L'intelligenza

Con il termine intelligenza, in senso psicologico generale, si intende quel processo mentale che permette di acquisire nuove idee e capacità che consentono di elaborare concetti e i dati dell'esperienza per risolvere in modo efficace diversi tipi di problemi. Tuttavia, il concetto è molto ampio, sicché non esiste una definizione univoca e accettata universalmente; ogni spiegazione risente sempre dell'orientamento di pensiero di chi la formula.

Teorie sull'intelligenza

La psicologia ingenua vede l'intelligenza come un insieme di capacità: essenzialmente la capacità di risolvere problemi (intesa come capacità di ragionare utilizzando processi logici, stabilire connessioni, essere flessibili), capacità verbale (saper parlare in maniera chiara, possedere un buon vocabolario) unite a una buona competenza sociale (accettare gli altri, ammettere i propri errori, possedere una buona empatia).

Da questi esempi si deduce che l'intelligenza in sé è vista come un fattore generale che comprende al suo interno fattori specifici. Su questa struttura dell'intelligenza concordano anche molti studiosi.

Secondo Ch. Spearman l'intelligenza è una capacità mentale generale, cioè un fattore di base comune a tutte le attività intellettuali, che egli chiamò fattore g. L.L. Thurstone e Guilford criticarono però la posizione di Spearman sostenendo l'esistenza di molteplici fattori di abilità mentale tra loro indipendenti (7 per Thurstone, non meno di 120 per Guilford). R. Sternberg ha cercato di sintetizzare queste diverse posizioni sostenendo che il numero dei fattori cambia con il crescere dell'età: si passa infatti da un'abilità intellettuale generale a vari gruppi di abilità. Di conseguenza, le teorie che si basano su un numero inferiore di fattori rappresentano meglio l'intelligenza dei bambini, mentre quelle che si basano su molti fattori sono più adeguate per gli adolescenti e per gli adulti. Più recentemente H. Gardner ha elaborato la teoria delle intelligenze multiple, secondo la quale non esisterebbe un'unica forma generale di intelligenza, ma distinti tipi di competenze (linguistica, musicale, spaziale, logico-matematica ecc.) ciascuna competente per l'elaborazione di uno specifico ambito di informazioni.

Misurare l'intelligenza

Nonostante l'importanza che l'intelligenza svolge per lo sviluppo dell'uomo, essa è stata per lungo tempo trascurata dagli psicologi, sia perché difficile da definire e da valutare, sia perché, a partire da Wundt i processi mentali superiori venivano esclusi dalla ricerca psicologica in quanto non valutabili in maniera rigorosa attraverso una ricerca sperimentale. Le prime indagini, effettuate da Thorndike, erano rivolte soprattutto all'intelligenza degli animali e avevano lo scopo di verificare quanto questi potessero apprendere. La Gestalt, proseguendo questa linea di indagine, considerò il comportamento intelligente come una forma di adattamento all'ambiente, diverso però dal comportamento istintivo e da quello per prove ed errori. In un comportamento intelligente, infatti, lo scopo non viene raggiunto per caso, ma dopo aver compreso la globalità della situazione, cioè dopo aver collegato consapevolmente i mezzi e i fini. Agli inizi del Novecento si è incominciato a studiare l'intelligenza in termini psicometrici, cioè elaborando dei test che potessero valutare una serie di capacità: la memoria, l'attenzione, l'orientamento spaziale e temporale ecc.

I francesi A. Binet e J. Simon elaborarono un primo test di intelligenza che avrebbe dovuto predire la prestazione scolastica di un bambino attraverso una serie di prove riguardanti la conoscenza, il pensiero, il ragionamento e il giudizio. Sulla base delle prestazioni dei soggetti veniva loro attribuita un'età mentale che rappresentava il livello di sviluppo della loro intelligenza. Per età mentale si intende quella attribuita ad un bambino sulla base del numero di prove che riesce a superare correttamente confrontato con il numero di prove superato mediamente da bambini coetanei. Un bambino di età cronologica pari a 9 anni, avrà un'età mentale di 9 anni se supera le prove che i bambini di 9 anni in media superano senza errori, di 10 se supera anche quelle che risultano facili per bambini più grandi, di 7 se invece non va oltre quelle proprie dei bambini di 7 anni. L.W. Stern introdusse poi il concetto di quoziente d'intelligenza, o QI, dato dal rapporto tra l'età mentale di un bambino e la sua età cronologica moltiplicato per 100. L'utilità pratica che può avere un punteggio ottenuto in un test di intelligenza dipende soprattutto dalla sua stabilità nel tempo. Attraverso una serie di studi si è visto che il QI rimane relativamente stabile nel corso della vita (pur con qualche piccola oscillazione), iniziando a declinare con l'età solamente dopo gli 80 anni. Nello specifico le abilità che più velocemente declinano sono quelle che chiamano in causa risposte immediate e veloci, mentre più stabili restano abilità cognitive generali quali le capacità verbali/linguistiche.

I test per la misurazione dell'intelligenza sono stati usati negli Stati Uniti a partire dai primi anni del Novecento e si sono notevolmente diffusi. Attualmente sono ancora utilizzati, sia pure rivisti e rielaborati. I più famosi sono il Terman-Merril e le scale di Wechsler per l'infanzia, la fanciullezza, l'adolescenza e l'età adulta. Queste ultime sono caratterizzate (anche rispetto ai test di Binet) non solo per il fatto che considerano un campione più ampio (la Stanford-Binet si fermava ai 16 anni) ma anche perché calcolano un punteggio separato per un QI verbale e un QI di esecuzione.

Intelligenza ed educazione

L'intelligenza è stata considerata per molto tempo una capacità innata, dipendente dal patrimonio genetico ereditato dai genitori. Attualmente, grazie soprattutto agli studi di J. Piaget sullo sviluppo dell'intelligenza nel bambino, si ritiene che a innalzare o ad abbassare il rendimento intellettuale del bambino contribuiscano sia i fattori genetici, sia i fattori ambientali. A questo proposito sono state condotte molte ricerche di confronto tra gemelli, tra fratelli e tra bambini adottivi per cercare di stabilire effettivamente quanto possa influire l'ereditarietà e quanto l'ambiente. Nonostante non si sia raggiunta una risposta unanime, si è verificato che le capacità innate non si trasformano in intelligenza effettiva senza una stimolazione dall'ambiente, e che perciò un ambiente privo di stimoli può inibire la crescita.