La percezione

Già più volte abbiamo visto quanto siano profondi i legami e i punti di contatto tra filosofia, e psicologia, e anche la percezione non costituisce un'eccezione. Infatti furono i filosofi i primi ad occuparsi della sua analisi. Essa, in senso filosofico generale, viene intesa come l'atto del prendere coscienza di qualcosa, mentre per la psicologia essa sarà intesa prevalentemente come l'elaborazione di dati sensoriali.

Sfumata e controversa è la distinzione tra sensazione e percezione, tanto che alcuni autori sono giunti a considerarle come parte di un'unica – per quanto complessa – funzione psichica (la senso-percezione). Ma in genere si parla di sensazione in relazione ad eventi mentali di tipo atomistico – non ulteriormente scomponibili – suscitati da stimoli relativamente semplici (lampi luminosi, singole note musicali, ecc.). Stimoli di questo genere furono molto utilizzati dagli studiosi di psicofisica di cui abbiamo parlato nel secondo capitolo, in relazione alla nascita della psicologia.

La percezione, al contrario, viene intesa come più “complessa”, in quanto consiste nella funzione psicologica che interpreta i dati sensoriali al fine di conferire a questi una configurazione dotata di significato.

A livello di senso comune siamo convinti che ciò che noi percepiamo (definito dal termine tecnico di “percetti”) corrisponda esattamente alla realtà, tendendo quindi a far coincidere in maniera precisa il mondo fisico con il mondo percepito. In realtà questa corrispondenza non è mai così precisa. Il mondo così com'è (che potremmo definire approssimativamente come l'oggetto di studio della fisica macroscopica) costituisce le stimolazioni distali. Esse però in quanto inserite in un ambiente determinato (e quindi percepite in rapporto all'illuminazione, ad altri stimoli, al punto di vista...) hanno un loro “potenziale informativo” che mettono a disposizione del sistema visivo, questo potenziale costituisce lo stimolo prossimale. Quanto di questa informazione disponibile viene effettivamente impiegato dai recettori retinici viene definito come stimolazione prossimale. Essa viene poi codificata e rielaborata e va a costituire i percetti – ciò che noi percepiamo effettivamente. L'insieme di questi processi costituisce la cosiddetta catena psicofisica, la quale è alla base del divario, spesso non percepito, ma effettivo, tra l'ambiente geografico (gli stimoli prossimali) e l'ambiente comportamentale (i percetti). Va da sé che questa distinzione fattuale tra mondo distale e mondo percepito è in un certo senso fine a se stessa in quanto una “buona” percezione è quella che permette all'uomo di interagire in maniera efficace con l'ambiente che lo circonda, e la nostra percezione è nella maggior parte dei casi ottima.

Le teorie della percezione

La percezione si presenta come argomento preferito di indagine soprattutto per le prime scuole psicologiche, che vedono nell'osservazione e nello studio dell'immediatamente percepito il campo d'indagine privilegiato per una disciplina che si propone di studiare la mente degli individui in modo scientifico. Cosa meglio delle percezioni, che rappresentano il più evidente legame tra la mente e il mondo esterno poteva essere o apparire passibile di un'indagine e una misurazione scientifici? Infatti, per quanto affiancata da altri argomenti di indagine, compare nelle formulazioni teoriche di molte delle correnti di pensiero presentate nel secondo capitolo.

Il tedesco Hermann von Helmholtz (1821-1894) nel 1867 propone la teoria empiristica, per cui quale la percezione del mondo e degli oggetti con cui ci relazioniamo quotidianamente è resa possibile sulla base dell'esperienza e dell'apprendimento che derivano dai nostri contatti con questo mondo. E quindi sulla base dell'esperienza passata che le sensazioni elementari – di per sé stesse sparse e frammentate – che arrivano al nostro cervello dal mondo esterno vengono poi associate tra di loro e integrate sulla base di conoscenze e a formare la struttura organica con la quale ciascuno di noi interagisce. Questa organizzazione degli stimoli negli adulti si basa su meccanismi di inferenza inconscia, che uniscono il mosaico di sensazioni parcellari proveniente dall'esterno al patrimonio di conoscenze dell'individuo.

La scuola della Gestalt, invece, ritiene che il significato degli oggetti percepiti dipenda soprattutto da principi interni di organizzazione del campo percettivo di natura innata, su cui hanno scarsa incidenza le esperienze passate così come le credenze e le aspettative degli individui. Anche per i gestaltisti gli stimoli in sé possono essere intesi come frammentati e composti da più parti: queste parti però si organizzano in maniera automatica a formare un campo percettivo sulla base delle dinamiche interne delle forze che li compongono (principio dell'autodistribuzione automatica). Tali fenomeni di organizzazioni sono basati su alcuni principi identificati dagli studiosi tedeschi della Gestalt (vedi il paragrafo seguente, L'organizzazione percettiva) i quali permettono agli stimoli con cui ci rapportiamo di essere percepiti come delle totalità coerenti e ben strutturate caratterizzate da proprietà e relazioni immediatamente evidenziate.

Il movimento del New Look (fondato dagli americani J.S. Bruner, L. Postman ed E. Mc Ginnies) rimarca invece che la percezione nasce dall'incontro tra gli stimoli esterni e le attese, i valori e gli interessi del soggetto, il quale diventa così un attivo costruttore delle proprie esperienze percettive. Gli individui, posti davanti a uno stimolo complesso, compiono una categorizzazione, identificandolo e categorizzandolo sulla base di dati indizi, strutturati sulla base delle relazioni e delle proprietà del percepito arricchite dall'universo motivazionale e “personale” del soggetto.

Le cosiddette teorie della percezione diretta (o ecologiche), ispirate all'opera di J.J. Gibson, sostengono che le informazioni sono già presenti nella stimolazione percepita dal soggetto e da quest'ultimo possono essere immediatamente colte senza che debbano intervenire processi di elaborazione. Il soggetto non si trova dunque né a dover rielaborare in maniera costruttiva il percepito né a integrarlo in alcun modo: deve solamente cogliere le informazioni percettive disponibili nell'ambiente. A questa ricchezza dell'informazione sensoriale, sia dal punto di vista spaziale che temporale che di ordine intrinseco, Gibson si riferisce utilizzando il termine affordances (disponibilità, appunto). Un'altra di queste teorie è quella del ciclo percettivo proposta da U. Neisser, la quale prevede l'esistenza nella mente dell'individuo di schemi che dirigono l'attenzione e l'esplorazione dell'ambiente producendo delle anticipazioni e quindi preparano il soggetto a ricevere determinati tipi di informazione e a cogliere quelle più pertinenti per i suoi scopi.

L'organizzazione percettiva

A prescindere dalle posizioni teoriche dei singoli studiosi, tutti concordano nel ritenere che alla base del mondo così come noi lo percepiamo ci sia una qualche organizzazione effettuata o recepita dalla mente che le permette di organizzare e interagire con il flusso di stimoli che percepisce in maniera unitaria e coerente.

Questa organizzazione è guidata dall'attenzione che permette di selezionare specifici stimoli e dirigere su di essi l'attività mentale: tale processo d'attenzione può dipendere da caratteristiche dello stimolo o del contesto e da predisposizioni o attese del soggetto derivanti da bisogni interni, interessi, motivazioni, risonanze emotive, esperienze passate. Un contesto in cui è facile sperimentare in prima persona questa funzione selettiva dell'attenzione si presenta in contesti particolarmente ricchi di stimoli, come ad esempio una festa. Tendenzialmente noi ci concentriamo sulla persona o le persone con cui stiamo dialogando e non prestiamo attenzione (escludiamo, filtriamo) gli altri stralci di conversazione che comunque percepiamo. Ma se da qualche parte ci arrivano stralci di una conversazione che troviamo più interessante (per esempio se sentiamo qualcuno che parla di noi) probabilmente sposteremo al nostra attenzione dall'ascolto della prima conversazione alla seconda, che senz'altro ricorderemo anche molto meglio (effetto cocktail party). Questa possibilità di selezionare gli stimoli e di passare da uno all'altro presume che la nostra mente in qualche modo percepisca tutti gli stimoli, ma poi avendo a disposizione solo una limitata quantità di canali per l'elaborazione ne elabori in maniera completa solo uno alla volta, rimanendo però sensibile alle caratteristiche salienti degli altri stimoli. Per esempio, se siamo intenti in una conversazione importante e teniamo la radio accesa in sottofondo, pur prestando maggiore attenzione alla conversazione siamo in grado di cogliere con immediatezza un cambiamento di speaker o la messa in onda della nostra canzone preferita. A questo proposito è stata proposta la teoria del filtro per cui l'attenzione nei casi in cui il soggetto riceve più messaggi concorrenti (come avviene, per esempio, nell'ascolto dicotico) seleziona un messaggio e a questo solo permette di passare alle successive fasi di elaborazione dell'informazione.

Un altro effetto legato alla percezione può però suggerire una diversa interpretazione di come la nostra mente elabori le informazioni sensoriali. L'effetto Stroop, consiste in un ritardo nei tempi di risposta (o, più in generale, peggioramento della prestazione) che si verifica quando al soggetto è chiesto di dire il nome del colore con cui è scritta una parola designante il nome di un altro colore (per esempio la parola “rosso” scritta in verde). Norman interpretò tale fenomeno postulando che la selezione attentiva abbia luogo non tanto selezionando gli stimoli in ingresso, quanto piuttosto elaborando in maniera selettiva le informazioni già presenti nella nostra memoria (e pertanto familiari) che il nuovo stimolo viene ad attivare. Nel caso sopra proposto dell'effetto stroop questi “automatismi” sono coinvolti nel processo imprescindibile di riconoscimento e processamento dei colori – stimoli tanto familiari da risultare imprescindibili a livello di processamento sensoriale.

Altre modalità di organizzazione sensoriale sono i principi di unificazione percettiva individuati e proposti dalla scuola della Gestalt , che essendo universali e innati permettono di strutturare in maniera costante, coerente e logica configurazioni sensoriali complesse. I gestaltisti ipotizzano che tre siano le macrocategorie di unificazione percettiva che guidano la nostra visione del mondo. In primo luogo abbiamo i principi di raggruppamento che sono alla base della tendenza a raggruppare stimoli isolati in insiemi dotati di significato sulla base dei principi di vicinanza (tendenza a raggruppare – a parità di altre condizioni – gli elementi tra loro vicini), somiglianza (tendenza a unificare, sempre a parità delle condizioni di contorno, elementi che ci appaiono simili), chiusura (percepiamo come unità elementi che suggeriscono una tendenza alla chiusura), continuità (tendenza a privilegiare l'organizzazione lineare che prevede percettivamente minori interruzioni) e pregnanza (si preferiscono le configurazioni che presentano il maggior grado di semplicità, regolarità, simmetria).

Importante è poi l'articolazione figura-sfondo, tendenza che porta a mettere in relazione ogni stimolo che percepiamo come “figura” a uno sfondo corrispondente: questo ci permette di mettere automaticamente in risalto la figura (il focus della nostra attenzione) che è quella che si presenta con una forma precisa (a differenza dello sfondo), e ha quindi un contorno che la definisce, mettendo in evidenza il suo “essere oggetto”, in contrapposizione all'indeterminatezza dello sfondo. La forza di questa organizzazione può essere notata osservando le cosiddette “figure reversibili” – immagini costruite in modo tale da risultare instabili con la conseguenza di far percepire al soggetto che le osserva una periodica inversione tra figura e sfondo.

Un altro fenomeno psicologico che facilita il lavoro di organizzazione percettiva della nostra mente è costituito dalla costanza percettiva in base alla quale uno stimolo ci appare identico pur variando le condizioni di stimolazione dei recettori sensoriali. Per esempio, la percezione che abbiamo di certe caratteristiche di un oggetto (forma, dimensioni, colore ecc.) non risente del fatto che l'oggetto sia visto da diversa prospettiva, da diversa distanza, con diversa illuminazione e così via. Per esempio, un libro con la copertina bianca ci apparirà bianco sotto un'illuminazione naturale, rosa sotto una forte luce rossa. Ma noi posti davanti alla domanda “Di che colore è la copertina del libro?” continueremmo a rispondere “Bianca”, pur percependo la discrepanza tra la nostra consapevolezza e la percezione in sé.

La percezione della profondità

Il mondo che percepiamo e con cui ci rapportiamo è chiaramente un mondo in tre dimensioni. Il nostro occhio, invece, lavora sulle informazioni retiniche che hanno carattere bidimensionale. La cosa apparentemente sembra presentare un forte contrasto. In realtà però il nostro cervello è in grado di superare brillantemente questa disomogeneità ricorrendo all'aiuto di informazioni/indizi sensoriali aggiuntive che l'ambiente fornisce. Questi indizi di profondità sono di tipo monoculare (si basano cioè su informazioni provenienti da un solo occhio) e binoculare (basati sulle informazioni raccolte da entrambi gli occhi e poi confrontate tra di loro). Gli indizi monoculari sono essenzialmente l'accomodazione (cioè la messa a fuoco di un oggetto da parte del cristallino – messa a fuoco che varia a seconda della distanza fisica dell'oggetto dal nostro occhio), e i cosiddetti indizi pittorici (così chiamati perché sono basi teoriche imprescindibili per i pittori) tra cui ricordiamo la sovrapposizione (tra due stimoli che si ostruiscono parzialmente, lo stimolo ostentato sarà necessariamente più vicino di quello ostruito), l'altezza sul piano dell'orizzonte (gli stimoli più lontani appaiono “più in alto”), il chiaroscuro (l'uso delle ombre per indicare profondità: viene utilizzato anche in geometria per disegnare solidi tridimensionali), la prospettiva lineare (valga il noto esempio delle rotaie del treno che tendono ad incontrarsi in prossimità dell'orizzonte) e il gradiente tissurale (tanto più un oggetto è vicino all'osservatore tanto meno quest'ultimo ne percepirà con chiarezza tutti i dettagli).

Il nostro sistema nervoso si avvale anche degli indizi binoculari di profondità che ricava dal confronto tra ciò che ogni singolo occhio percepisce. Questo confronto basato sulla disparità retinica è utile per oggetti posti a una distanza media dall'osservatore, tenendo sempre conto che quanto più un oggetto è vicino a chi lo osserva tanto maggiore sarà la disparità retinica, in quanto il cambiamento di posizione relativa dello stimolo osservato per ciascun occhio sarà ovviamente maggiore. Per oggetti che sono invece molto vicini al soggetto (7/8 metri circa) l'indizio della percezione cui si ricorre è la convergenza che va ad interpretare le informazioni provenienti dai muscoli retinici, il cui sforzo cresce in maniera proporzionale all'avvicinarsi dell'oggetto che si sta osservando.

La percezione del movimento

Il mondo con cui dobbiamo interagire, però, non è composto solamente da stimoli statici, per quanto tridimensionali. È prevalentemente con stimoli in movimento che noi ci relazioniamo; pertanto la percezione del movimento risulta tra le capacità più importanti per la sopravvivenza adattiva delle specie viventi. Come prima cosa è interessante notare come le immagini alla base della nostra percezione sono essenzialmente immagini non-statiche (i nostri occhi sono in continuo movimento per raccogliere le informazioni percettive) a prescindere che l'effettivamente percepito riguardi poi un'immagine statica o in movimento. Questa capacità di saper riconoscere gli stimoli in movimento dipende dalla differenza tra distanza assoluta e distanza relativa sulla retina: degli stimoli vengono percepiti come stabili quando la loro distanza relativa resta immutata (ad esempio leggendo un testo la posizione assoluta delle parole cambia perché si muovono gli occhi, ma la loro posizione relativa – cioè la distanza tra una parola e l'altra e la loro disposizione all'interno della pagina – resta costante), mentre quando il movimento degli occhi e il movimento assoluto degli oggetti sulla retina differiscono tra loro, si percepisce il movimento.

A volte, però, il nostro sistema di elaborazione delle informazioni può essere tratto in inganno, percependo come in movimento un oggetto o uno stimolo che è in realtà immobile. Un buon esempio è fornito dall'effetto autocinetico, un fenomeno percettivo di tipo illusivo che si verifica quando, fissando nel buio un punto luminoso fisso, si ha, dopo qualche secondo, l'impressione che tale punto si muova. Lo stesso effetto è riscontrabile nell'illusione del treno (quando trovandosi su un treno e fissando un treno posto accanto al nostro si trova difficile distinguere in maniera immediata quale dei due inizia a spostarsi), data dalla situazione particolarmente povera di indizi percettivi che rende difficile il confronto tra i movimenti relativi.

Ma generalmente non ci basiamo solo sul confronto tra movimenti percepiti sulla retina, ma possiamo avvalerci (come nel caso della percezione della profondità) di altri indicazioni aggiuntive, quali, ad esempio, il rapporto dello stimolo con lo sfondo, basato sull'illuminazione e sulla velocità del movimento percepito. È anche molto importante il movimento relativo di un oggetto riportato a un oggetto statico di confronto cui si viene sovrapponendo (l'indizio del movimento relativo è noto anche come parallasse di movimento, ed è rapportabile all'indizio monoculare di profondità della sovrapposizione).

Wertheimer, fondatore della teoria gestaltica, nel 1912 riuscì a spiegare sperimentalmente il fenomeno del movimento apparente o stroboscopico. Si tratta di un effetto percettivo (chiamato anche “fenomeno phi”) che si ha quando una rapida attivazione intermittente e alternata di due sorgenti luminose adiacenti produce nel soggetto l'illusione di essere di fronte a un unico oggetto luminoso in movimento. Il fenomeno nel quale, in sostanza, una successione di stimoli statici distinti genera l'impressione di un movimento continuo, sta alla base della tecnica cinematografica, e dipende essenzialmente dal ritmo di illuminazione delle due sorgenti luminose (che deve essere abbastanza veloce).