Filosofia politica del '900: Schmitt, Arendt, Rawls

Hannah Arendt

La filosofa tedesca Hannah Arendt, (Hannover 1906 - New York 1975), di famiglia ebraica, studia filosofia e teologia. Per sfuggire al nazismo si trasferisce dapprima in Francia e poi negli Stati Uniti. L'orientamento di fondo del suo pensiero è il tentativo di rifondare la politica, partendo da un'analisi della modernità e da uno dei suoi esiti più disastrosi, il totalitarismo. Nelle Origini del totalitarismo (1951) Arendt lo identifica come una forma di dominio completamente nuova, che attraverso la deresponsabilizzazione morale e il rigido inquadramento degli individui ha come scopo ultimo la trasformazione dell'uomo in "automa" e dei gruppi sociali in "masse". In Vita attiva (1958) questa problematica viene inserita in un contesto più ampio: alle caratteristiche del mondo moderno (tecnica, automazione, separazione fra conoscenza e pensiero), che hanno portato alla spoliticizzazione dell'agire e a una sottomissione alla razionalità astratta, contrappone il modello ideale della pólis greca, dove gli uomini entrano in relazione fra loro attraverso l'azione, che si distingue dal lavoro (finalizzato ai bisogni) e dalla produzione (di strumenti utili) e si qualifica come il dedicarsi degli uomini al bene pubblico. Il compito urgente e principale della filosofia è ripensare il concetto di agire per restituire al pensiero il legame con il mondo. Nella sua ultima produzione, La vita della mente (1978, postumo) e Teoria del giudizio politico (1982, postumo), Arendt indica come indispensabile, oltre all'azione, anche il giudizio, quale momento di sintesi fra pensiero e azione, capacità di leggere la situazione storico-politica e apertura di un dialogo con se stessi, il solo che allontana dal conformismo e dalla massificazione.