La Roma privata: il rituale dei pasti

cucina-romana1

Quello della cena, nella Roma imperiale, era un vero e proprio rituale che andò consolidandosi con il passare dei secoli. Se in epoca arcaica la parola d’ordine era frugalità, grazie alla contaminazione gastronomica che avvenne in seguito alle conquiste di nuovi territori, la cucina romana divenne ricca e variegata.

Agli albori dell’Impero i pasti principali erano tre: jentaculum (colazione), prandium (pranzo) e cena. Se i primi due erano a base di pane, frutta secca, latte, uova e legumi, il terzo era preceduto da abbondanti antipasti a base di olive, tartufi e garum, una sorta di poltiglia preparata con interiora di pesce essiccate al sole. Si passava poi ai piatti principali come, per esempio, le carni di agnello, bue o maiale o anche i crostacei. Il tutto era condito da olio d’oliva che i romani avevano imparato ad apprezzare una volta venuti in contatto con la cultura greca.

Non mancavano gli ortaggi come l’insalata, i legumi (lenticchie, piselli, ceci) consumati insieme con il farro soprattutto dai più poveri e, infine, la frutta di cui andavano ghiotti. In particolare si prediligevano i datteri e le mele. Un discorso a parte va fatto per il pane. Ce n’erano ben tre diverse qualità: il pane candidus preparato con farina bianca finissima, il secundarius realizzato con farina bianca miscelata e il plebeius, una sorta di pane integrale consumato dai più poveri.

Certo, un prelibato e ricco banchetto non poteva terminare senza un degno dessert! Di solito, sulle antiche tavole romane si potevano gustare particolari pasticcini fatti in casa chiamati dulcia domestica, datteri farciti, dolcetti di semolino e abbondante miele utilizzato per condire le pietanze o dolcificare le bevande come il vino. Infatti, a differenza di oggi, il vino non era bevuto puro, bensì miscelato ad acqua oppure miele e resine.

Il rituale del pasto, con il passare del tempo, assunse grande rilevanza nella vita quotidiana. Se nei primi secoli della civiltà romana le pietanze erano consumate in piedi, in epoca imperiale cominciarono a essere allestiti sontuosi banchetti all’interno del triclinium (la sala da pranzo) arredato con un tavolo ovale o rettangolare attorno al quale erano posti i cosiddetti lecti tricliniares, una sorta di divanetti che permettevano ai commensali di cibarsi stando sdraiati e di godersi il fine pasto all’insegna di ripetuti brindisi. Questa fase prendeva il nome di comissatio.

Le pietanze erano servite all’interno di un grande vassoio e, naturalmente, si mangiava con le mani che gli invitati sciacquavano in piccole brocche d’acqua e asciugavano con salviette personali. Una volta terminato il lauto pasto, molti dei commensali avevano l’abitudine di vomitare quando si sentivano sazi così da poter ricominciare a godere delle gioie del cibo. Per agevolare tale pratica, gli schiavi avevano il compito di raccogliere il vomito dentro appositi vasi.

Indubbiamente, per i ricchi signori, quello dei banchetti era un mezzo utilizzato non solo per stringere accordi o alleanze con personalità di un certo prestigio, ma anche per ostentare ricchezza e opulenza. La letteratura dell’epoca ci riporta in maniera esaustiva di alcune, sontuose cene organizzate da illustri personaggi del tempo.

Per esempio, Petronio Arbitro nel suo romanzo Satyricon, del I secolo d.C., scrive minuziosamente della cena allestita da Trimalchione desideroso di stupire i suoi ospiti con prelibate e abbondanti portate. Un viaggio attraverso le abitudini culinarie di una grandiosa civiltà abile, non solo nell’arte della guerra, ma anche in quella gastronomica.

photo credit: Sebastià Giralt via photo pin cc