Definizione

sm. [sec. XX; neo+colonialismo]. Con tale espressione, entrata nel linguaggio politico contemporaneo con una valenza polemica ed emotiva più che con un contenuto rigorosamente scientifico, si definiscono tutte le forme di grave dipendenza alle quali molti Paesi, che pure apparentemente hanno raggiunto piena sovranità, sono costretti a soggiacere rispetto ad altri Stati di avanzato sviluppo industriale. Dal secondo dopoguerra in poi, con l'avvio del fenomeno più o meno pacifico della decolonizzazione e l'indipendenza delle colonie, il colonialismo è entrato in crisi nei suoi aspetti giuridico-politici tradizionali e si è trasformato adeguandosi ai tempi e assumendo i connotati più duttili e sfumati di un intervento economico massiccio, anche se “camuffato” come testimonianza di aiuto, di sostegno o di temporanea collaborazione interstatuale.

Teorie e studi

Il fenomeno neocoloniale è stato teorizzato per la prima volta dal premier indonesiano Sukarno in occasione della Conferenza di Bandung del 1955, e ripreso, più o meno negli stessi termini, nella Terza Conferenza dei popoli panafricani tenuta al Cairo nel 1961. Successivamente Kwame Nkrumah, primo presidente del Ghana, ha esaminato la situazione interna dei regimi africani che, a suo dire, deriverebbero “la loro autorità di governo non dalla volontà popolare ma dal sostegno dei loro padroni neocoloniali”, osservando che, nella maggior parte dei casi, il sistema economico e la vita politica di questi Paesi sono interamente eterodiretti e condizionati dal neocolonialismo. Le tesi di Nkrumah sono state integrate, e in parte contraddette, dall'analisi di J. Woddis, che ha evidenziato l'adesione spontanea di alcune frazioni della borghesia locale al progetto di alleanza con le forze politiche, economiche e sociali dell'imperialismo. Anche C. Leys ha sostenuto che si deve parlare di neocolonialismo non solo come di una forma particolare di politica imperialista, ma anche come di una caratteristica della vita politica, sociale ed economica di certi Paesi con passato coloniale, in cui la transizione all'indipendenza ha coinciso con il trasferimento del potere politico a un regime sostenuto dalle classi sociali legate agli interessi stranieri, rappresentati in passato dallo stato coloniale. Nei casi di neocolonialismo allo stato puro, come il Kenya e la Costa d'Avorio, la distribuzione delle risorse e la politica degli investimenti sono rimaste sostanzialmente uguali, e il trasferimento di potere dalle antiche potenze coloniali alle nuove classi dominanti ha determinato la nascita di una forma di colonialismo interno, sia pure dipendente economicamente dal sistema capitalistico mondiale. Ma C. Leys è andato anche oltre e ha avanzato anche l'ipotesi che questa soluzione sia dipesa sostanzialmente dall'impossibilità, per i Paesi capitalisti, di realizzare una politica neocoloniale senza allearsi col capitalismo di Stato dei Paesi emergenti. In altre parole, non si deve interpretare il neocolonialismo come un declino dell'imperialismo internazionale, messo in crisi dalla decolonizzazione, ma, al contrario, come un tentativo di farlo sopravvivere e sviluppare, sostituendo a una forma arcaica di dominazione dei nuovi meccanismi economico-sociali interni ai Paesi emergenti, e orientando il mercato, le infrastrutture e la forza-lavoro locali verso gli interessi del capitale finanziario e industriale degli Stati ricchi e delle multinazionali. Amilcar Cabral, il leader della Guinea-Bissau, è giunto addirittura a chiedersi se l'indipendenza nazionale, nella maggior parte dei casi più concessa che conquistata, non sia in realtà un raffinato escamotage imperialista per risolvere le sue contraddizioni con la borghesia locale, alla luce dei radicali mutamenti del quadro politico-istituzionale del mondo uscito dalla seconda guerra mondiale.

Meccanismi di controllo economico

Il maggior problema, per i Paesi con un passato colonialista, è perpetuare il controllo economico su Paesi che hanno ottenuto l'indipendenza politica e operato il ricambio delle proprie classi dirigenti. Già durante la fase di decolonizzazione, del resto, erano stati messi in opera degli accordi commerciali in grado di predeterminare l'assetto e lo sviluppo postcoloniali della maggior parte di questi Paesi. Lo stesso Nkrumah ne indicava i principali: la formazione di mercati comuni o di comunità economiche regionali, le unioni doganali o monetarie tra i Paesi ex coloniali e altre forme di associazione con le potenze metropolitane. Per non parlare della costituzione di basi militari e delle forniture belliche, finalizzate all'instaurazione di regimi conservatori attraverso lo strumento del colpo di Stato e dell'assassinio politico. Il continente africano, come è ovvio, fornisce gli esempi più significativi dei meccanismi di dipendenza neocoloniale, messi in atto, soprattutto da Francia e Gran Bretagna, negli ex possedimenti. La creazione dell'Organisation Commune Africaine et Mauricienne (OCAM), divenuta poi OCAMM, che comprendeva la maggior parte dei Paesi francofoni, non è affatto servita, come era previsto, a integrare le economie dei Paesi membri, ma solo a sviluppare e rinsaldare il loro legame con la Francia, razionalizzando e centralizzando l'interscambio commerciale. Ognuno di questi Paesi, infatti, esporta in Francia, o nella UE, in misura assai superiore a quanto avviene con i partner africani aderenti all'OCAM. Altrettanto dicasi per le istituzioni monetarie, come la Banque centrale des États de l'Afrique de l'Ouest (BCEAO) e la Banque centrale des États de l'Afrique equatoriale et du Cameroun (BCEAEC), divenuta poi Banque des États de l'Afrique centrale (BEAC), praticamente controllate da Parigi, soprattutto mediante gli accordi commerciali bilaterali che favoriscono la circolazione delle merci francesi. Un caso particolare è costituito dalla Repubblica Sudafricana che ha lungamente svolto un ruolo subimperialista a carattere regionale, non solo annettendosi la Namibia, in violazione del mandato fiduciario dell'ONU, ma imponendo un assoluto controllo economico a tutti i Paesi dell'area: Botswana, Lesotho, Swaziland, Malawi e Mozambicoe attraverso l'importazione di forza-lavoro stagionale a basso costo e l'esportazione di manufatti e di capitale. Tutta la politica di espansionismo economico, messa in atto dalla Repubblica Sudafricana fino alla vittoria di Mandela, è stata promossa nell'interesse non solo dell'industria mineraria locale, ma del capitale monopolistico occidentale cui essa era strettamente legata. La Repubblica Sudafricana, in effetti, ha agito come baluardo degli interessi economici e strategici delle potenze occidentali, per lo meno fino a quando il regime di apartheid, che garantiva il lavoro a basso costo, ha portato il Paese a un tale punto di crisi e a un tale isolamento dalla comunità internazionale da renderlo inaffidabile agli occhi dei suoi stessi partner.

Meccanismi di controllo: la politica degli aiuti

Uno dei principali meccanismi di controllo neocoloniale è la cosiddetta “politica degli aiuti”, che spesso si trasforma in un'arma di politica estera nelle mani dei Paesi “donatori”, destinata a mantenere o ad accrescere la loro influenza su tutto il mondo “assistito”, anche al di fuori del settore strettamente economico. I programmi di aiuti costituiscono quasi sempre una fonte di profitti per le imprese dei Paesi “donatori”, perché aprono facilmente mercati importanti per i loro prodotti e incentivano nei Paesi emergenti il sistema della libera concorrenza a tutto favore delle imprese occidentali. Inoltre, i programmi di aiuti accentuano, invece che ridurre, la subordinazione dei Paesi emergenti al capitale internazionale, anche per il fatto che la loro concessione o il loro ritiro possono essere usati come strumento di intervento politico o per vincolare le politiche economiche generali dei Paesi in via di sviluppo. infatti, le istituzioni preposte allo sviluppo, come la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, mantengono il diritto di fissare la programmazione economica dei Paesi riceventi, attraverso la presenza in loco di consulenti e di esperti e di imporre provvedimenti monetari e fiscali, particolarmente austeri, per correggere la crisi delle bilance dei pagamenti. Si tratta, in altre parole, di imporre una serie di misure, che vanno sotto il nome di “aggiustamenti strutturali”, finalizzata alla riduzione del debito estero dei Paesi emergenti, con pesanti ripercussioni sullo sviluppo dei consumi e sulla crescita del mercato interno. I programmi di aiuti accentuano non di rado lo stato di subordinazione del Paese ricevente, poiché una parte cospicua dei fondi è destinata allo sviluppo di infrastrutture per l'estrazione delle risorse minerarie, in sintonia con le strategie economico-industriali dei Paesi donatori. Inoltre, il costo del debito estero finisce quasi sempre per assorbire buona parte degli aiuti finanziari, la cui concessione può trasformarsi, di diritto o di fatto, in uno strumento di dominio politico, o quantomeno di controllo, totale o parziale, sui programmi di sviluppo, nonché sulle politiche monetarie e fiscali. La Banca Mondiale, per esempio, o il Fondo Monetario Internazionale, condizionano l'invio degli aiuti all'accettazione, da parte dei riceventi, di interventi legislativi miranti al raggiungimento di un grado di stabilità economica e politica che tutelino gli interessi, non solo dei governi e delle istituzioni, ma anche degli investitori privati, che costituiscono una delle principali fonti di finanziamento e di credito del sistema capitalistico. Queste misure di salvaguardia della stabilità hanno spesso, per i Paesi emergenti, dei costi sociali rilevanti. La natura degli investimenti privati ha cominciato a cambiare, in maniera considerevole, già nella fase di decolonizzazione, e a interessare, non solo il commercio e l'industria estrattiva, come in passato, ma anche quella manifatturiera. Proprio in quest'ottica, gli investitori stranieri hanno gradualmente coinvolto il capitale locale, sia privato sia di Stato, attraverso la creazione di joint ventures. È il caso soprattutto delle multinazionali, che operano un massiccio drenaggio di plusvalore sotto forma di rimpatrio, totale o parziale, dei profitti. Nel caso poi in cui l'economia locale abbia un carattere monocolturale, sia nel settore agricolo sia minerario, le imprese straniere che vi partecipano acquisiscono a poco a poco un controllo globale, non solo sul settore chiave del sistema produttivo, ma sull'intera economia del Paese. E questo accade col consenso, più o meno tacito, dei Paesi in via di sviluppo che, per attirare il più possibile il capitale straniero, spesso in concorrenza coi Paesi vicini, adottano politiche monetarie, ma anche occupazionali e sociali, favorevoli agli interessi degli investitori, ai quali viene garantito il rimpatrio dei profitti, sottraendoli alla minaccia di un esproprio. Per meglio valutare il potere effettivo delle multinazionali sulle economie locali, occorre sottolineare ancora una volta il loro monopolio nel settore della ricerca e dello sviluppo e nella fornitura di tecnologia, soprattutto per le attività industriali che comportino tecniche di produzione più complesse e sofisticate. Il meccanismo neocoloniale si manifesta anche nel potere contrattuale delle multinazionali stesse, accresciuto spesso da interventi di sostegno da parte dei governi metropolitani e, quando non basta, dal ricorso sistematico alla corruzione, e ad altri mezzi di pressione sull'amministrazione pubblica dei Paesi in via di sviluppo. Quando tutto ciò non basta, la parola passa alle armi. Qui non si allude tanto all'esistenza di basi militari delle ex potenze coloniali, la cui importanza strategica è diminuita nel tempo, quanto ad altre forme di dominio o di influenza militare sui Paesi del Terzo Mondo, come la vendita di armi, l'addestramento militare, il sostegno, in caso di guerra civile, a una delle due parti in lotta, e, per finire, l'attività sistematica di spionaggio, o, addirittura, l'intervento diretto dei servizi segreti, finalizzato, secondo i casi, alla stabilizzazione o destabilizzazione di un regime politico. Basti pensare al ruolo della CIA nella caduta di importanti leader africani, come Nkrumah e Lumumba, e nel procurato ritardo con cui il Movimento Popolare di Liberazione dell'Angola (MPLA) ha preso il potere nel Paese fino agli eventi nel Sahara Occidentale, dove si voleva impedire la vittoria del Polisario, il movimento di liberazione nazionale, contro le pretese territoriali del Marocco. Il tentativo di imporre governi autoritari, rendendoli subalterni al capitale straniero, viene generalmente portato a termine col concorso delle oligarchie locali. È il caso, per esempio, dall'insurrezione a comando anti-Moṣaddeq in Iran nel 1953, della lunga dittatura di Mobutu nello Zaire, del colpo di Stato contro il presidente Allende in Cile, delle Repubbliche dell'America Centrale, che sono state soggette in passato a frequenti colpi di stato, manovrati proprio dalla United Brands (ex United Fruit Company), per la tutela dei propri interessi commerciali e in anni più recenti hanno visto spesso governi di sinistra messi in crisi da bande di guerriglieri appoggiate da governi stranieri e multinazionali.

Neocolonizzatori e neocolonizzati

Questo complesso meccanismo di sfruttamento neocoloniale, cui spesso non sono estranee le borghesie minoritarie che gestiscono il potere locale, oltre a sottrarre profitti al Paese in cui opera, ne compromette le potenzialità, sia sul piano economico sia su quello sociale. La specializzazione monocolturale dell'economia, concentrata su pochi prodotti commerciali, ha inferto un duro colpo alla tradizionale agricoltura di sussistenza, anche a causa dello scarso rispetto per l'ecologia e l'ambiente, senza offrire delle vere soluzioni alternative. La stessa divisione internazionale del lavoro, che impone ai Paesi emergenti la necessità di importare la stragrande maggioranza dei manufatti, ha portato alla graduale scomparsa dell'artigianato locale e di altre forme di lavoro strettamente connesse alla società tradizionale. Anche nel caso in cui si sviluppa in loco un'industria manifatturiera, tendenzialmente orientata al superamento della monocoltura, tale industria resta cronicamente dipendente dall'estero, per la tecnologia e per le materie prime. Le classi dirigenti di questi Paesi sono spesso corresponsabili, e non solo succubi, dei meccanismi di dominio neocoloniale, anche accettando passivamente l'imitazione dei modelli di vita occidentale, sino al rifiuto, spesso ostentato, del patrimonio identitario delle culture autoctone. In realtà, la strategia neocoloniale ha sempre puntato sull'ascesa al potere di una classe dirigente che potesse operare in totale sintonia con gli interessi del capitale straniero. Tale classe, definita impropriamente piccola borghesia, si compone in generale di burocrati, politici, militari, piccoli uomini d'affari, in grado di sostituire, nei rispettivi ruoli, i quadri, per la maggior parte europei, del vecchio regime coloniale. Questa borghesia, naturalmente, è cresciuta a poco a poco per cooptazione, arruolando i nuovi quadri dell'amministrazione pubblica tra gli amici, i parenti e, soprattutto, tra gli appartenenti alla stessa etnia o addirittura allo stesso clan. In molti casi, però, la piccola borghesia al potere non svolge soltanto un ruolo intermediario al servizio del capitale monopolistico straniero, ma cerca di contenerne l'invadenza, specie quando insorgono forme di antagonismo, tra gli interessi imperialisti e quelli del potere locale, tali da mettere in crisi, o ridimensionare, i presupposti stessi del rapporto neocoloniale. Anche all'interno del gruppo dominante piccolo-borghese si possono registrare tendenze e strategie diverse, sia sul piano ideologico sia su quello della gestione della cosa pubblica. Questo dipende anche dal fatto che lo stato postcoloniale non è quasi mai fondato sul dominio di un'unica classe ma piuttosto su di un blocco di interessi socio-economici diversi, in cui interagisce spesso anche la componente etnica. Ciò vale soprattutto per l'Africa, dove non si è ancora formata una borghesia nazionale nel senso tradizionale del termine, in grado di sviluppare una maggiore autonomia nei confronti del capitale internazionale e delle sue modalità di intervento. Una delle cause maggiori di debolezza nei confronti dell'imperialismo consiste proprio nella mancanza, in questi Stati, di un'effettiva dimensione nazionale, connotata da una forte coesione sociale e culturale delle masse popolari. Da parte loro, gli stessi movimenti di liberazione hanno sempre compreso la necessità di sostenere, o addirittura creare, una cultura nazionale come base e supporto della lotta rivoluzionaria antimperialista. Alcuni leader di paesi di recente indipendenza parlano, infatti, anche di una forma di neocolonialismo culturale quale passiva accettazione di modelli di vita occidentali, che tentano di contrastare valorizzando e attualizzando gli elementi etnici ed etico-politici delle rispettive culture autonome preesisitenti al colonialismo, magari con la riscoperta dellanegritudine, come ha fatto il poeta Léopold Sédar Senghor, presidente della Repubblica del Senegal dall'indipendenza al 1980. Questa alternativa nazionalista, che non deve essere necessariamente né socialista né rivoluzionaria, rappresenta forse l'unico tentativo di opporsi efficacemente all'invadenza del neocolonialismo, di farne esplodere le contraddizioni latenti, e di superare la fase di totale subordinazione economica. Non va comunque sottovalutato il fatto che sono esistite ed esistono tuttora, in tutto il cosiddetto Terzo Mondo, anche forme di colonialismo interno: il caso classico è quello dell'Etiopia di Hailè Selassiè, il cui regime semifeudale, sostenuto dall'imperialismo, attuava, all'interno del suo Paese, forme di dipendenza economica e politica in larga misura assimilabili ai meccanismi del neocolonialismo classico. In entrambi i casi, solo partendo da una radicale trasformazione sociale, economica e istituzionale, e sfruttando le crisi ricorrenti del capitalismo internazionale, i Paesi emergenti possono sottrarsi a quella dipendenza neocoloniale che ha caratterizzato la seconda metà di questo secolo.

Sviluppi recenti

A partire dal primo decennio del XXI secolo è emerso un fenomeno nuovo, chiamato land grabbing, espressione traducibile  con “furto, accaparramento di terra”. Si tratta dell’acquisizione su larga scala da parte di governi stranieri, multinazionali o soggetti privati, di grandi estensioni di terreni agricoli nei Paesi in via di sviluppo. 

La causa principale del fenomeno è da rintracciarsi nella crisi alimentare mondiale, aggravata dalla crisi finanziaria esplosa nel 2008, che ha determinato il notevole aumento dei prezzi dei prodotti agricoli necessari per garantire la sicurezza alimentare dei Paesi più sviluppati, minacciata dalla crescita demografica, dall’aumento dei tassi di urbanizzazione e dall’aumento dei consumi di carne. A determinare la crescita dei prezzi delle derrate agricole ha inciso per il 30% circa anche il loro utilizzo per la produzione di biocarburanti. Infine a incentivare l’acquisizione di terreni agricoli hanno contribuito anche i cambiamenti climatici in atto, che impoveriscono la terra e riducono la disponibilità di risorse idriche. 

L’azione congiunta di queste cause ha portato alcuni Stati che dipendono dalle importazioni alimentari, ad esternalizzare la propria produzione agricola, acquistando o affittando per periodi molto lunghi (con contratti di locazione da 50 a 99 anni), terreni agricoli in altri Paesi, assicurandosi così la copertura dei bisogni alimentari interni e tutelandosi dalle fluttuazioni del mercato internazionale. A questo si aggiunge il fenomeno della speculazione sulla terra, che è diventata un bene rifugio su cui investire per trarre profitto in futuro, trascurando il suo attuale valore produttivo. 

I maggiori investitori sono Stati Uniti, Emirati Arabi Uniti, Cina, India, Regno Unito, Corea del Sud, Egitto, Sudafrica, Singapore, Arabia Saudita, Brasile e Russia. I Paesi oggetto di acquisizione si trovano quasi esclusivamente nel Sud del Mondo, prevalentemente nell’Africa subsahariana, ma anche nel Sudest asiatico e in America latina. In misura minore il fenomeno è diffuso anche nell’Est europeo (Romania, Bulgaria e Ungheria). 

Il fenomeno del land grabbing  è stato oggetto di numerose critiche, venendo di fatto classificato come furto perché le acquisizioni avvengono con condizioni contrattuali poco chiare e senza il consenso libero, preventivo e informato delle popolazioni locali. Inoltre esse non tengono in considerazione l’impatto sociale e ambientale e violano i diritti delle popolazioni locali, che si vedono private dell’accesso alla terra e alle risorse idriche da cui dipende la loro sopravvivenza. 

Studi recenti hanno inoltre dimostrato che il land grabbing è una delle cause che concorrono alla crescita dei flussi migratori che sfruttano le rotte del Mediterraneo. Molte delle persone che dal Nordafrica partono alla volta dell’Europa sono infatti contadini e pastori dell’Africa subsahariana, privati della loro terra.

 

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