Biografia

Drammaturgo e poeta inglese (Stratford-on-Avon 1564-1616). Terzo degli otto figli di John Shakespeare (membro della corporazione dei pellai e guantai di Stratford e sindaco della cittadina nel 1568) e di Mary Arden, frequentò per qualche tempo – finché i rovesci finanziari del padre non lo obbligarono a interrompere gli studi – la grammar school locale e nel 1582 sposò Anne Hathaway, di otto anni più anziana di lui, che gli diede tre figli. Una tradizione lo vuole quindi maestro di scuola, ma di sicuro si sa solo che, abbandonata Stratford e la famiglia, nel 1592 si trovava a Londra a fare l'attore e il drammaturgo, come risulta da due passi contemporanei, uno di R. Greene che lo attacca, definendolo “un villan rifatto di corvo, abbellitosi con le nostre penne”, e l'altro di H. Chettle che lo difende, dichiarandolo artista meritevole della stima accordatagli da uomini di rango. Tra questi figurava anche il conte di Southampton che, a giudicare dalla dedica dei poemetti Venus and Adonis (1593; Venere e Adone) e The Rape of Lucrece (1594; Lucrezia violata), deve essere stato per un certo periodo suo patrono nonché – come vogliono gli studiosi che identificano in lui il “giovane amico” dei Sonetti – fortunato rivale in amore. Gli anni dei poemetti potrebbero anche coincidere, data la concomitante disorganizzazione dei teatri per un'epidemia di peste, con un soggiorno di Shakespeare in Italia, poiché molti dei drammi composti negli anni successivi mostrano una certa dimestichezza con la scena italiana. Comunque sia, nel 1595, forse per intervento del conte di Southampton, Shakespeare divenne azionista dei “Lord Chamberlain's Men”, una delle più note compagnie drammatiche dell'epoca. Il sodalizio fu duraturo ed estremamente fruttifero per Shakespeare anche economicamente, considerate le numerose testimonianze d'archivio che parlano, a partire dal 1597, di acquisti di case e proprietà a Londra e a Stratford. Intorno al 1599 il riferimento di un contemporaneo lo dimostra coinvolto nella “guerra dei teatri”, ma a parte ciò e la congetturata partecipazione alla congiura del conte di Essex (1601), i dati biografici continuano a essere molto scarsi e dal 1603 il suo nome non figura nemmeno più negli elenchi degli attori, circostanza indicativa, se non altro, di una raggiunta prosperità. Conseguenza di questa fu, verso il 1610, il ritorno a Stratford, che si prolungò, in un clima di pace e tranquillità e pur con frequenti visite a Londra, fino alla morte, avvenuta il 23 aprile 1616. Aveva smesso di scrivere per il teatro intorno al 1613.

Le opere: generalità

Se documenti e archivi sono avari di notizie biografiche, non molto più illuminanti sono le opere, e invano vi si cercherebbe un'indicazione precisa sulle circostanze dell'uomo. Tutto ciò che ci è dato di apprendere è che dopo un periodo di generale spensieratezza egli attraversò una fase di turbamento e di sconforto per poi approdare a una visione di serena e matura accettazione, ma al di là di questo Shakespeare, drammaturgo e poeta, rimane un mistero impenetrabile e il distacco tra artista e opera d'arte è netto e completo. Di arte vera non è ancora il caso di parlare a proposito dei poemetti giovanili Venus and Adonis e The Rape of Lucrece: ispirati a vicende mitologiche e pseudo-storiche, essi rappresentano più che altro il pedaggio di un esordiente alla moda rinascimentale del poemetto licenzioso e manieristico. Ben altra validità hanno i 154 Sonetti pubblicati nel 1609 (ma composti già prima della fine del secolo), che costituiscono uno dei massimi canzonieri di ogni tempo. Dedicati a un mai identificato Mr. W. H., si possono dividere in due gruppi distinti, secondo che siano indirizzati a un non meglio definito “giovane amico” (la maggioranza) o a una misteriosa “dama bruna” (una trentina). Tra questi due personaggi, che il poeta ama in maniera diversa – il legame con il “giovane amico” è soprattutto, ma non sempre, di carattere idealistico-platonico, e quello con la “dama bruna” nettamente passionale – nasce una relazione i cui sviluppi lo sconvolgono profondamente. La diversità dei sentimenti si riflette sulle caratteristiche dei due gruppi: il primo, articolato su una sottile varietà di temi e motivi (professioni di amicizia, promesse di immortalità nella dimensione eterna dell'arte, sfoghi di gelosia perché gli viene preferito un “poeta rivale” ecc.), partecipa di modi espressivi in cui la nota personale si fonde con le forme della convenzione poetica vivificandone le immagini e lo stile; il secondo, meno aperto a variazioni tematiche, è invece più vibrante di umana passione, soprattutto nel linguaggio, che raggiunge vertici di inusitata franchezza. Al di là delle differenze regna però su tutti la magia irripetibile di un'altissima poesia. Nella produzione lirica shakespeariana si include generalmente anche l'oscuro, e forse apocrifo, poemetto allegorico The Phoenix and the Turtle (1601; La fenice e la tortora). L'opera drammatica comprende trentasette tra commedie, tragedie e drammi storici. Benché la datazione dei singoli drammi sia tutt'altro che sicura – diciotto apparvero in spesso poco attendibili edizioni in-quarto mentre Shakespeare era ancora in vita, trentasei furono riuniti nel cosiddetto First Folio dagli attori Heminges e Condell nel 1623 e un ultimo, il Pericles, fu riconosciuto come suo soltanto più tardi – la critica è più o meno concorde nel dividerli in quattro grandi periodi.

Le opere: il primo periodo

Nel primo periodo, o dell'apprendistato (1590-95 ca.), Shakespeare è impegnato in una serie di tentativi sperimentali nelle forme allora più in voga, come il dramma-cronaca, la tragedia di vendetta di derivazione senechiana, la commedia plautina, la farsa, la commedia cortese e così via: spesso risultato di una collaborazione con altri scrittori, questi primi drammi sono caratterizzati da una certa sproporzione tra lo splendore della veste verbale e la tenuità del sostrato tematico. Al filone senechiano appartiene Titus Andronicus (ca. 1590; Tito Andronico), acerba tragedia di orrori e di sangue ambientata nella Roma imperiale, che sfrutta il gusto popolare per il macabro e l'orripilante in una successione impressionante di delitti e violenze d'ogni genere. Anche la commedia The Taming of the Shrew (ca. 1594; La bisbetica domata) è opera immatura e di carattere popolaresco, specie nell'intreccio principale, che sviluppa in toni robustamente farseschi il motivo della pettegola ridotta alla ragione da un corteggiatore energico e virile. Di derivazione latina è The Comedy of Errors (ca. 1592-93; La commedia degli equivoci), che ricalca il modello dei Menecmi di Plauto, complicandone l'intreccio con l'aggiunta di una seconda coppia di gemelli. Si tratta di un dramma di scarso interesse, e lo stesso vale per The Two Gentlemen of Verona (ca. 1593-94; I due gentiluomini di Verona), pallido tentativo di commedia cortese imperniato sul motivo di due amici fraterni che si innamorano della stessa donna. Più valida, almeno dal punto di vista del linguaggio, che sfrutta, tra il serio e l'ironico, le raffinatezze dello stile eufuistico, è Love's Labour's Lost (1594-95; Pene d'amore perdute), commedia dall'intreccio molto tenue e destinata a un pubblico di cortigiani. Le tre parti di Henry VI (1589-91; Enrico VI), tratte, come le altre opere di argomento affine, dalla Cronaca di Holinshed e costituite da una successione di scene prive di un centro drammatico, appartengono alla tradizione del dramma-cronaca e non presentano qualità di rilievo. Confuse e frammentarie, non riescono a comunicare quell'esigenza di un ordine civile, politico e morale che viene invece affermata in Richard III (ca. 1593; Riccardo III). Questo dramma, che conclude la prima tetralogia ispirata alla storia inglese, muove già verso le forme del vero dramma storico, presentandoci, nella figura del torvo e machiavellico usurpatore, un protagonista in grado di offrire coesione allo sviluppo dell'azione e di incarnare con la sua sconfitta quella nemesi che la concezione elisabettiana vedeva destinata ad abbattersi su sovvertitori e violatori. A cavallo tra la fase dell'apprendistato e quella successiva si colloca la tragedia romantica Romeo and Juliet (1591 o 1595; Giulietta e Romeo). Derivata da fonti italiane, questa celeberrima storia di amore e di morte è caratterizzata da un'intensissima carica lirica e da un linguaggio a tratti persino troppo prezioso, ma non riesce ad assurgere a vera dignità tragica perché la fine dei due innamorati avviene più per circostanze accidentali che a causa di un'intima necessità e perché lo spirito che la pervade è quello, tutt'altro che tragico, di un giovanile inno alla vita e all'amore.

Le opere: le commedie romantiche del secondo periodo

Al secondo periodo (1595-99) appartengono le commedie romantiche e i grandi drammi storici. Shakespeare vi si avvicina con mano sicura e in possesso di una tecnica altamente perfezionata: complessità di pensiero, ricchezza immaginativa e varietà di stili si fondono in una sintesi che si fa sempre più matura e profonda, anche se le commedie continuano a riflettere una visione gaia della vita e i drammi storici a partecipare di un esuberante entusiasmo patriottico. Non scevro di zone d'ombra è comunque The Merchant of Venice (ca. 1594-96; Il mercante di Venezia): imperniato sulla vicenda della libbra di carne che l'ebreo Shylock pretende dal mercante Antonio come rimborso di un prestito in denaro, e del corteggiamento della bella Porzia da parte di Bassanio, il dramma risulta perfettamente compatto dal punto di vista dell'intreccio ma non altrettanto da quello tonale; la malinconia di Antonio e la tormentata complessità di Shylock fanno fatica a fondersi con l'atmosfera fiabesca del resto della vicenda, che rimane perciò sospesa tra commedia romantica e tragedia. In bilico tra il mondo della fiaba e quello ugualmente magico dell'amore giovanile e irresponsabile è invece A Midsummer-night's Dream (ca. 1595; Sogno di una notte di mezza estate). Ambientata nell'incanto di un bosco ateniese popolato da fate e folletti che coinvolgono nei loro litigi amorosi due coppie di innamorati-rivali e un gruppo di villici intenti a provare un dramma da recitare per le nozze di Teseo e Ippolita, la commedia si snoda con ritmi di balletto, svolgendo e avviluppando i fili dei vari intrecci in un gioco di effetti fantastici che la rendono la più festosa tra le opere di Shakespeare. Di ambientazione cortigiana e perciò di carattere diverso, anche Much Ado about Nothing (1598-99; Molto rumore per nulla) è commedia effervescente e vivace, specie nel brio dei dialoghi che punteggiano la tenzone amorosa di Benedetto e Beatrice, spiriti brillanti e arguti che si nascondono i reciproci sentimenti dietro uno schermo di battute pungenti e mordaci. Se farsa pura è la contemporanea The Merry Wives of Windsor (1600-01; Le allegre comari di Windsor), opera minore incentrata sulla figura del cavaliere Falstaff innamorato e beffeggiato, all'amore gentile si ritorna con As You Like It (ca. 1599; Come vi garba), che tratta il tema del contrasto tra l'artificiosità della corte e la magia purificatrice della natura. Vi si narra la vicenda di un gruppo di personaggi costretti dall'inganno e dal tradimento a cercare rifugio nella foresta di Arden, la cui idillica bellezza li induce a una vita di tranquilla serenità che raggiunge il suo culmine nel felice scioglimento di alcuni intrecci amorosi e nella conversione dei malvagi, anch'essi toccati dall'incanto rigeneratore della foresta. Costellata di leggiadre canzoni e variegata dalla presenza di una vena di corposa comicità e di personaggi dalla caratterizzazione indimenticabile (soprattutto il solitario Jacques, la cui enigmatica malinconia fa un po' da correttivo alla spensieratezza dell'arcadia), questa deliziosa commedia può considerarsi il primo vero capolavoro del drammaturgo. Più o meno sullo stesso livello è The Twelfth Night or What You Will (ca. 1599; La dodicesima notte), derivata da un dramma italiano. Si tratta di una commedia spumeggiante, il cui intreccio riprende motivi di lavori precedenti (ci sono naufragi, coppie di gemelli, ragazze che si vestono di panni maschili, scambi di persona), fondendoli in una magistrale ricapitolazione in cui episodi di irresistibile comicità si succedono a momenti di musicale malinconia e pause romantiche attenuano l'effervescenza di situazioni chiassosamente satiriche. Famoso è rimasto il personaggio di Malvolio, il maggiordomo puritano e vanesio vittima delle beffe crudeli di alcuni scapestrati buontemponi.

Le opere: i drammi storici del secondo periodo

Con l'eccezione di King John (1596-97) che tratta di un lontano conflitto tra monarchia e papato, i drammi storici di questo periodo (la seconda tetralogia) si riferiscono agli avvenimenti che precedettero le guerre civili della prima tetralogia, interpretati, al pari di quelle, in chiave etico-religiosa e finalistica, e cioè come preparazione all'aureo periodo Tudor. Richard II (ca. 1595; Riccardo II) ci mostra così la deposizione di quel re – monarca per diritto divino – da parte di Enrico IV Bolingbroke: ma se l'atto è presentato come sovvertimento dell'ordine cosmico, il dramma ha un interesse che supera il semplice intento didascalico, e nel contrasto tra le personalità dei due avversari (ieratica, lirica e ritualistica quella del debole Riccardo, aggressiva, pratica e vigorosa quella dell'uomo nuovo Bolingbroke) adombra il trapasso dall'Inghilterra medievale a quella moderna. Di questa il successivo Henry IV (1597-98, in due parti; Enrico IV) ci dà un quadro vivacissimo nella vicenda – il capolavoro dell'arte comica di Shakespeare – che si accentra sull'immortale figura di Falstaff, il grasso e scapestrato mariolo della cui banda fa parte anche lo scapigliato principe Hal. È costui il trait-d'union con l'altro intreccio del dramma, quello storico-politico, che vede Enrico alle prese con i disordini intestini causati dall'usurpazione. Il sodalizio con Falstaff (che alla fine viene rinnegato: i suoi difetti gli conferiscono genuinità e simpatia sul piano umano ma non su quello etico-storico) è necessario a Hal per acquistare quelle doti di responsabilità sociale e morale che, unite alle virtù politiche e militari di cui dà prova sconfiggendo i ribelli, faranno di lui il re ideale di Henry V (1599; Enrico V). In questo dramma, ricco di afflato epico e patriottico e celebrante la vittoria di Azincourt, Shakespeare si scosta però dalla rigidità della sua visione e, sospendendo la nemesi, concede più libero gioco alla personalità individuale dei personaggi, avviandosi così verso le indagini e la problematica delle grandi tragedie. A metà tra queste e i drammi storici – e a cavallo tra il secondo e il terzo periodo dell'opera drammatica – è la tragedia Julius Caesar (1599; Giulio Cesare), tratta, come i drammi romani che seguiranno, da Plutarco. Alle prese con un materiale meno rigidamente codificato e favorito dall'esistenza di una duplice interpretazione di Bruto – assassino e traditore per il Medioevo e tirannicida per il Rinascimento – Shakespeare ha modo, pur mantenendo immutato lo sfondo ormai tradizionale del disordine come conseguenza del rovesciamento dell'autorità, di esplorare la complessità morale dell'individuo che agisce nella storia: dibattuto tra l'intransigenza del suo idealismo e il dubbio sulla giustezza e l'efficacia pratica della sua azione, Bruto compie la sua scelta e uccide Cesare, il possibile tiranno. L'individuo in tal modo influisce sulla storia, che diventa essa stessa problema e può, come nel caso appunto di Bruto sconfitto dall'opportunista Antonio, ritorcersi contro di lui e condannarlo.

Le opere: le grandi tragedie del terzo periodo

Nel terzo periodo, o periodo delle grandi tragedie e delle commedie amare (1599-1608 ca.), l'indagine shakespeariana si allontana dal piano della storia, che pure l'ha propiziata, e si concentra su quello individuale. Lasciatosi alle spalle il senso di un universo ordinato e benefico e sprofondato nell'abisso di una visione profondamente pessimistica – indubbiamente parte di una crisi più generale, collegata a fattori quali il sorgere della nuova scienza, l'inasprirsi dei conflitti religiosi e la fine della dinastia Tudor – il drammaturgo, ora al culmine della sua maturità artistica, ci presenta in note cupe e possenti il quadro di un'umanità alla deriva in mezzo allo scatenarsi delle forze del male. Lacerati nel loro intimo da passioni contrastanti e incapaci di affermare una visione morale coerente, i protagonisti di questi drammi – in cui lo stesso linguaggio è violentato dalla prepotenza di emozioni che si esprimono in immagini di straordinaria e allusiva complessità – riflettono nelle loro tragedie l'apprensione di catastrofi di portata metafisica. In una situazione di questo genere si trova Amleto, principe di Danimarca ed eroe della tragedia omonima (Hamlet, ca. 1600), basata su un'antica leggenda scandinava. Già turbato per il disordine che regna nel Paese e che ancora non sa essere il riflesso del sovvertimento morale che ha portato lo zio Claudio ad assassinargli il padre onde usurparne il trono e sposarne la vedova Gertrude, egli vede crescere il suo disorientamento quando lo spettro del vecchio re gli svela l'accaduto e gli impone di vendicarlo. Dubbi sulla verità della rivelazione ma soprattutto sull'efficacia di ogni forma d'azione in un mondo decaduto e corrotto gli fanno procrastinare il castigo e meditare il suicidio, finché, costretto da ultimo ad agire, provoca, oltre che la propria, la morte di colpevoli e innocenti (tra cui Ofelia, sua promessa sposa). Incerto, forse, nella struttura e aperto ai giudizi e alle interpretazioni più contrastanti, il dramma rimane comunque l'espressione di una visione in cui predominano amarezza, delusione e smarrimento di fronte al male esistenziale. Dramma passionale per eccellenza, anche Othello (1604; Otello) – la celeberrima storia del Moro di Venezia che, accecato dalla gelosia e dalle menzogne di Iago, uccide l'ingiustamente calunniata Desdemona – è tragedia che investe sia l'individuo (il nobile ma troppo poco accorto Otello) sia l'essenza stessa delle cose, sconvolta da potenze tenebrose di cui Iago, che agisce all'inizio per vendetta ma poi per puro gusto del male per il male, è la diabolica incarnazione. Nel poderoso Macbeth (1605-06) l'intelligenza malefica che si scatena ha le sembianze delle tre streghe (in parte anche una proiezione delle passioni del protagonista) che con equivoche promesse inducono l'ambizioso generale a commettere, dapprima con l'appoggio e l'istigazione della moglie, i delitti più raccapriccianti onde impossessarsi della corona di Scozia. Perseguitato dal rimorso e da orrende visioni, mentre la moglie, all'inizio più forte, finisce folle e suicida, Macbeth ritrova da ultimo il coraggio della disperazione e affronta con sinistra determinazione l'inevitabile nemesi, che non potrà comunque cancellare il male che è stato commesso. In King Lear (ca. 1606; Re Lear), malvagità e perfidia dominano sovrane. Diviso il regno tra due figlie e rinnegata la terza, Cordelia, che la presunzione gli impedisce di riconoscere come la più sinceramente attaccata a lui, il vecchio Lear è respinto dall'ingratitudine delle beneficiate e ridotto a vagare per la brughiera sotto l'infuriare degli elementi scatenati. Folgorato dalla rivelazione della crudeltà dell'uomo e della natura e della propria insignificante futilità di fronte al generale disordine, ne ha la mente sconvolta e perde la ragione. La riacquista brevemente soltanto per assistere alla morte dell'innocente Cordelia, uccisa proprio mentre le forze del bene hanno il sopravvento: il cuore non gli regge e muore di dolore. Il destino è beffardo e spietato, l'umanità nasconde abissi di ferocia, le tenebre del caos e della follia si accaniscono su buoni e malvagi ugualmente: nella più tremenda delle grandi tragedie, culmine del pessimismo shakespeariano, il cataclisma è cosmico e metafisico. Su arie più respirabili si libra la tragedia successiva Antony and Cleopatra (1606; Antonio e Cleopatra), in cui il motivo individuale della caduta di Antonio è connesso, tramite il personaggio di Cleopatra, con il motivo storico del conflitto tra lui e Ottaviano per il dominio del mondo antico. Dotato di struttura ariosa e di una straordinaria carica lirica, questo dramma, grandioso come lo sfondo su cui si svolge, riesce a conciliare la condanna degli amanti sul piano storico e morale con l'esaltazione del loro amore quale superamento di valori materiali e proiezione verso l'assoluto. Con Coriolanus (1607-08; Coriolano), ultimo dei drammi romani, Shakespeare procede ancora più a ritroso nel tempo per presentare, in toni questa volta di sobrio e pacato equilibrio, un'altra potente visione d'assieme, quella delle lotte tra patrizi e plebei, dalla quale si stacca con statuario rilievo l'orgogliosa figura del generale romano traditore. Di interesse molto minore è la tragedia che conclude il periodo, Timon of Athens (1607-08; Timone di Atene), che ripropone nel personaggio del solitario e misantropo protagonista un quadro cupo e sfiduciato dell'ingratitudine umana.

Le opere: le commedie amare del terzo periodo

Un uguale pessimismo ispira le tre commedie amare di questa fase, cui solo un accomodante lieto fine impedisce di essere definite tragedie. La prima, Troilus and Cressida (1601-02; Troilo e Cressida), di derivazione chauceriana e omerica, è un parodistico e sferzante ridimensionamento dei temi dell'amore cortese e dell'eroismo epico, in cui la donna è ridotta a essere lascivo e corrotto e l'epopea dei grandi capitani a una serie di risse e di alterchi all'insegna della stoltezza, del cinismo e della sbruffoneria. Nella successiva All's Well that Ends Well (1602-1603; Tutto è bene quel che finisce bene), opera minore basata su una novella di G. Boccaccio (la storia di Giletta di Narbona), il clima di sospetto e amarezza è inasprito da crudezze psicologiche e di linguaggio. Ma è nella terza, Measure for Measure (1604-05; Misura per misura), tratta da una novella di G. B. Giraldi Cinzio, che nausea e disgusto si esprimono in tutta la loro devastatrice intensità. Vi si narra la sordida vicenda di un magistrato apparentemente austero che, investito del potere, si rivela invece un mostro di lussuria e, fatto condannare un giovane per fornicazione, gli promette poi salva la vita se la sorella acconsente a sottostare alle sue voglie. Le cose si accomodano nel finale, ma l'impressione che ne deriva è quella di un mondo in cui non esistono più né rettitudine, né sincerità, né coraggio, mentre le passioni più turpi regnano incontrastate su un'umanità in disfacimento.

Le opere: l'ultimo periodo

Un'atmosfera di pace e serena accettazione spira invece nei romances o drammi romanzeschi dell'ultimo periodo (1608-13), imperniati su vicende spesso fiabesche e inverosimili ma ricche di significati simbolici e caratterizzati da un linguaggio più pacato e disteso ma sempre potentemente allusivo. Anche se non tutti ugualmente meritevoli sul piano dell'arte, essi costituiscono comunque l'incomparabile proiezione sul piano fantastico di una maturità e consapevolezza superiori e di un senso di ritrovata armonia dopo il travaglio del dubbio. Ciò vale anche per Pericles, prince of Tyre (1608-09; Pericle, principe di Tiro), il più fiacco dei romances, che già presenta, nel ricongiungimento finale del protagonista con la figlia e la moglie dopo un'odissea di vent'anni, il motivo, in seguito ben altrimenti approfondito, della riconciliazione. Con la stessa nota positiva si chiude Cymbeline (1609-10; Cimbelino), tragicommedia di argomento storico-leggendario e dall'intreccio ancora più sensazionale, imperniata sulle peripezie a lieto fine della virtuosa Imogen, ingiustamente sospettata e perseguitata dal marito. In The Winter's Tale (ca. 1611; Racconto d'inverno), un re ripudia senza ragione la moglie e abbandona la figlia su una spiaggia deserta; la moglie sembra morire ma ricompare dopo sedici anni sotto le spoglie di una statua che vive e la figlia ritorna da complicatissime vicissitudini per essere riconosciuta e riunita ai genitori: i motivi della riconciliazione e del tempo che sana le offese riappaiono insistenti e con una compiutezza poetica che già prelude agli altissimi livelli di The Tempest (1611-12; La tempesta), lo stupendo ultimo dramma shakespeariano. Lineare e compatto pur nel suo carattere fantastico e fiabesco, questo capolavoro svolge la vicenda dell'esiliato duca Prospero, ritiratosi assieme alla figlia Miranda su un'isola dove sbarca naufrago il fratello usurpatore. Invece di vendicarsi con le sue arti magiche, egli le impiega (aiutato da Ariel, gentile spirito dell'aria che gli ubbidisce) per costringere il fratello al pentimento e alla riappacificazione, consacrata anche dal matrimonio di Miranda con il figlio di un cortigiano. Immerso in un'aura di generale purificazione e rigenerazione, il dramma acquista, specie nei momenti conclusivi che vedono la liberazione di Ariel e la rinuncia di Prospero alla magia – simboleggianti forse l'addio di Shakespeare al teatro e la liberazione della sua immaginazione creatrice – il significato di un glorioso canto del cigno. A esso infatti, prima del silenzio, non seguì che il modesto Henry VIII (1612-13; Enrico VIII), frutto di una collaborazione con J. Fletcher.

Letteratura: il “genio” e la critica

Massimo genio della letteratura inglese e artista tra i sommi di ogni tempo e paese, Shakespeare fu essenzialmente uomo di teatro, anche se la sua opera drammatica vibra di una tale intensità lirica che la definizione, al pari di qualunque altra gli si attribuisca, risulta inevitabilmente riduttiva. Cimentandosi in ciascuna delle forme che la tradizione di quell'arte gli metteva a disposizione e inventandone di nuove con innesti e sperimentazioni arditissime, se ne servì per esplorare, in una serie di intuizioni grandiose, tutto l'aggrovigliato mondo delle passioni e delle emozioni dell'uomo nei suoi rapporti con la società, la natura e il suo destino. Suscettibile a ogni sollecitazione del suo tempo e perciò radicato in esso ma pronto anche a sfruttarne ogni potenzialità poetica fino a trascenderlo nell'immortalità dell'arte, egli seppe conferire alla sua opera ineguagliabile il crisma supremo dell'universalità. Attaccandolo per la sua mancanza di cultura, di originalità e di sapienza letteraria, ma esaltandolo poi come “genio naturale” che nella sua universalità trascende la sua opera, già alla morte di Shakespeare, B. Jonson stabiliva i due principali indirizzi della sua fortuna. Vedendolo come “poeta di natura” il Seicento credette di doverlo riscrivere – come fece per esempio J. Dryden – per conferirgli grazia ed eleganza e attenuarne gli eccessi. La tendenza a riscriverlo perdurò per tutto il secolo successivo. Il primo Settecento neoclassico e razionalista considerò Shakespeare una scomoda presenza con cui misurarsi. In nome delle regole di compostezza e decoro, Th. Rhymer e Voltaire lo attaccarono apertamente, vedendo in lui la negazione di ogni principio classico e aristotelico, e fu l'italiano G. Baretti a rivendicare il valore fantasioso e immaginifico della sua ispirazione. D'altro canto in quest'epoca furono curate le prime edizioni (di Nicholas Rowe, A. Pope e S. Johnson), e sia Pope sia Johnson dovettero temperare le loro tendenze neoclassiche con una genuina valutazione del genio poetico e drammatico di Shakespeare. Particolarmente importante in tal senso è stata la prefazione di Johnson, che ne ha illustrato organicamente e ne ha rivalutato i motivi di grandezza, ponendosi come spartiacque della critica settecentesca, per altri versi molto interessata alla critica dei caratteri. Questa tendenza a vedere i personaggi di Shakespeare come persone vive e autonome continuò per tutto l'Ottocento. La transizione storica fra neoclassicismo e romanticismo si attuò invece nel secondo Settecento inglese anche nel nome e tramite la riscoperta di Shakespeare. Il concetto di arte come immaginazione creatrice ed esuberanza espressiva, la scoperta del sentimento e del sublime, con il corollario che privilegia il genio poetico libero da ogni regola, trovarono un presupposto e un modello in Shakespeare. In quell'epoca, passando da G. E. Lessing a J.-J. Rousseau, e poi da G. W. Goethe a F. Schlegel, da I. Kant a G. Hegel, da F. Schiller a S. Coleridge, da C. Lamb a W. Hazlitt, avvenne la canonizzazione di Shakespeare come genio irregolare, superiore però a ogni regola e in grado di attingere insuperate vette poetiche. Gli scrittori dello Sturm und Drang lo videro come poeta incolto e rivoluzionario, i pensatori tedeschi se ne servirono per fini speculativi; gli inglesi ne privilegiarono il valore poetico su quello drammatico. Contemporaneamente all'affermarsi della critica filologica che ne ristabiliva i testi, l'Ottocento (da Th. Carlyle a R. W. Emerson a A. C. Swinburne) ne fece una specie di semidio, moralizzandone però il messaggio e il linguaggio. Il culmine della critica idealistica si ha in A. C. Bradley, attentissimo all'analisi dei personaggi. Il primo Novecento (come nelle influenti prefazioni di H. Granville-Barker) rivalutò decisamente lo Shakespeare autore di teatro, realizzatore di trame e vicende che solo sulla scena acquistano pienezza artistica. La nuova consapevolezza psicanalitica trovò in lui un fertile campo di indagine (da S. Freud stesso a E. Jones). Tale interesse si ricollegava, nel periodo fra le due guerre, alle indagini sui sistemi di immagini (imagery) che sostengono i drammi e ne rivelano i più profondi significati (C. Spurgeon, W. Clemen, E. A. Armstrong). Shakespeare si espresse così a vari livelli di consapevolezza e profondità, e questa critica che combina l'interesse psicologico con l'attenzione prestata al linguaggio ha dato i suoi frutti migliori in critici come D. Traversi e L. C. Knights (quest'ultimo con qualche tendenza sociologica). Permangono certe opposizioni all'indiscriminata valutazione di Shakespeare (T. S. Eliot), ma si fa strada la percezione dei diversi livelli di realizzazione e significato presenti nella sua opera, che ne fanno un grande poeta e al tempo stesso un grande uomo di teatro. La sua ricchezza linguistica e semantica si è particolarmente prestata a indagini di tipo linguistico-strutturale, mentre si vanno riscoprendo, specie nelle commedie, i legami con la tradizione folcloristica locale e popolare. Conferma della sua grandezza è proprio la capacità di prestarsi e sottostare a quasi ogni tipo di indagine critica senza esserne danneggiato.

Bibliografia

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