Lessico

sf. [sec. XIII; dal greco politikḗ (téchnē), (arte) di governare la pólis].

1) Teoria generale dello Stato e delle forme di governo dedotta dall'osservazione e dalla descrizione delle forme di Stato o di governo realmente esistenti. La politica è inoltre la riflessione su tali strutture al fine di cercare le norme su cui esse si basano o le linee di tendenza del loro sviluppo storico, analizzandone le cause e cercando d'individuarne i possibili esiti futuri. Il termine di politica è usato però anche nel significato di “arte del governare” come ricerca dei mezzi più adatti a dirigere le azioni dei singoli nell'ambito della società civile e dello Stato: Machiavelli sosteneva l'indipendenza della politica dalla morale.

2) Per estensione, il complesso delle attività e dei provvedimenti concernenti la vita pubblica all'interno dello Stato e nei rapporti con gli altri Stati o riguardanti un det. settore della vita pubblica stessa: politica interna; politica estera; la politica economica della CEE;politica scolastica, l'insieme dei programmi, delle proposte e delle disposizioni di legge elaborato dagli Stati e dai partiti politici. Il termine politica scolastica è anche usato per caratterizzare i provvedimenti legislativi di una formazione di governo. In particolare, il modo con cui uno Stato, un governo, uno statista affronta det. problemi politici in vista di certi fini: la politica di Giolitti, del fascismo; politica conservatrice, reazionaria; la politica delle mani nette. Nelle loc.: politica dei redditi, quella che mira a commisurare l'aumento dei salari all'incremento della produttività, al fine di attuare una più equa distribuzione dei redditi; politica del carciofo, quella con cui uno Stato cerca di assicurarsi il dominio su un altro, mediante parziali e successive annessioni, o quella con cui un partito cerca di assicurarsi il controllo dello Stato mediante il graduale accaparramento dei centri di potere.

3) L'attività di chi prende parte attiva alla vita pubblica: darsi alla politica. Per estensione, il complesso delle questioni, dei problemi riguardanti la vita pubblica: parlare, interessarsi di politica;politica da caffè, le discussioni intorno alla vita pubblica fatte da chi non ha nessuna competenza in materia.

4) Il complesso degli atteggiamenti e dei provvedimenti adottati da una persona, da un ente e simili per raggiungere det. fini: la politica del direttore, del giornale; la politica delle aziende di credito. Fig., comportamento prudente e abile; diplomazia, accortezza: con la sua politica è riuscito a convincerlo.

Filosofia

La vita politica è regolata da norme giuridiche, siano esse di diritto costituzionale, amministrativo, civile o penale. Nello stesso tempo però il contenuto di ogni norma di diritto è il risultato di una politica, ossia di determinate scelte dei gruppi volta per volta dominanti. Nel mondo antico la distinzione tra Stato e società civile non esisteva e il complesso fenomeno della convivenza umana in tutti i suoi molteplici aspetti organizzativi era concepito come un fatto unitario, naturale e indifferenziato, voluto e regolato dall'ordine provvidenziale cosmico. Sulla base di una simile concezione del mondo e della vita, la politica non godeva di alcuna autonomia, non distinguendosi minimamente dalla morale. Infatti, tutti i comportamenti degli individui (che non venivano mai considerati, come con l'ottica moderna, quali portatori di una serie di valori e di diritti inviolabili riconducibili alla sfera della dignità e libertà personale, ma valevano solo in quanto inseriti nell'organismo sociale della città-Stato) erano volta per volta “buoni” o “cattivi” a misura che fossero a favore o a danno dell'intera comunità e – viste le basi religiose di quest'ultima – a misura che rientrassero o meno nella sfera della morale. Analogamente, con un procedimento inverso, le azioni umane erano giudicate “buone” o “cattive” secondo che fossero o meno morali, cioè rispettose o devianti nei confronti della religione e degli interessi dello Stato. Solo così si capisce perché Socrate, riconosciuto colpevole di empietà religiosa, abbia dovuto anche essere condannato a morte quale colpevole contro lo Stato. Del resto, gli antichi, in modo diametralmente opposto a noi moderni che vediamo nello Stato un mezzo per garantire possibilità di sviluppo e felicità all'individuo (ritenuto quindi un fine), giudicavano l'individuo essenzialmente come uno strumento che doveva servire per realizzare il bene comune della società-Stato (a sua volta ritenuta il fine). Non per nulla Platone, nel tratteggiare la sua Repubblica ideale, polemizzava contro ogni egoismo individuale e personalistico, affidando il difficile compito di governare la pólis perfetta a quei filosofi-re che meglio di chiunque altro incarnavano un'anima retta da ragione, essendo liberi da passioni e interessi privati, tanto che venivano esclusi persino dal godimento della proprietà privata e dagli affetti della famiglia. In generale, dunque, tutti gli antichi concepivano la vita e la politica come una strana commistione fra sacro e profano, fra morale e politica stessa, mentre alcuni popoli andavano oltre subordinando la politica alla religione, vuoi attraverso la divinizzazione dei sovrani (come per esempio nell'Egitto o in Cina, ecc.), vuoi sottoponendo ogni fatto della vita umana alla maestà incorporea, ma onnipresente e onnipotente, di una Legge divina trasmessa agli uomini attraverso la rivelazione (come nel caso della teocrazia veterotestamentaria degli Ebrei). Neppure i Romani, che pure per regolare i rapporti sociali interpersonali elaborarono teorie giuridiche fondamentali in gran parte tuttora valide, nell'ambito della politica seppero discostarsi molto dalle concezioni allora correnti. Anzi, nel periodo imperiale, si adeguarono addirittura agli usi e ai costumi orientali divinizzando la figura dell'imperatore, in origine non più che princeps (cioè un primo inter pares). Più tardi, il cristianesimo contribuì certo a dare nuova dignità all'individuo, riconoscendo tutti gli uomini eguali nel segno della comune fratellanza in Dio, ma va notato che si trattava ancora di una dignità puramente religiosa e inoltre il fine ultimo dell'uomo non riguardava il raggiungimento della felicità in questo mondo, magari con l'organizzazione di un'impossibile società terrena perfetta, quanto piuttosto cercava la felicità e la salvezza eterna attraverso la società della comunione dei fedeli: la Chiesa (questa sì veramente perfetta perché divina). Insomma, come si vede bene anche nella lacerata visione agostiniana delle due Città (quella terrena e quella di Dio), la seconda prevaleva e doveva necessariamente prevalere sulla prima riducendo la politica a una mera appendice funzionale e strumentale nel quadro di una teocrazia universale: ancora una volta la religione inglobava ogni aspetto del mondo e della vita umana. Tale Weltanschauung rimase stabile per lunghi secoli: infatti, tralasciando grandi e piccoli canonisti che provvidero a teorizzare la supremazia del potere religioso (Chiesa) sul potere politico (Impero), è da ricordare che durante il periodo medievale la religione dominò incontrastata la politica, tanto è vero che persino le lunghe lotte tra Papato e Impero non rappresentano una contrapposizione fra due poteri diversi per origine e finalità (di cui uno religioso e l'altro “laico”), ma testimoniano la drammatica tensione ideale e materiale fra due poteri eguali per origine e investiti ambedue di una missione divina venuti a conflitto tra loro proprio per le gelosie reciproche sorte nell'interpretazione delle rispettive modalità di esercizio di tale medesima missione: guidare gli uomini nell'arduo cammino attraverso la “valle di lacrime” del mondo terreno verso la salvezza eterna. Sulla scorta del rinnovamento posto in essere dall'umanesimo, si deve aspettare Machiavelli e la sua visione laica della vita perché finalmente la politica possa compiere la propria “rivoluzione copernicana”, assumendo una dimensione e una dignità autonome rispetto alle altre sfere della religione e della morale; le pagine de Il Principe (1513), al di là della contingente precettistica, mantengono la loro straordinaria attualità e vitalità perché dimostrano che il potere è il più macroscopico fenomeno umano di cui, anziché cercare giustificazioni o legittimazioni trascendentali e metafisiche, occorre studiare realisticamente, e demistificare, i meccanismi di esercizio e di funzionamento al di là di ogni sovrastruttura ideologica. L'“incanto” della religione veniva spezzato per sempre, e da allora, dopo la lezione di Machiavelli, il modo di intendere e spiegare tutta la fenomenologia politica è cambiato. Filosofi e pensatori politici, trattando le eterne, spinose questioni della migliore, o più efficace, organizzazione del potere all'interno dello Stato, discorderanno – a volte anche profondamente – sui modi per garantire e tutelare la libertà e la dignità degli individui, ma non potranno più prescindere da una metodologia interpretativa rigorosamente empirica e realistica e, ciò che non è meno importante, non si porranno più come assunto fondamentale il raggiungimento di fini oltremondani quali la salvezza dell'anima dei cittadini. La politica tende così a convertirsi nella scienza politica.

Scienze politiche

Nel suo significato moderno di scienza distaccata da ogni interferenza morale o moralistica, la politica è molto recente ed è strettamente legata allo sviluppo delle altre scienze sociali dei cui risultati specialistici tende molto spesso a servirsi ai fini di una più completa e articolata disamina dei propri problemi conoscitivi. Ma in quanto scienza, la scienza politica, se da una parte – da Machiavelli in poi – si riconosce al pari di tutte le altre scienze empiriche a-morale (cioè svincolata dalla morale, ma non necessariamente contro la morale o la religione), dall'altra è “libera da valori” – come diceva Max Weber – e non può indicare alcuna precettistica particolare. Essa cioè, seguendo il metodo di una costante osservazione controllata dei fenomeni empirici, si limita a studiare soltanto con “curiosità disinteressata” i problemi inerenti all'esercizio del potere politico (non dunque di tutte le forme di potere) delle società moderne: i sistemi elettorali, i partiti politici, la propaganda e l'organizzazione del consenso, i gruppi di pressione, la selezione delle élite dirigenti e la condotta della “classe politica”; ma non deve né può prefiggersi fini pragmatici immediati, quali quelli di fornire una guida sicura per ogni tempo e Paese all'azione dei governanti, come si cercava di fare con la precettistica antica. Semmai utili suggerimenti pratici all'azione settoriale e contingente dei governanti devono venire da altri indirizzi della politica (per esempio dalla politica fiscale, tributaria, economica, monetaria, demografica, scolastica, agraria, commerciale, dei trasporti, ecc.). Interessanti sono poi i rapporti tra la scienza politica e le altre scienze umane. Dalla filosofia politica, come si è visto, essa si differenzia per un complesso di ragioni “negative”: non delinea Stati ideali, non cerca astratte giustificazioni all'obbligazione politica, non fa distinzioni fra azioni politiche e azioni morali. Dalle scienze giuridiche in genere, la scienza politica si distingue invece per il fatto che, mentre le prime (come sosteneva H. Kelsen) sono normative e quindi considerano le azioni umane in base al principio dell'imputazione (atti leciti o illeciti), essa non è affatto normativa ma tende a registrare le regolarità e le costanti nell'esercizio del potere politico. Quanto poi ai rapporti tra storia e scienza politica, il discorso diventa anche più sfumato qualora si pensi che la scienza politica, cercando di ricostruire e comprendere le vicende passate e presenti del fenomeno “potere politico”, compie sempre un'operazione di carattere storiografico, mentre la storia, allorché medita su alcune vicende statuali, spesso involontariamente fa della scienza politica. Esempi tipici di tale compresenza di elementi storiografici e più propriamente politici nel corso di una medesima opera sono numerosissimi e si possono trovare negli scritti di quasi tutti i grandi storici e pensatori politici: da Machiavelli a Tocqueville, da Marx a Pareto, da Montesquieu a Stuart Mill, a Mosca.

Sociologia

La sociologia politica ha faticosamente conquistato il proprio spazio di analisi autonoma della politica, differenziandosi dall'approccio proprio della scienza politica (o politologia). Per i sociologi, infatti, si tratta di indagare l'influenza della società – terreno di organizzazione e conflitto di interessi, identità, classi sociali – sul sistema politico, comprendente le istituzioni e le attività dello Stato. I politologi, viceversa, concentrano l'attenzione sulle strutture e le dinamiche proprie del sistema politico, per valutarne gli eventuali effetti sulla più vasta società. Questa distinzione è gravida di conseguenze importanti sul piano dei metodi di ricerca (per la sociologia, per esempio, è fondamentale rilevare la percezione della politica nell'opinione pubblica, allo scopo di valutare meglio la qualità e il significato di fattori statisticamente noti, come la distribuzione dei consensi elettorali o il tasso di astensionismo) e non è esente da contestazioni. M. Duverger sostiene l'assoluta sovrapponibilità di sociologia politica e scienza della politica; G. Sartori segnala la seppur parziale coincidenza di variabili legate al sistema politico e a quello sociale. La questione è stata in gran parte ricondotta nella riflessione recente alla rivendicazione di piena autonomia del fenomeno politico rispetto ad ambiti oggetto dell'interesse di altre discipline (la politica non può, perciò, essere mai interamente desunta dalla sfera economica o dall'ordinamento giuridico di una comunità); al riconoscimento della rilevanza politica assunta da istanze socio-culturali molto ampie e diverse (dalla famiglia ai mass-media, dalla religione al sistema educativo); da una conseguente dilatazione del concetto di politica come momento esteso di partecipazione, organizzazione, composizione o conflitto di interessi e identità attivi nelle istituzioni e nella società civile.

B. Croce, Politica in nuce, 1924; M. Duverger, L'influence des systèmes éléctoraux sur la vie politique, Parigi, 1950; idem, Les partis politiques, Parigi, 1951; G. Heckescher, The Study of Comparative Government and Politics, Londra, 1957; J. Meynaud, Introduction à la science politique, Parigi, 1959; Autori Vari, Comparative Politics. A Reader, New York, 1963; Autori Vari, La Politica e le Scienze Sociali, Bari, 1969; N. Bobbio, Saggi sulla scienza politica in Italia, Bari, 1969; P. H. Merkl, Modern Comparative Politics. A Framework for Analysis, New York, 1970; Autori Vari, Potere ed élites politiche, Bologna, 1971; Autori Vari, Partiti e gruppi di pressione, Bologna, 1972; L. C. Mayer, Comparative Political Inquiry. A Methodological Survey, Homewood, 1972.

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