Le opere giovanili

Scrittore italiano (Milano 1785-1873). Figlio di Pietro Manzoni, ricco possidente del contado di Lecco, e di Giulia Beccaria, figlia del giurista autore del famoso trattato Dei delitti e delle pene; sembra in realtà che Manzoni sia nato da una relazione della madre con Giovanni Verri, fratello dei celebri Alessandro, Pietro e Carlo. L'ipotesi non è accettata da tutti, ma il fatto è che, se anche Pietro Manzoni riconobbe quel figlio come suo, di lì a qualche anno si separò legalmente dalla moglie (1792). Manzoni iniziò gli studi a Merate, nel collegio dei padri somaschi, e li proseguì a Lugano, quindi (1798) a Milano nel Collegio dei Nobili tenuto dai barnabiti. Quindicenne, compiuti gli studi, tornò a vivere nella casa paterna dove la madre non c'era più, fuggita a Londra dopo la separazione, per convivere col conte Carlo Imbonati (lo stesso discepolo prediletto di Parini, al quale il poeta aveva dedicato l'ode L'educazione). Manzoni si dedicò alle sue prime composizioni poetiche, con le quali diede sfogo all'anticlericalismo come reazione all'ambiente chiuso e retrivo dei collegi (Il trionfo della libertà). Imitò Monti e mostrò le sue simpatie per gli ideali democratici e giacobini della Rivoluzione. Scrisse sonetti e idilli, il più maturo dei quali appare, tra gli altri convenzionali e retorici, Adda, del 1803: una doviziosa fantasia mitologica con molte descrizioni di paesaggi, che riappariranno più ampiamente svolte nel futuro romanzo. L'anno successivo terminò la stesura di quattro Sermoni: Amore a Delia, Contro i poetastri, Al Pagani, Panegirico a Trimalcione, composizioni satiriche, non prive di quel moralismo che fu in seguito la caratteristica di tutta la sua arte. Morto nel 1805 a Parigi Carlo Imbonati, Manzoni, che da poco aveva raggiunto la madre, riconquistò il suo affetto e scrisse il carme in 242 versi sciolti In morte di C. Imbonati, col quale manifestava le tesi di una morale laica destinate a diventare la premessa o almeno il complemento necessario delle sue future convinzioni religiose. Restò a Parigi fino al 1810, salvo brevi viaggi a Milano, come quando, dopo la morte del padre (1807), nominato erede universale, dovette recarvisi con la madre. Durante quell'estate incontrò a Blevio, sulle colline bergamasche, la sedicenne Enrichetta Blondel, figlia di un banchiere ginevrino, e l'anno seguente la sposò, lui ventiduenne, col rito calvinista, rispettando le convinzioni religiose di lei, ma suscitando uno scandalo nella società milanese. Con la madre e la sposa tornò allora a Parigi, dove riprese a frequentare alla “Maisonnette” di M.me Sophie Condorcet, le riunioni degli “ideologi”, ultimi rappresentanti dell'illuminismo repubblicano in tempo di reazione. Fu in questo periodo che probabilmente approfondì la conoscenza dei grandi moralisti e oratori francesi del Seicento: Pascal, Bossuet, Condillac; incontrò di nuovo il filosofo sensista Jean Georges Cabanis, e strinse una fraterna amicizia con il letterato Claude Fauriel: personaggi ambedue che tanto peso ebbero sulla sua formazione artistica; scrisse nel 1807 il mediocre poemetto mitologico Urania (pubblicato nel 1809).

Dagli Inni sacri al Cinque maggio

Intanto Enrichetta, che sotto la guida dell'abate genovese Eustachio Degola, giansenista, andava avvicinandosi al cattolicesimo e aveva fatto battezzare col rito romano la primogenita Giulia Claudia, riuscì a convincere il marito a ripetere il matrimonio col rito cattolico (febbraio 1810), dopo la propria pubblica abiura. Infine Manzoni si accostò con la moglie ai sacramenti della confessione e della comunione (dicembre 1810). Non si può tuttavia parlare di una vera e propria “conversione” di Manzoni, ma più esattamente di un ritorno alla fede dell'infanzia, di una lenta crisi che lo portò ad accettare con rinnovato fervore una soluzione ai problemi morali che lo tormentavano. A questo contribuirono, anche come preparazione all'intenso periodo di attività letteraria che Manzoni dispiegò nell'arco dei successivi quindici anni, i frequenti “ritiri” nella villa di Brusuglio, avuta in eredità da Imbonati, dopo il definitivo ritorno a Milano, e soprattutto le meditazioni che gli servirono ad approfondire i temi dell'impegno religioso, sotto la direzione spirituale di monsignor Luigi Tosi. Tra il 1812 e il 1815, Manzoni si dedicò alla stesura dei primi quattro Inni sacri (La Resurrezione, Il Nome di Maria, Il Natale, La Passione), dopo il ripudio di tutte le opere scritte prima della “conversione” e da lui definite delicta iuventutis. Soltanto nel 1822 portò a termine il quinto inno, La Pentecoste, dei dodici che in origine aveva pensato di scrivere, corrispondenti alle grandi feste dell'anno liturgico. Nei primi quattro Manzoni non riesce a trasformare in vera poesia l'emozione dell'animo di fronte ai misteri della religione abbandonandosi ora all'enfasi, ora alla fredda riflessione, ora alla retorica; soltanto ne La Pentecoste la religione è sentita e celebrata come strumento di solidarietà umana, incontro del divino con l'umano in un'intonazione corale che è preludio al mondo de I promessi sposi. Nel 1816 Manzoni cominciò la stesura della tragedia Il conte di Carmagnola, portata a termine e pubblicata nel 1820 con una dedica a Fauriel, nella quale manifestava la sua idea sul teatro, ulteriormente ampliata nelle Notizie storiche, oltre che nella Lettre à M. Chauvet sur l'unité de temps et de lieu dans la tragédie, del 1820, e nel Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, pubblicato insieme all'Adelchi nel 1822. L'idea di Manzoni è che il teatro debba essere un “mezzo potente di miglioramento” del popolo e che i fatti storici debbano essere rispettati nello spirito e nei particolari, se non si vuol mettere in gioco la moralità e la serietà dell'opera. In queste diverse occasioni, Manzoni affrontò anche il problema dell'unità di tempo, di luogo e di azione, mostrando la necessità di abolire le prime due, come avevano già fatto Shakespeare, Goethe e Schiller, per ottenere un'originalità non asservita a schemi classici. Manzoni volle tuttavia conservare i cori, come efficace commento all'azione drammatica, per consentire all'autore “uno slancio più lirico, più variato e più fantastico”, e far sì che le opere fossero anche “destinate alla lettura”, senza eccessive preoccupazioni per la loro destinazione alle scene. La critica ha rimproverato a Il conte di Carmagnola una mancanza di teatralità, ma nel protagonista già s'intravvede la struttura dei grandi personaggi manzoniani: il Carmagnola è, come Napoleone, Ermengarda, l'Innominato, un potente, redento dalla sventura. Adelchi, dedicata alla moglie, è certamente migliore. C'era stato nel frattempo un ripensamento del Manzoni – ispirato da Fauriel – sul rapporto fra storia e poesia, specialmente su quella “nuova” poesia romantica che, essendo di natura e di argomento popolari, poteva raccogliere una partecipazione e un interesse più ampi nel pubblico. L'argomento è tratto dalle storie longobarde, “una favola di tempi barbari stupendamente ingentilita” (C. Angelini). Anche qui la storia serve al Manzoni per “conoscere i veri pensieri attraverso i quali gli uomini giungono a commettere una grande ingiustizia” e a mettere in risalto la Provvidenza divina che, attraverso le ingiustizie e le sventure, porta le innocenti vittime a insospettate grandezze: la “provvida sventura” di un verso famoso dell'Adelchi, tema ricorrente del Carmagnola, dell'ode Cinque maggio e de I promessi sposi. E fu la fede nella Provvidenza e in una vita futura, di cui questa è solo preparazione, che permise a Manzoni di superare la concezione pessimistica della vita e del mondo che egli acquisì, non diversa da quella di Foscolo e di Leopardi. Tra il 1818 e il 1819, Manzoni compose le Osservazioni sulla morale cattolica, per confutare le accuse dello storico ginevrino Jean Charles Leonard de Sismondi contro l'influenza della Chiesa, causa prima della corruzione degli Italiani. Manzoni volle dimostrare “che la morale cattolica è la sola morale santa e ragionata in ogni sua parte; che ogni corruttela viene anzi dal trasgredirla, dal non conoscerla, o dall'interpretarla alla rovescia; che è impossibile trovare contro di essa un argomento valido”. Nel suo libretto, Manzoni cercò di conciliare col pensiero contemporaneo dogmatica e morale cristiana, usando una logica rigorosa e un'analisi che rispecchiava, oltre che una solida dottrina, anche una sincera convinzione: fra l'altro egli metteva a tacere tutte le accuse di giansenismo che avrebbero potuto rivolgergli: “È cosa orribile il non amare quelli che Dio ha predestinati alla sua gloria; ed è giudizio della più rea e stolta temerità, l'affermare di alcun vivente che non lo sia, l'escludere anche uno solo dalla speranza nelle ricchezze della misericordia divina”. C'è se mai da dire che Sismondi non aveva attaccato la morale cattolica, bensì la Chiesa intesa come istituzione storica. Nel 1814 Manzoni aveva scritto l'ode civile Aprile 1814 e l'anno successivo Il proclama di Rimini, rimasta allo stato di frammento, con le quali manifestava le sue idee politiche e patriottiche; nel 1821 scrisse Marzo 1821 e Cinque maggio, per la prima prendendo spunto dai moti piemontesi: trascinato anch'egli dall'entusiasmo, prima che la reazione austriaca rendesse vane le speranze dei liberali, stese quasi di getto l'ode che sarebbe stata però pubblicata dopo le Cinque Giornate, nel 1848, forse con qualche aggiunta e con la dedica al patriota tedesco Teodoro Körner morto nella battaglia di Lipsia, “nome caro a tutti i popoli che combattono per difendere e per riconquistare una patria”. Il Cinque maggio, più che un'ode civile e politica, si può considerare un'ode d'ispirazione religiosa. Manzoni la scrisse in tre giorni, dal 17 al 19 luglio 1821, appena qualcuno portò a Brusuglio la notizia della morte di Napoleone. “La storia, questa cospirazione divina nei fatti umani, non ha mai avuto in poesia un'interpretazione religiosa così profonda come quest'epica in settenari” (C. Angelini). L'ode ebbe 27 traduzioni, Goethe la tradusse in tedesco, ed è rimasta, nella considerazione di storici e critici, la cosa migliore che sia mai stata scritta su Napoleone, veduto come un gigante assiso fra “due secoli l'un contro l'altro armato”, abbandonato dalla gloria terrena e dagli uomini e consolato dalla vicinanza di Dio, suo esaltatore e suo vincitore.

Dal Fermo e Lucia alla seconda edizione dei Promessi sposi

Dal 24 aprile di quello stesso anno 1821, Manzoni aveva iniziato a Brusuglio la prima stesura del romanzo storico Fermo e Lucia (che in questa versione fu pubblicato come curiosità filologica solo nel 1954). Se Manzoni nell'affrontare questo genere letterario rispondeva a un gusto allora imperante sulla traccia del successo dei romanzi di W. Scott, altri e più profondi motivi, di natura artistica e morale, maturarono la genesi dell'opera. Infatti fin dal tempo del superamento della sua crisi spirituale e come conseguenza di essa, Manzoni aveva rifiutato il principio dell'arte per l'arte, contrapponendovi quello di un'arte utile e volta a fini morali, educativi e religiosi; di un'arte accessibile a tutti, patrimonio dei più umili, rispecchiante la realtà della vita. Infine, nel 1816 con l'ode scherzosa L'ira d'Apollo per la lettera semiseria di Grisostomo e più ancora con la lettera Sul romanticismo (1823) indirizzata al marchese Cesare Taparelli d'Azeglio, Manzoni mostrò di aver accolte le nuove dottrine romantiche, rifiutando l'imitazione dei classici (ma non negandone lo studio), e riconoscendone gli elementi positivi contro coloro che vi vedevano “non so qual guazzabuglio di streghe, di spettri, un disordine sistematico, una ricerca stravagante”. Difendendo insomma il principio fondamentale di una letteratura che avesse “l'utile per iscopo, il vero per soggetto, l'interessante per mezzo”, anche se poi tornò sopra a questi concetti che si erano dimostrati di non facile applicazione. E tanto più accettò le dottrine romantiche, perché sentì che i loro principi si conciliavano col cristianesimo. Per questo scelse il romanzo che con una trama “fantastica” traesse origine da una realtà storica. Col nuovo titolo I promessi sposi. Storia milanese del sec. XVII scoperta e rifatta da A. Manzoni (ripudiato all'ultimo momento l'altro, Gli sposi promessi), il romanzo in tre volumi uscì nel 1827 (la cosiddetta “ventisettana”), dopo che dal 1824 al 1826 Manzoni aveva lavorato a ridurlo in linee più essenziali, perfezionando la sua documentazione storica, tentando di eliminare le difficoltà di carattere linguistico e quelle strutturali, per cui la prima stesura appariva priva di omogeneità e la tensione narrativa era appesantita da troppi indugi moralistici e didascalici, oppure da lunghe digressioni storiche estranee alla vicenda (storia della monaca di Monza, dei processi agli untori, del conte del Sagrato, divenuto l'Innominato, ecc.). Raggiunta la celebrità, Manzoni riceveva nella sua casa di via del Morone i maggiori esponenti della cultura romantica milanese: Ermes Visconti, Tommaso Grossi, Giovanni Berchet, Carlo Porta, mantenendo vivo, anche dopo la soppressione de Il Conciliatore, voluta con determinazione dalla censura austriaca, il suo impegno di scrittore compartecipe delle ansie e delle contraddittorie istanze dei suoi connazionali, diventandone anzi l'interprete principale proprio attraverso il romanzo che andava lentamente componendo, ostacolato da frequenti malattie (soffriva anche di attacchi epilettici), da piccole e grandi manie e da difficoltà d'ogni genere. In quello stesso anno 1827, Manzoni, scontento, si recò a Firenze per dedicarsi a una scrupolosa revisione linguistica del romanzo. Già nel 1806 aveva scritto a Fauriel: “Per nostra sventura, lo stato dell'Italia divisa in frammenti, la pigrizia e l'ignoranza quasi generale hanno posta tanta distanza tra la lingua parlata e la scritta, che questa può dirsi quasi lingua morta. Ed è perciò che gli scrittori non possono produrre l'effetto che eglino (m'intendo i buoni) si propongono, d'erudire cioè la moltitudine, e di rendere in questo modo le cose un po' più come dovrebbero essere”. Per liberarsi da un tipo di lingua ancora troppo legata a quella “morta” dei puristi, pensò che il fiorentino dei “ben parlanti” potesse fare al caso e si avvalse dell'aiuto di alcuni amici: il drammaturgo G. B. Niccolini, il medico G. Cioni, Emilia Luti, che portò con sé a Milano come istitutrice delle figlie, e altri. A Firenze incontrò inoltre il gruppo dei liberali che collaboravano all'Antologia di Giovan Pietro Vieusseux e conobbe anche Giordani e Leopardi, verso il quale si mostrò stranamente freddo. In questo periodo di intensa attività, una bufera di lutti si abbatté sulla casa di Manzoni: nel 1833 morì Enrichetta, dalla quale aveva avuto dieci figli; poi la primogenita Giulia, andata sposa a Massimo d'Azeglio, poi altre figlie e la madre. Nel 1837 sposò in seconde nozze Teresa Borri, vedova del conte Decio Stampa. La seconda edizione del romanzo (la “quarantana”) si cominciò a pubblicare a dispense dal 1840, con le illustrazioni di Gonin e di Riccardi; in appendice fu aggiunta la Storia della colonna infame. La pubblicazione terminò nel 1842: il romanzo ottenne numerosi e autorevoli riconoscimenti anche dagli stranieri: Chateaubriand assegnò la priorità a Manzoni su W. Scott, lo lodarono Comte, Villemain, Lamartine, Stendhal, Sainte-Beuve; fu tradotto in tutte le principali lingue europee.

La fortuna critica dei Promessi sposi

La fortuna critica del romanzo ha conosciuto una stagione particolarmente propizia, che ha avuto riscontro anche all'estero. Dissipatosi l'equivoco (sorto da un giudizio di G. Scalvini e ripreso da Croce in un primo tempo) che aveva ristretto l'opera manzoniana entro gli angusti confini dell'“oratoria”, negandole il carattere di “poesia”, si è riconosciuta la strettissima interdipendenza, ne I promessi sposi, tra l'ideologia e l'invenzione letteraria. Tuttavia, si ripresenta periodicamente nei critici di orientamento ideologico opposto al cattolicesimo di Manzoni il sospetto che l'ideologia cattolica abbia impedito a I promessi sposi di divenire un grande romanzo, specie se posto a confronto con l'opera narrativa di un Tolstoj. Si tratta però di un errore di prospettiva storica: non si deve dimenticare che Manzoni, “sull'ardua via del romanzo, non aveva pressoché nulla di esemplare a cui riferirsi, e non solo in Italia ma anche all'estero, e che egli è, in ordine di tempo, il primo grande innovatore della tradizione romanzesca settecentesca e il primo creatore di una nuova forma di narrativa moderna” (Caretti). Negli anni di stesura del romanzo, dal 1821 al 1825, Manzoni non aveva infatti a disposizione niente altro che il romanzo francese del Settecento e W. Scott; e, quanto a Tolstoj, doveva seguire a mezzo secolo di distanza, avvantaggiandosi di una splendida tradizione romanzesca, da Stendhal a Balzac, e dei fermenti di rinnovamento dei pensatori democratici della Russia ottocentesca. Il momento creativo manzoniano, che si inserisce nel decennio 1815-25, coincide invece ancora, in Italia, con la fase di trapasso dall'ottimismo illuministico alla presa di coscienza delle grandi idee democratiche: a una concezione della storia ancora dominata dai grandi personaggi subentra così, con il romanzo manzoniano, una ben diversa prospettiva, secondo cui gli uomini di “piccol affare” divengono protagonisti della storia. A questo sentimento di etica democratica si adeguano le forme espressive: l'ingresso degli “umili” nell'area sociologica del romanzo si accompagna con la liquidazione delle istituzioni retoriche e linguistiche del passato e con l'invenzione di una prosa narrativa moderna, che segna il passaggio da una letteratura d'élite a una letteratura popolare e nazionale.

Saggi e discorsi

Conclusosi, con la seconda edizione del romanzo, il più felice periodo creativo, nell'ultimo periodo Manzoni si dedicò all'elaborazione di diversi saggi e discorsi di carattere storico e letterario, oltre a quelli già citati: Del romanzo e in genere de' componimenti misti di storia e d'invenzione (1845), col quale si dichiarava contrario a mettere insieme il vero e il verosimile, e quindi indirettamente criticava anche le sue tragedie e il romanzo; il dialogo Dell'invenzione (1850) nel quale rielaborava alcuni concetti del Rosmini; il Saggio comparativo sulla rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859 (1868) rimasto incompiuto. Molti gli scritti sul problema della lingua: una raccolta di piccoli saggi e relazioni, scritti tra il 1835 e il 1836, fu pubblicata postuma nel 1923 col titolo Sentir messa; poi, in ordine di tempo, la lettera a Giacinto CarenaSulla lingua italiana (1845); la relazione al ministro BroglioDell'unità della lingua e dei mezzi di diffonderla (1868) con un'Appendice (1869), le due lettere a BonghiIntorno al libro “De vulgari eloquio” di Dante e Intorno al vocabolario (1868) e la Lettera al marchese Alfonso della Valle di Casanova (1871). Nel 1861 fu nominato senatore del nuovo regno (nel 1859 aveva ricevuto la visita di Cavour e di Garibaldi) e a Torino partecipò alla seduta durante la quale Roma fu proclamata capitale d'Italia (anche Manzoni votò contro il potere temporale dei papi). L'anno seguente ebbe la presidenza della commissione per l'unificazione della lingua e nel 1872 ricevette la cittadinanza romana in riconoscimento di quanto aveva fatto per la causa dell'unità nazionale. Dopo una caduta, che gli procurò gravi sofferenze per due mesi, si spense a 88 anni nella casa di via del Morone. Nell'anniversario della morte, Giuseppe Verdi gli dedicò la sua Messa da Requiem.

Bibliografia

A. Momigliano, Alessandro Manzoni, Messina-Milano, 1948; D. Chiomenti Vassalli, Giulia Beccaria, la madre del Manzoni, Milano, 1956; T. Gallarati Scotti, La giovinezza del Manzoni, Milano, 1959; A. Caglio, Nel cerchio dei Manzoni e dei Giorgini, Palermo, 1966; Guglielmo Alberti, Alessandro Manzoni, in Autori Vari, Storia della letteratura italiana, vol. VII, L'Ottocento, Milano, 1969; L. Russo, I personaggi dei Promessi sposi, Bari, 1969; L. Caretti, Ideologia e stile, Torino, 1972; A. C. Jemolo, Il dramma di Manzoni, Milano, 1973; P. Fossi, La conversione di Alessandro Manzoni, Firenze, 1974; C. Bo, La verità degli umili, Urbino, 1990.

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