librai, ai bidelli erano sottoposti al magnifico rettore che era eletto tra gli studenti dell'università stesso che spesso arrivava ad assumere un'importanza e un'influenza superiore addirittura a quella del vescovo locale.

Per essere ammessi agli studi universitari non era previsto alcun esame di ammissione, ma veniva richiesta solo una conoscenza base della lingua latina oltre, naturalmente, ai soldi necessari a pagarsi gli studi.

Il pensiero pedagogico di san Tommaso

All'epoca dello sviluppo delle prime università la distinzione tra materie rispecchiava chiaramente la mentalità dell'epoca e vedeva quindi la filosofia subordinata alla teologia.

Già Alberto Magno (1206-1280) aveva posto il primo passo verso una rivalutazione delle scienze filosofiche ponendo una netta distinzione tra filosofia e teologia, e rivalutando notevolmente il potere dell'intelletto umano.

Da parte sua Tommaso d'Aquino (1225-1274) si impegnò a conciliare quelle che all'epoca apparivano come due posizioni inconciliabili: fede e ragione. La sua posizione trae origine dalle idee aristoteliche – rese compatibili con l'ideologia cristiana. Tommaso postula che “niente è nell'intelletto se prima non è stato registrato dai sensi”: di conseguenza ogni forma di apprendimento, anche quello teologico, deve passare attraverso la percezione dell'esistente; la conoscenza è possibile solo grazie alla mediazione sensoriale che garantisce l'astrazione delle immagini universali riscontrabili dietro le forme particolari dell'essere e la loro elaborazione e ordinazione nel pensiero.

L'educazione per Tommaso ha lo scopo di disciplinare le naturali tendenze comportamentali dell'uomo, confermando le buone disposizioni e eliminando progressivamente le cattive che, coltivate o anche lasciate a se stesse porterebbero all'insorgere dei vizi. Come per la didattica promossa dalle scuole monastiche è dunque la disciplina a essere vista come base per ogni forma educativa.

Ciò che non varia rispetto al passato nella posizione pedagogica propugnata da san Tommaso è l'importanza riservata alla ricerca della verità che sta dentro di noi nel cammino formativo. L'insegnante, per quanto la sua influenza e la sua importanza didattico-pedagogica siano notevolmente rivalutate da san Tommaso sulla scia della sua accresciuta fiducia nelle possibilità dell'intelletto umano – rispetto alle posizioni, per esempio, di Agostino – continua a essere un aiuto esterno il cui contributo è limitato a guidare un cammino che lo studente è chiamato a percorrere comunque in autonomia. Dio non è più visto come l'unico maestro, Tommaso considera anche l'importanza e il ruolo educativo della realtà esterna, ma nonostante l'accresciuta importanza attribuita a fattori educativi esterni (gli insegnanti, l'ambiente, le esperienze...), la ricerca della verità guidata da Dio resta sempre la strada maestra della formazione.