Lessico

sf. [sec. XIV; forse dal francese ant. haraz, allevamento di cavalli, con deglutinazione dell'articolo].

1) Insieme di individui della stessa specie accomunati da una o più caratteristiche che li separano da altri gruppi di individui pure della medesima specie (e pertanto interfecondi con quelli): razze equine, canine; una pregiata razza di rose; razza geografica, lo stesso che sottospecie. In zootecnia, razze animali, tipologie di individui ottenuti per selezione artificiale.

2) Per estensione, con riferimento alla qualità della razza, ossia alla purezza con cui si presentano i caratteri tipici: razza pura, bastarda; animale di razza (pura), che conserva inalterate le caratteristiche della sua specie; far razza, trasmettere i caratteri tipici della specie attraverso la riproduzione; bestia da razza, destinata alla riproduzione. Con riferimento alle razze umane: questioni, lotte, discriminazioni di razza, originate dalle differenze razziali. In frasi fig., per indicare qualità eccellente in un ambito specifico: una donna di razza; un pittore di razza.

3) In senso ristretto, stirpe, famiglia: sono persone di razza onesta; è testardo come tutti quelli della sua razza; anche fig.: non far razza con nessuno, disdegnare la compagnia e le amicizie. Per estensione, sorta, specie, qualità: frequentare gente di ogni razza; per lo più in senso spregiativo e offensivo, spesso con valore enfatico e pleonastico: non voglio più ascoltare discorsi di questa razza; che razza di vino mi hai portato?; razza di cretino, dove credi di essere?

Biologia: generalità

Il concetto di razza è stato introdotto nel sec. XVIII per definire la più piccola delle unità classificatorie raggruppante individui della medesima specie, distinguibili dagli altri per alcuni caratteri (per esempio, colore della pelle, forma e proporzione della testa, ecc.); tale concetto venne applicato anche alla specie umana (Linneo classificò quattro razze). Alla luce delle conoscenze di allora, la razza veniva intesa staticamente, cioè come un raggruppamento naturale immutabile nel tempo pur ammettendone l'interfecondità all'interno della specie. Nel sec. XIX, e ancora all'inizio del sec. XX, si riteneva che le razze animali, e umane, lasciate a se stesse in un ambiente naturale, non “mutassero” i propri caratteri ma che, anzi, alcuni caratteri ritenuti dominanti s'imponessero alterando quelli della specie congenere. Tale idea preconcetta si impose soprattutto per le razze umane, agendo da supporto pseudoscientifico alle dottrine razziste: contraddittoriamente, i risultati della zootecnia e gli studi sulla genetica e sull'evoluzione non venivano ammessi per l'uomo. È stato dimostrato, infatti, che i caratteri delle razze zootecniche selezionate vengono con il tempo alterati se gli animali domestici ritornano allo stato brado, in quanto si affermano solo quei caratteri che meglio rispondono all'ambiente, ciò anche in assenza di reincroci con animali selvatici della medesima specie (caso del mustang). Le teorie evoluzionistiche e la genetica delle popolazioni, d'altro canto, hanno ampiamente chiarito che il fenomeno della diversità di caratteri morfologici all'interno di una specie è dovuto al fatto che la maggior parte delle specie è in costante evoluzione e che, in genere, si tratta di specie politipiche, cioè con un'ampia variabilità di tipi morfologici nell'ambito dell'intera popolazione. Questa realtà è alla base delle diversità che ancor oggi rendono assai difficile una classificazione rigida: secondo i caratteri che si prendono in considerazione è sempre possibile, infatti, individuare delle sottounità all'interno di ciascuna specie politipica (sottospecie, razze, varietà); sottounità un tempo considerate sottospecie (o razze o varietà) sono state di volta in volta giudicate, da altri classificatori, specie (o sottospecie o razze) e viceversa, quando non sono state addirittura attribuite a specie e generi diversi. Lo stesso è avvenuto per le classificazioni delle razze umane (vedi anche antropologia) che, tuttavia, ancor oggi vengono ritenute da alcuni studiosi come unità statiche, sia per comodità classificatoria sia perché ci si rifiuta di applicare alla specie politipica umana (che più delle altre è in piena evoluzione) le leggi genetiche ed evolutive ammesse per le altre specie animali. Alla luce delle moderne conoscenze, il termine razza appare definibile quindi solo in termini biologici generali, nel senso che è possibile individuare all'interno di qualsiasi specie sottounità che presentino caratteri differenziati rispetto alla popolazione globale; questi gruppi contribuiscono, attraverso la diffusione dei propri caratteri acquisiti per micromutazioni, a determinare la variabilità, o politipismo, intraspecifica. Con il tempo, in seguito al sovrapporsi di azioni genetiche e ambientali, queste sottounità si possono caratterizzare in modo evidente (politipizzazione) e, per effetto della selezione naturale, dare origine a gruppi (sottospecie) che, nel caso di isolamento geografico o di precisi adattamenti all'ambiente, si evolveranno in specie a sé stanti. La tipizzazione non avverrà, invece, se la diffusione dei caratteri avverrà per continuo interscambio tra le sottounità (intese limitativamente come razze e varietà), in quanto la selezione genetica porterà, con il tempo, all'evoluzione dell'intera specie politipica con l'affermazione di quei caratteri (e quindi di quei tipi) che meglio rispondono all'ambiente, come è avvenuto, per esempio, per il cavallo e, probabilmente, per l'uomo.

Biologia: le razze umane

Per ciò che riguarda l'uomo, la cui evoluzione è ancora agli inizi (l'Homo sapiens ha solo qualche decina di migliaia di anni), si preferisce sempre più adottare il termine “tipo” umano che meglio risponde al dinamismo dell'evoluzione; per comodità i “tipi” vengono convenzionalmente raggruppati in unità di ordine superiore (tipi principali e tipi metamorfici, sottogruppi e gruppi) che hanno valore, però, soprattutto pratico e didascalico. Il termine razza è ormai sempre meno usato, non solo per le implicazioni socio-politiche a esso legate, ma anche perché inutilizzabile sul piano classificatorio data la difficoltà di puntualizzare l'essenza dei caratteri capaci di distinguere una razza da un'altra. Ciò vale soprattutto quando si voglia operare una differenziazione razziale sulla base dei caratteri antropometrici e, peggio ancora, sul solo colore della pelle. Questi caratteri, per loro natura poligenici, si distribuiscono infatti all'interno di qualsiasi gruppo umano, in modo continuo e in modo tale che le loro curve di distribuzione risultano ampiamente sovrapposte alle estremità con quelle degli altri gruppi umani, impedendo in questo modo la definizione di un limite di separazione preciso fra le sottounità in esame. La comparazione diventa possibile, quindi, solo in termini statistici, senza che sia esclusa per questo la realtà di un'ampia sovrapponibilità biologica dei caratteri studiati. Di più semplice utilizzazione, ai fini di una classificazione razziale, sono stati considerati i caratteri monogenici (per esempio, gruppi sanguigni) mediante la comparazione delle relative frequenze in ogni popolazione, ma anche in questo caso la definizione di razza è problematica. Infatti non si può discriminare e stigmatizzare una classificazione razziale solo sulla base di relativamente pochi caratteri a trasmissione ereditaria indipendente. Va inoltre ricordato che non infrequenti sono i casi di popolazioni a identica frequenza per determinati caratteri semplici ma che nel contempo presentano caratteristiche somatiche diverse o viceversa. Per questi motivi la tassonomia razziale ha proposto, per l'uomo, molteplici classificazioni, spesso contrastanti, basate ora su di un gruppo di caratteri ora su altri, senza tuttavia che un quadro conclusivo, e inattaccabile da un punto di vista rigorosamente scientifico, sia stato prodotto. La maggior critica imputabile a qualsiasi classificazione razziale per l'uomo, e quindi implicitamente allo stesso concetto di razza, è ancora quella che deriva dalle stesse evidenze biologiche alla luce delle teorie neoevoluzionistiche. Nulla vieta di pensare, infatti, che le differenze di qualsiasi ordine riscontrabili a livello di ogni popolazione rispetto ad altre non siano che l'espressione di un particolare momento della storia evolutiva della popolazione in questione e non rappresentino quindi che uno dei quadri di una situazione perennemente mutevole sotto gli stimoli della selezione genetica, ambientale e, per le popolazioni a più alto sviluppo tecnologico, anche tecnico-culturale (basti pensare all'influenza della medicina contemporanea sul carico genetico). Dall'insieme di queste considerazioni risulta più che giustificato l'abbandono per l'uomo del termine razza, che esprime, per definizione, un concetto statico e adinamico in netto contrasto con l'evoluzione in atto della specie. Tenendo conto di ciò, può essere ancora giustificato l'uso del termine razza, perpetuato anche per l'indubbia comodità dovuta all'abitudine di impiegarlo, in riferimento a gruppi umani concepiti solo come un complesso di individui omogenei (cioè tipi), per certi importanti caratteri esteriori, trasmissibili in un certo grado per via ereditaria, ma che restano invariati finché non intervengano eventuali mutazioni e comunque solo nell'assenza totale di incroci.

Antropologia

Nei secoli XVII e XVIII con lo sviluppo degli studi antropologici si formularono classificazioni delle razze caratterizzate da un approccio biologico all'argomento e da una associazione di fattori fisiognomici (forma del cranio, colore della pelle, statura ecc.) e anatomici. Queste non descrivevano solo le razze ma mettevano in luce la teoria che le ispirava: alla razza si facevano risalire le differenze culturali ed economiche delle popolazioni. Alla fine del secolo XIX con J. A. Gobineau si impose una concezione della razza basata essenzialmente sul grado di civiltà e sulla cultura: le razze venivano divise in evolute o superiori e primitive o inferiori. Nel secolo XX lo sviluppo della ricerca genetica rivelò la debolezza delle teorie scientifiche precedenti. La scoperta dei fattori sanguigni trasmessi ereditariamente ha consentito di abbandonare il concetto di “razze” umane e di adottare i metodi della genetica delle popolazioni. Si osservò che le variazioni genetiche avvenivano soprattutto all'interno delle singole popolazioni, determinando un rimescolamento dei geni e la comparsa di caratteri nuovi. Secondo la genetica moderna anche se il concetto di razza, definito nel corso di molti secoli, non ha alcun fondamento scientifico, può tuttavia continuare a essere usato: per descrivere l'effetto di un processo di selezione naturale in evoluzione, che determina la diversa distribuzione delle caratteristiche genetiche nelle differenti popolazioni.

Bibliografia

T. Dobzhansky, L'evoluzione della specie umana, Torino, 1965; C. Corrain, Il divenire biologico dell'uomo, Bologna, 1971; J. F. Downs, H. K. Bleibtreu, Human Variation: an Introduction to Physical Anthropology, 1972; B. Chiarelli, La razza umana, Firenze, 1991.

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