inculturazióne

sf. [da in-2+cultura]. Processo per il quale ogni individuo nato in una determinata società apprende a integrarsi con i canoni socio-culturali propri del gruppo o del popolo cui appartiene. Il termine viene usato soprattutto in antropologia culturale, poiché per le società letterate sono preferiti termini quali educazione, istruzione e simili. L'antropologo britannico J. Goody sottolinea come nei sistemi culturali dotati di scrittura mutano le modalità di apprendimento e l'organizzazione mentale delle conoscenze. Negli studi antropologici degli ultimi anni del secolo XX, comunque, non si usa più contrapporre nettamente le società letterate alle società illetterate: in molte società la scrittura è stata a lungo riservata a gruppi e ambiti ristretti e in altre, ritenute prive di scrittura, esistono invece forme diverse di grafia.L'inculturazione è un termine utilizzato nell'antropologia culturale statunitense in alternativa a quello di socializzazione. L'adozione di questo vocabolo è determinata dalla nozione di cultura nell'antropologia statunitense, che è prevalente rispetto a quello di struttura o di sistema sociale, sottesa in socializzazione. Ritenuto un tempo, per le società cosiddette “primitive”, un processo inconscio, cioè non soggetto a tecniche educative strutturate, l'inculturazione in realtà è un'azione svolta seguendo precise regole, che prevedono anche l'intervento di persone deputate allo scopo (specifici parenti, anziani, sciamani, cantastorie), con l'intento di conservare, pur adattandoli ai tempi, il patrimonio culturale e le strutture sociali del gruppo. Il processo d'inculturazione inizia praticamente con la nascita e termina con la morte: infatti le usanze e i riti che accompagnano i due eventi hanno la funzione di “legare”, soprattutto i giovani, alle tradizioni e al modo di vita della società in cui dovranno vivere. In tutte le società, la prima azione viene svolta nell'ambito della famiglia: fino ai 5 anni, normalmente, è in questa che inizia a formarsi il “modo” in cui l'individuo percepisce la realtà quotidiana, i fenomeni naturali, i rapporti sociali elementari e quelli con l'immaginario e il sovrannaturale; determinante in proposito è la funzione delle favole e del racconto di miti e leggende (sostanzialmente sostituiti in dai modelli imposti dai programmi televisivi). Infatti, in questi, animali o piante “umanizzati”, oppure eroi o esseri mitici, compiono azioni che suggeriscono le norme di comportamento e le regole morali che l'individuo è chiamato a seguire; non di rado sono dei piccoli trattati, come del resto lo sono molti poemi, contenenti nozioni pratiche su animali, piante, fenomeni, e su come questi si esplicano o si comportano, suggerendo quindi il modo migliore di rapportarsi a essi, così che il singolo trovi un modello valido per integrarsi con l'ambiente naturale in cui vive. Nelle società non letterate il rapporto interpersonale resta quello determinante: le prime esperienze vengono acquisite accompagnando i genitori durante la raccolta, la caccia o il lavoro nei campi; contemporaneamente vengono gradualmente impartite vere e proprie lezioni di comportamento sociale attraverso le quali il bambino impara a conoscere la struttura dei legami parentelari e tribali, i tabù, le interdizioni nonché a rapportarsi con culture diverse. L'inculturazione continua non solo attraverso i riti d'iniziazione, ma soprattutto mediante la ripetitività delle norme sociali e dei caratteri culturali attuati con l'elaborazione dei poemi tradizionali, i canti, le danze e le rappresentazioni rituali, cui partecipano giovani e adulti e assistono i bambini stessi. Tale sistema di “educazione e istruzione collettiva” favorisce il controllo sociale dei singoli, ne facilita la costante integrazione nel gruppo, anche in presenza di mutamenti dell'organizzazione o del modo di vivere, e nel contempo mantiene viva l'identità della persona quale parte essenziale di un “tutto” culturale omogeneo, salvaguardando la stessa sopravvivenza etnica del gruppo.

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