La deistituzionalizzazione

  • Introduzione

Introduzione

Le critiche nei confronti di quelle che vennero definite "istituzioni totali", sviluppatesi durante gli anni '60, ebbero il merito di diffondere un atteggiamento critico nei confronti di strutture (quali ospedali psichiatrici e riformatori) del cui operato la maggior parte della gente era abituata a rimanere all'oscuro. Così, a partire dagli anni '70 nei principali paesi europei si è assistito a un profondo cambiamento nella concezione e nell'organizzazione degli istituti di custodia. Buona parte dei malati mentali e dei portatori di handicap fisico è stata dimessa e si è cercato di sostituire i riformatori e le carceri minorili con strutture più flessibili inserite nell'ambiente sociale. In altre parole si è preso atto delle critiche secondo cui le case di rieducazione, così come le prigioni e gli ospedali psichiatrici, di fronte a individui dal comportamento deviante non ne favorivano il reinserimento, ma si limitavano a renderne manifesto il ruolo. In questo modo, trattando il soggetto come diverso si instaura un rapporto che, sosteneva lo psichiatra Franco Basaglia, non ha nulla di terapeutico, dato che perpetua l'oggettivazione del paziente, fonte essa stessa di regressione e di malattia. Nel caso dei malati mentali, i lunghi periodi di ospedalizzazione rendono infatti il paziente incapace di reinserimento nell'ambiente originario.

Gli individui vissuti a lungo all'interno di istituzioni totali (secondo la definizione di Goffman, luoghi di "residenza e di lavoro di gruppi di persone che ­ tagliate fuori dalla società... ­ si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato"), divengono essi stessi istituzionalizzati, ossia incapaci di concepire un modo di vita difforme da quello dell'istituzione. Il risultato dell'istituzione, invece della cura e della rieducazione, sarebbe pertanto quello di approfondire la discriminazione e il baratro tra individuo deviante e società.