Descrizione generale

sm. [sec. XIX; da Buddha]. Religione fondata in India (Nepal) da Siddhartha Gautama, detto Buddha, nel sec. VI a. C. Essa si stacca dalla concezione politeistica risalente ai Veda per rispondere alle esigenze di una “salvezza umana” (senza mediazione divina). Tale “salvezza” è essenzialmente un riscatto dalla condizione umana, sentita come penosa e insostenibile. Il buddhismo conseguì un immediato successo, perché i problemi in esso proposti erano già presenti nella tradizione religiosa indiana, lasciando adito a soluzioni ambigue e contraddittorie rispetto all'ortodossia vedica. Il rapporto tra uomini e dei, nell'originaria concezione politeistica costituiva un limite alla condizione umana e, al tempo stesso, una salvezza, mediante l'aiuto divino ottenuto dall'azione cultuale. Tale rapporto si andò col tempo modificando, nel senso che l'azione cultuale da semplice strumento di mediazione divenne l'interesse precipuo della religione indiana, perché i sacerdoti, da mediatori tra uomini e dei, esaltarono l'atto di mediazione, il rito, come atto assoluto, generatore di quella forza (brahman) di cui gli stessi dei avevano bisogno per esistere. In questa si videro molti eremiti, asceti, santoni cercare, al di fuori di ogni sistema organizzato dalla casta sacerdotale, la propria via alla salvezza, attirando talora dei discepoli, che da soli si sentivano impari al ponderoso compito. Uno di questi gruppi, operante nell'India settentrionale, ebbe una fortuna particolare dando vita al buddhismo , religione che, assieme al cristianesimo e all'islamismo, costituisce ancor oggi la triade delle religioni universalistiche.

Le quattro "verità"

La fortuna iniziale del buddhismo va in gran parte attribuita alla semplicità, alla chiarezza e alla coerenza delle sue risposte ai problemi impostati dalla tradizione religiosa indiana. Quattro sono le “verità” fondamentali: la verità dell'esistenza del dolore; la verità dell'origine del dolore; la verità della fine del dolore; la verità dei mezzi per porre fine al dolore. Tutto è dolore nel mondo: nascere, vivere e morire; ma quale la sua origine? La risposta è: ha origine dal desiderio; si vive perché si desidera vivere; ma la vita è dolore, e perciò il desiderio, fonte di vita, è anche fonte di dolore. Né, per sottrarsi al desiderio, basta morire; in tal caso si desidererebbe la morte, e si resterebbe perciò prigionieri del desiderio (d'altra parte anche morire è un dolore). Bisogna, invece, semplicemente far cessare ogni desiderio (sia il desiderio di esistere sia quello di non esistere). A questo punto, il buddhismo abbandona la speculazione filosofica e si fa decisamente religione, sia perché s'innesta nelle pratiche rituali (d'ordine ascetico) della tradizione religiosa indiana, sia perché utilizza certe sue concezioni metafisiche (quali il karman e la reincarnazione). La quarta “verità”, infatti, quella che concerne i mezzi di liberazione dal desiderio, non può che fornire una pratica di vita sommamente ritualizzata, con precise regole di comportamento dello stesso genere di quelle che di solito ci fanno individuare una religione tra gli altri fatti culturali. Le regole buddhiste sono essenzialmente raccolte in otto serie parallele e distinte (l'“ottuplice sentiero”). Esse tendono a sottrarre il praticante dalla vita mondana o profana; teoricamente dovrebbero portarlo all'inazione assoluta, perché ogni azione produce karman, ossia, secondo la tradizione religiosa indiana, un qualcosa che costringe a prolungare l'esistenza. Neanche la morte annulla il karman accumulato in vita, e perciò, cessata la vita in una forma, si torna a vivere in un'altra forma e ad accumulare altro karman. Per sottrarsi alla ferrea legge del karman che tiene prigioniero l'uomo nel ciclo delle rinascite, il buddhismo suggerisce dunque certe sue regole di comportamento (teoricamente di inazione). Esaurito il karman accumulato in precedenti vite, il buddhista esce finalmente dall'esistenza ed entra nel nirvana, la condizione opposta a quella dell'esistenza: può essere inteso come non-esistenza pura e semplice o come una specie di paradiso. L'una e l'altra interpretazione, con diverse gradazioni d'accento, sono state proposte sia dalle scuole buddhiste sia dagli studiosi occidentali. In realtà si tratta di un concetto essenzialmente religioso, e dunque irriducibile agli schemi di una qualsiasi filosofia. Diremo perciò: il nirvana sta all'esistenza come le regole di comportamento religioso predicate dal buddhismo stanno alla vita profana.

Sviluppo del buddhismo

In forza dei suoi stessi principi il buddhismo poteva realizzarsi appieno soltanto in comunità monastiche, disciplinate da una rigida regola. Ma in realtà si ebbe subito anche un laicato buddhista, dovuto al fatto che il laico in India manteneva da sempre i sacerdoti e la tradizione continuò anche verso i monaci buddhisti. Anzi, tali contributi vennero canonizzati e il laico che aderiva al buddhismo doveva farlo non più con elargizioni saltuarie ma con una formula rituale nella quale dichiarava di “prendere rifugio” nel Buddha, nel Dharma (la dottrina buddhista) e nel Samghā (la comunità dei monaci). Dopo di che anche il laico era legato a certe norme di vita riflettenti l'etica buddhista, e le sue speranze giungevano alla convinzione di una rinascita nella forma di un monaco buddhista, e cioè nella forma più adatta per conseguire quel perfezionamento che conduceva al nirvana. Al monaco preoccupato della sola salvezza personale si sostituì il maestro di dottrina misericordioso che, sull'esempio del Buddha, aiutava gli altri a raggiungere la salvezza. Questo nuovo buddhismo si chiamò Mahāyāna, ossia Grande Veicolo, in spregio al più antico buddhismo che era detto Hināyāna (Piccolo Veicolo). Il buddhismo del Grande Veicolo aprì nuove prospettive: per la parte teorica vi fu una fioritura di scuole “filosofiche” in cui si cercava di definire la “buddhità” (lo stato di perfezione in senso buddhista).

La pratica buddhista

Quanto alla pratica, l'idea del Buddha che si volge misericordioso alla salvezza altrui portò alla concezione di entità metafisiche Buddha e Bodhisattva, da invocare non solo per la salvezza assoluta, ma anche nei bisogni quotidiani. Di nuovo compare il rito anche in questa religione che aveva preso le mosse da un anti-ritualismo programmatico in quanto rottura con il culto divino e con quella casta sacerdotale che a tale culto era addetta. Sviluppo ulteriore sono le forme del buddhismo tantrico (o Vajrayana), che esaltano in senso ora magico e ora salvifico appunto l'azione rituale, a cui viene ormai assimilato l'esercizio spirituale o psicofisico (yoga) già noto all'ascesi più antica. § I libri canonici del buddhismo sono tre raccolte, o “canestri” (appunto Tripitaka, Tre Canestri), una concernente la disciplina monastica (Vinaya), una che espone gli insegnamenti del Maestro (Sutra) e la terza dedicata alla dottrina (Abhidharma).

Diffusione del buddhismo

Il buddhismo comincia a conquistare un posto rilevante in India con l'imperatore Aśoka (sec. III a. C.). Diviene presto un fatto culturale di tale importanza da varcare i confini dell'India, diffondendosi a Ceylon, nell'Indocina, in Cina, in Corea, in Giappone, nel Tibet. Il buddhismo cinese, come anche il buddhismo giapponese, dà vita a riplasmazioni teoriche e a sette originali. Tra queste ricordiamo: la “Terra Pura” che si svolge dalla venerazione del dhyāni-Buddha Amitabha (in Giappone amidaismo, da Amida, il nome giapponese di Amitābha); la scuola Ch'an (il futuro Zen giapponese); la setta T'ien (che sarà per i Giapponesi il tendai) che cerca di conciliare i vari indirizzi buddhisti. Nel Tibet il buddhismo penetra nel sec. VII d. C. come tantrismo per alcuni caratteri delle sue concezioni “magiche”, affini alle forme della tradizione religiosa indigena. Nella lotta tra i vari monasteri, prevalse quello di Lhasa. Il buddhismo tibetano si chiamò lamaismo. Alla fine del secondo millennio, notevole impulso alla diffusione del buddhismo nel mondo occidentale è stato dato sia dal sorgere dei cosiddetti nuovi movimenti religiosi, sia dall'attività del XIV Dalai-lama a favore della pace e del dialogo interreligioso. Gli aderenti in Italia sono stati ca. 30.000, ma almeno altri 100.000 hanno frequentato scuole di yoga, conferenze e altre iniziative ispirate dalle dottrine buddhiste. A Milano si trova il più importante Centro di Studi Tibetani d'Europa, il Rabten Ghe-Pel-Ling, diretto da Lama Thamthog Rinpoce, che si adopera particolarmente per il dialogo tra buddhismo e cristianesimo, e dove nel 1999 è stato organizzato il seminario di studi tenuto dal Dalai-lama regnante, Tenzin Gyatso. Il primo tempio di buddhismo zen italiano sorge, invece, sulle colline di Barzone, tra Fidenza e le Terme di Salsomaggiore.

Arte

I caratteri fondamentali dell'arte buddhistica si definiscono soltanto nel corso del sec. II d. C. con l'elaborazione dei primi modelli iconografici dopo la lunga fase di arte aniconica (sec. III-I a. C.). Questo periodo di evocazione del Buddha attraverso simboli va dalle colonne con i capitelli zooformi di derivazione achemenide recanti gli editti di Aśoka (sec. III a. C.) alla raffigurazione umana dell'immagine del Buddha. Probabilmente per nessun'altra dottrina religiosa l'apporto dell'arte fu tanto vitale e così determinante, per la divulgazione e le fortune presso popoli diversi. Per il buddhismo, il potere esercitato dalla suggestione delle immagini sacre s'integrò con quello della parola al punto di dare corso a quella civiltà dell'immagine che sarebbe riuscita a instaurare un linguaggio figurativo comune di portata ecumenica. Le prime manifestazioni artistiche del buddhismo appartengono all'architettura dello stūpa, adottato dal buddhismo per soddisfare le più urgenti esigenze di pratica religiosa, quale la raccolta delle reliquie. Nessuna documentazione di stūpa anteriori al regno di Aśoka si è conservata: forse a questo sovrano risale il primitivo nucleo in mattoni dello stūpa n. 2 di Sanchi (rivestito poi in pietra nel corso del sec. II d. C.). Secondo il modello indiano sono di quest'epoca gli stūpa di Mihintale e di Thūparāma a Ceylon dove il buddhismo approdò fin dal sec. III a. C. Dai vari modelli dell'India (antichi esempi, oltre al complesso di Sanchi, sono quelli di Bharhut e Amaravati) si svilupparono le differenti forme di stūpa edificati nei Paesi convertiti al buddhismo (Giava, Siam, Birmania, ecc); da esempi di stūpa e di torri cinesi (tai e lou) deriverà, prima in Cina e poi in Corea e in Giappone, la pagoda. In India, attorno al tumulo-reliquiario, si sviluppa l'architettura rupestre e successivamente quella costruita della sala a forma basilicale, con tetto a botte, destinata alle riunioni dei monaci (caitya). Tra i vihara rupestri più antichi sono quelli di Bhaja, Karla, Bedsa, Ajanta, Nasik. I precedenti che segnano l'inizio della tradizione delle sale caitya riprendono elementi dell'architettura civile dell'India settentrionale e sono costituiti dalle due grotte di Lomas-Rishi e di Sudama nei monti Barabar. La navata centrale della sala caitya è costruita in asse con lo stūpa che figura al centro dell'abside. La tradizione indiana dei santuari e complessi monastici rupestri si diffonde con il buddhismo nelle oasi dell'Asia centrale, dove si distinguono i complessi di Bamiyan, Kuga, Kizil, Qumtura ecc., mentre in Cina si svilupperanno i complessi-grotta di Yung-Kang, Lung-Men, Mai-Chi-Shan, Dazu, ecc. Con il fiorire in India della ricca letteratura mahayana e la diffusione del sembiante umano del Buddha – apparso quasi contemporaneamente nella scultura di Mathura e del Gandhara (sec. II d. C.) e successivamente di Amaravati per la convergenza di estetiche diverse (greco-romano-iranica) e sulle quali avevano agito altre interferenze – l'arte buddhistica trovò mezzi e ispirazione per sviluppare nel corso dei secoli e nel mutare degli stili quelle invenzioni formali e compositive che trovano le più alte espressioni nell'illustrazione degli episodi raffiguranti la vita del Buddha storico o le sue vite anteriori, in pittura e in scultura. L'arte buddhista nell'India si esaurisce verso la fine del sec. XII arroccata negli ultimi rifugi del Bihar e del Bengala, dove con la fede resistono in nuove fioriture gli stili gupta e postgupta. Fuori dell'India l'arte buddhistica si diffuse e improntò dei suoi insopprimibili caratteri originari l'arte dell'Indocina, dell'Indonesia, del Tibet, della Cina fino al Giappone, mutando talvolta il corso delle tradizioni locali oppure innestandosi nelle medesime con sviluppi imprevisti, siglandone in un modo o nell'altro le varie epoche e i diversi stili. In Cina si svilupperà sia per quanto riguarda la scultura (complessi rupestri), sia in molte altre manifestazioni artistiche (pittura, lacca, stoffe, bronzi, giade, ecc.). In Giappone, l'arte buddhistica era approdata con maestranze coreane e aveva addirittura partecipato ai primi caratteri dell'arte dell'arcipelago, dettando forme e composizioni per la pittura, la scultura e l'architettura dei primi periodi storici

Asuka e Nara (sec. VI-VIII); in Birmania aveva trovato il terreno fecondo per sviluppare l'inesauribile soluzione tipologica dell'architettura dello stūpa; in Cambogia aveva costituito la linfa vitale per l'arte khmer (sec. IX-XII); a Giava aveva innalzato il più gigantesco stūpa nel monumento del Barabudur (sec. VIII); nel Tibet era giunta attraverso il Nepal portandosi dietro gli stili dell'arte Pala-Sena, fioriti nel Bihar e nel Bengala dal sec. VIII al XIII. Lungo la pista della “via della seta”, dove aveva tratto tanti elementi per costituirsi, era ritornata con gli inconfondibili tratti sinizzati dall'arte cinese dei T'ang.

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