Lessico

sm. [sec. XIX; da nomade].

1) Modo di vivere tipico di quei gruppi umani che si spostano di continuo entro aree molto vaste senza mai stabilire una dimora fissa.

2) In psicopatologia, tendenza abnorme a cambiare continuamente residenza.

Etnologia

Il nomadismo fu considerato da molti studiosi (e per alcuni lo è tuttora) uno dei modi di vita più arcaici conseguente la scarsità dei mezzi di produzione e il sistema economico dipendente dalla natura. Gli studi e le ricerche attuali hanno in parte modificato tale ipotesi: è certo che il “nomadismo assoluto”, salvo eccezioni, in pratica non è mai esistito per cui è più corretto parlare di “nomadismo regionale” o di seminomadismo, intendendo con ciò il fatto che un gruppo umano si sposta entro una determinata regione tornando periodicamente nei luoghi precedentemente abitati. Questo modo di vivere, verificatosi tanto nel passato quanto in tempi storici, è praticato tuttora da vari gruppi etnici sia in Africa sia nell'America Meridionale; quindi non può essere considerato una tappa “arcaica” nell'evoluzione della società umana. A riprova di ciò sta innanzitutto il fatto che i mezzi di produzione delle genti preistoriche sono sempre stati perfettamente adatti al modo di vita dell'epoca e al sistema economico, prevalentemente basato sulla caccia e la raccolta; in secondo luogo il debole incremento demografico (dovuto a una elevata mortalità neonatale e a una relativa breve durata della vita), unito al fatto di disporre di ampi territori vergini da sfruttare, non richiedeva un nomadismo assoluto; infine, i siti preistorici studiati rivelano spesso che furono occupati dalle stesse genti per lungo tempo e ripetutamente. La diffusione dell'uomo moderno in tutte le terre emerse fu dovuta, piuttosto che al suo nomadismo, sia alle mutazioni climatico-ambientali conseguenti le glaciazioni sia alle ripetute diaspore effettuate per mantenere inalterato il rapporto con l'ambiente; in effetti, contrariamente a quanto ritenuto in passato, l'alimentazione e le condizioni di vita delle genti preistoriche erano di buon livello, così come quelle delle attuali genti seminomadi; per conservare questa condizione, avendo spazi liberi intorno, andava da sé che i gruppi si frammentassero; tale usanza era praticata in tempi storici nelle Americhe, in Africa, in Oceania. La struttura sociale di queste genti era, con ogni probabilità, basata originariamente sulla grande famiglia matrilineare: anche quando la pastorizia sostituì la caccia e molte tribù adottarono strutture patrilineari, rimasero tracce di questa più antica organizzazione; non dovevano esistere proprietà privata, gerarchie, ceti sociali, e la suddivisione del lavoro tra uomo e donna rispondeva a precise necessità del gruppo, infatti i soli beni materiali erano quelli posseduti dai singoli (oggetti d'uso corrente) e il territorio era un bene comune a tutti. Tutto questo appare non solo dall'organizzazione degli attuali gruppi residuali seminomadi ma anche dalle strutture della parentela, dal ricco patrimonio culturale, dall'elaborazione dei miti e dei riti, dall'analisi dei siti preistorici e protostorici e persino dalle implicite testimonianze contenute nei testi classici di ogni parte del mondo. Le variazioni del “nomadismo relativo” delle genti abitanti in regioni in fase di trasformazione climatico-ambientale portarono sia a migrazioni sia a forme di “nomadismo chiuso” (ossia entro aree limitate); in seguito alla scoperta delle coltivazioni basate sul diboscamento e dell'allevamento allo stato brado, il depauperamento continuo del suolo spinse da una parte i contadini a trasformare le proprie tecniche (questi divennero agricoltori sedentari che si stanziarono nelle valli fluviali), dall'altra i pastori a cercare sempre nuovi pascoli, il che li spinse a migrazioni anche imponenti, con tutte le conseguenze socio-economiche connesse. Solo laddove le condizioni ambientali lo permisero, e l'entità dei gruppi rispetto ai territori era ben equilibrata, si poterono mantenere condizioni di nomadismo relativo, così come avvenuto fino in tempi storici nell'America Settentrionale, in Australia e Nuova Guinea, in America Meridionale. Oggi solo qualche piccolo gruppo di Amerindi conduce ancora vita seminomade in piccole aree di rifugio, mentre è noto un solo popolo che pratica il nomadismo quale scelta di vita: questi sono i Rom, noti anche come Zingari. Nel secolo XXI gli stili di vita dei gruppi nomadi sono minacciati dall'incremento demografico e dall'uso intensivo del territorio. L'esiguità numerica e l'esclusione dai centri di potere li rende incapaci di difendere i propri diritti consuetudinari sulle terre e di opporsi ai tentativi di assimilazione delle culture dominanti. In Canada e in Australia i governi hanno varato importanti provvedimenti a favore di popolazioni autoctone nomadi.

Sociologia: nomadismo culturale

Il concetto di nomadismo culturale rappresenta una brillante metafora per indicare il progressivo affermarsi, in molti ambiti della cultura contemporanea, della capacità di scoperta e della creatività che si identificherebbero nella pratica del vagabondaggio di molti intellettuali fra discipline, approcci e suggestioni delle più diverse provenienze. In questa accezione, il nomadismo culturale è considerato un'espressione tipica della cosiddetta postmodernità. Anticipatore della teoria del nomadismo culturale è sicuramente un grande teorico critico della sociologia contemporanea, come W. Benjamin, che individua una radicale cesura fra la sensibilità estetica delle civiltà precedenti e quella che si sviluppa negli ultimi decenni in relazione alla riproducibilità tecnica del capolavoro artistico. Benjamin ritiene, infatti, che la produzione culturale trasformata in bene di consumo di massa, replicabile all'infinito grazie alle tecnologie del suono e dell'immagine, perda quell'aura che ne costituiva il valore essenziale, trasformando il prodotto culturale in merce e sottoponendolo alla logica dello scambio economico. Smarrita l'originalità e l'unicità della creazione artistica e intellettuale, si sarebbe imposta – grazie all'impatto sociale della comunicazione mediatica – una cultura postmodernistica che rifiuta qualunque separazione dalla sfera della vita sociale, del consumo e della quotidianità. La creazione artistica è privata del suo piedistallo e della sua irripetibile atmosfera, trionfano le tendenze minimalistiche, il gusto della contaminazione di generi e di stili, talvolta il piacere della provocazone (sino alla produzione trash caratteristica della letteratura, del cinema e della televisione a scala di massa). Il ricorso alle tecniche del collage, del pastiche, dell'arte povera è caratteristico del nomadismo culturale in quanto esalta l'ibridazione e la contaminazione di stili, tecniche e persino materiali. Ma anche l'adozione, simmetrica e speculare, dei più strepitosi effetti speciali nella produzione cinematografica e televisiva commerciale costituisce un portato indiretto della cultura del nomadismo. Le tecnologie consentono di dar vita a mondi artificiali, di vagabondare senza limiti nel passato e nel futuro, di oltrepassare le stesse barriere del senso comune e della percezione spazio-temporale degli spettatori. Persino rispetto alla fiction tradizionale si dissolvono gli ultimi residui dell'unità del racconto e dell'opera d'arte. Spazio e tempo divengono pure variabili dell'azione, demolendo i venerabili precetti dell'estetica aristotelica, su cui si era fondata l'idea classica di opera d'arte in tutte le sue varianti. A tale proposito, G. Deleuze definisce con il neologismo “deterritorializzazione” il diventare-nomade dei gusti e delle stesse idee. Il concetto di “prestito culturale” riassume i percorsi nomadici, le contaminazioni e le ibridazioni. Il nomadismo culturale abolisce la possibilità stessa della contemplazione; come tutte le pratiche postmoderne esige, invece, la distrazione etimologicamente intesa. Il pubblico è sottoposto a impatti immediati che non prevedono la valutazione delle proprietà formali. Tali impatti saranno tanto più efficaci quanto più tecnologicamente sofisticate e, insieme, più “contaminate” saranno le strategie di comunicazione messe in atto. È del resto significativo che anche le tecnologie comunicative domestiche – straordinariamente potenziate dall'irruzione dell'informatica e poi della telematica nella vita quotidiana – si orientino sempre più a valorizzare le risorse offerte dall'impiego simultaneo di strumenti e tecnologie in origine nettamente differenziati. La multimedialità è, in questo senso, una manifestazione perfettamente coerente delle tendenze di fondo che abbiamo individuato nel fenomeno più estensivo del nomadismo culturale. La facilità e la frequenza del ricorso a linguaggi comunicativi, stili espressivi e tecnologie di varia matrice presentano importanti conseguenze sociologiche e antropologiche. Il nomadismo culturale, infatti, estirpa alla radice la distinzione canonica fra alta cultura, appannaggio di élite istruite e specificamente educate a fruizioni artistiche specializzate (la cultura del concerto classico, per fare un esempio), e manifestazioni espressive popolari di massa. In un certo senso, il nomadismo culturale, come prodotto tipico del postmodernismo, è un fenomeno “democratico” o comunque ribelle a qualunque differenziazione verticale. Altrettanto certamente, però, il fenomeno implica l'egemonia della gestione commerciale del prodotto artistico e intellettuale. Un raffinato brano operistico può essere adattato a colonna sonora di uno spot pubblicitario, arrangiato in chiave di pop music per esaltare le capacità mimetiche di un cantante popolare, rielaborato ironicamente a uso della produzione corale di una tifoseria calcistica, essere oggetto di un quiz televisivo a premi. Il nomadismo è al tempo stesso produzione, rielaborazione e consumo; il suo imperativo è la resa della merce nella sua fruibilità immediata. Rovesciando i termini, cultura del nomadismo significa anche una propensione, ormai affermata nelle società affluenti di massa, a sperimentare occasioni di contatto fra civiltà, stili di vita, modelli di comportamento, ambienti e contesti fisici e antropici diversi e lontani da quelli familiari. Il turismo rappresenta la manifestazione più nitida di questa inclinazione, che – un tempo prerogativa di ristretti ambienti socioculturali (il Grand Tour era considerato il rito d'iniziazione alla cultura europea dei giovani aristocratici del Settecento) – si è affermata nel secondo dopoguerra come pratica sociale diffusa in tutti i Paesi sviluppati.

Bibliografia

V. L. Grottanelli, Ethnologica, Milano, 1965; P. Bertaux, Africa, Milano, 1968; S. A. Tokarev, Popoli e costumi, Bari, 1969; S. L. Washburn, Vita sociale dell'uomo preistorico, Milano, 1971; G. Battaglia, La pentola di rame. Frammenti di vita del mondo dei nomadi, Roma, 1992.

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