Descrizione generale

sm. [da liberale, sul modello del francese libéralisme]. Dottrina politica ed economica che rivendica, alle sue origini, la più assoluta libertà dell'uomo, tanto contro la visione del mondo caratteristica del periodo medievale, dominato dalla sacralità e dai principi metafisici e religiosi, quanto contro lo strapotere politico proprio delle strutture assolutistiche. In questa prospettiva storica le premesse ideologiche più dirette del liberalismo si possono individuare: nella Riforma protestante che, invocando il “libero esame” dei testi sacri, ha messo in crisi l'intero ordine gerarchico in campo religioso e ha restituito all'individuo piena maturità di coscienza e spirito di responsabilità; nel movimento razionalistico che, andando alla ricerca della verità con l'ausilio della ragione e non più coi soli postulati della fede, ha contribuito a “desacralizzare” e laicizzare la società; nel giusnaturalismo che, sostenendo l'esistenza di una serie di diritti immutabili, inalienabili e universali (comuni a ogni persona umana, indipendentemente dalle norme del diritto positivo dei singoli Stati), ha rivalutato il primato dell'individuo, ponendo le basi del pratico riconoscimento dell'eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge; nelle teorie economiche della fisiocrazia e di A. Smith che, contestando le antiche direttive protezionistiche e corporative, hanno identificato nel libero svolgersi delle forze economiche la “ricchezza delle nazioni” e l'unica guida razionale e sicura per un valido comportamento sia privato sia pubblico, dato che ciascuno, gareggiando con i suoi simili in regime di libera concorrenza per la conquista del proprio legittimo benessere, contribuisce contemporaneamente a realizzare l'interesse dell'intera società. In tale modo il liberalismo divenne l'ideologia preferita di quella classe sociale (la borghesia) più evoluta e intraprendente, anche se tenuta ancora esclusa dall'esercizio del potere politico.

Cenni storici: le origini e lo sviluppo

Sorto nel sec. XVII e sviluppatosi nel XVIII, il liberalismo trovò i suoi massimi teorici politici in Locke (due trattati sul governo civile, 1690) e in Montesquieu (Spirito delle leggi, 1748). Il filosofo inglese concepì lo Stato come struttura giuridico-istituzionale che permetteva l'espressione più completa delle libertà e dei diritti naturali e, a tale scopo, reclamò la limitazione del potere, sottraendolo all'incontrastato dominio di un solo sovrano. Analogamente, il filosofo francese elaborò un modello di separazione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) rimasto tuttora in vigore. La novità di Montesquieu rispetto a Locke consistette soprattutto nel fatto che i poteri non dovevano essere solo separati, ma anche contrapposti e in equilibrio fra loro, cosicché il potere limitasse il potere e rimanesse garantita la sfera d'azione individuale del cittadino. Oltre al principio dello Stato garantista, che assicura le libertà come libertà dello Stato, la concezione del liberalismo sosteneva che tutti i cittadini indistintamente, pubblici funzionari compresi, dovevano essere soggetti alle medesime leggi (Stato di diritto): su questi punti fermi, infatti, si mossero più tardi gli autori americani (Hamilton, Madison, Jay) del Federalist durante il dibattito sulla struttura da dare alle colonie inglesi d'America liberate, e, in Europa, B. Constant, A. de Tocqueville, W. von Humboldt, i quali non mancarono di porre anche l'accento sulla validità “liberale” delle istanze municipalistiche come ulteriore, efficace freno all'azione e al potere dello Stato (mentre a sviluppi teorici affatto originali giunse I. Kant, in Über den Gemeinspruch, 1793, e in Zum ewigen Frieden, 1795, dove ha sostenuto l'opportunità di proiettare in campo internazionale i principi a priori di libertà, giustizia ed eguaglianza, propri della vita interna dello Stato, quale via sicura per giungere alla civitas gentium e al trionfo della pace universale). Le tappe fondamentali del liberalismo sono segnate nella storia inglese dalla Petition of Right (1628) e dal Bill of Rights (1689), che portarono a una limitazione delle prerogative della corona, e dall'Habeas Corpus Act (1679), che fissò le garanzie individuali sul piano giudiziario; in America, dal Bill of Rights della Virginia (1776) e dalla Dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti (1776); in Francia, dalla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino votata dall'Assemblea Costituente nell'agosto del 1789. Se però la dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti proclama che “tutti gli uomini sono uguali e indipendenti per natura e hanno dei diritti innati, di cui la posterità dovrà egualmente godere non avendo la società il diritto di alienarli” e che tali diritti comprendono oltre al godimento della libertà anche “il diritto di acquistare e possedere una proprietà”, la Dichiarazione dei diritti dell'uomo non contiene una definizione precisa del concetto di proprietà ed è generica per numerosi altri aspetti. Essa può comunque considerarsi il documento fondamentale di una rivoluzione borghese, promotrice di una nuova società che cercherà di creare una vera e propria “aristocrazia degli affari”, anche se Tocqueville la giudicherà incapace di determinare una solida stabilità sociale. Questa nuova “aristocrazia”, per le sue stesse basi pragmatistiche, tenderà a un continuo rinnovamento che renderà però difficile l'affermazione di principi comuni e che potrebbe portare essenzialmente all'affermazione del proprio interesse e del proprio potere. Allo stesso modo B. Constant respingerà il concetto di una sovranità “assoluta” che la società può imporre ai suoi membri. Sia tale principio, sia il concetto “dell'espressione della volontà generale” teorizzato da Rousseau nel suo Contratto sociale (1762), per lo scrittore francese, lasciano “aperte le porte a ogni genere di despotismo”. Già da allora si era precisata l'esigenza di rispettare quel “diritto delle minoranze” che rimane un postulato della dottrina liberale e di tutti i movimenti politici affini, dai repubblicani ai radicali. Lo Stato deve essere il garante del cittadino. La dottrina liberale sviluppa quindi la dialettica “garantista e rappresentativista” non quella partecipazionista. L'equivoco su quest'ultima tesi, unita a quella dell'interpretazione dello Stato etico hegeliano, o della filosofia idealista, pur presente in filosofi e pensatori di espressione liberale, a cominciare da B. Croce, ha consentito al fascismo e alle altre dittature di destra di pretendere, anche a costo di ambigue forzature, di rifarsi a una matrice a sfondo liberal-borghese, in aperta polemica coi movimenti socialisti e proletari. Se la Rivoluzione francese aveva esaltato i concetti liberali, la Restaurazione, tentando di soffocarli, consentì al liberalismo di esprimere il suo momento più felice e dinamico, che vide in Sismondi e nel citato B. Constant i sostenitori della libertà mentre andava affermandosi, contro un tentativo di rigurgito assolutistico, anche il liberalismo cattolico; e il liberismo economico (che si ispirava alle teorie di A. Smith, Malthus e Ricardo) effettuava una prova di forza con la scuola di Manchester, in cui Richard Cobden, il suo maggiore esponente, nel 1846 riusciva a far cessare il protezionismo in Inghilterra promosso con la legge sul grano del 1815. La vittoria del liberismo fornì tuttavia materia di ripensamento, poiché apparve evidente che l'interesse privato non poteva estraniarsi dall'interesse dello Stato e occorreva trovare un punto di convergenza per conciliare le due posizioni. L'Europa era intanto più che mai travagliata da una crisi profonda e le esplosioni insurrezionali cominciate nel 1820 sfociarono nel 1848 in un vasto movimento rivoluzionario, premessa anche all'affermazione dell'indipendenza italiana, passata attraverso moti e guerre d'indipendenza, il pensiero di Mazzini, l'opera di Cavour, di Garibaldi e la fede di Vittorio Emanuele II.

Cenni storici: il New Deal e le teorie contemporanee

L'affermazione del socialismo e del marxismo, contro i quali il liberalismo si è mantenuto in costante opposizione hanno messo tuttavia in evidenza gli aspetti di classe dell'ideologia liberale, condannandola a un declino da cui B. Croce ha cercato di risollevarla auspicando un'intesa con uomini di cultura e d'azione nel culto della libertà al di sopra degli stessi partiti liberali. Ma il rilancio del liberalismo a livello europeo, più che dalla concezione etica di Croce, è forse da cercare nell'influenza provocata anche sul nostro continente dal New Deal del “socialdemocratico” americano Roosevelt, che stimolò la revisione dei principi economici liberali, sulla base delle teorie dell'economista inglese J. M. Keynes, sostenitore del principio “risparmio e investimento”, integrato dal concetto di appoggio delle spese pubbliche a quelle private. Mentre con Croce si poteva parlare solo sul piano storico di una “concomitanza provvisoria e contingente fra ideali etico-politici e realtà economica”, per L. Einaudi la coessenzialità tra liberalismo e liberismo economico è tanto inevitabile che il suo “concretismo” auspicava una classe imprenditoriale moderna e dinamica, capace soprattutto di tener conto, come suggerisce anche l'economista A. Hobson, della società quale è e dei suoi bisogni per definire una politica più realistica. Superata infine la pregiudiziale dei liberali di destra verso ogni tipo di economia controllata e pianificata (colpevole di rafforzare il collettivismo), si pone assai più validamente la tesi dell'economista tedesco W. Röpke, il quale, sulla scia della scuola di F. A. von Hayek, von Mises e del Circolo di Vienna, propone il programma di una “terza via” oltre il liberalismo monopolistico e il socialismo collettivistico, che chiama “umanesimo economico”, vaticinando con esso l'abolizione del monopolio e delle grandi concentrazioni, la ripartizione della proprietà, il ristabilimento di un'economia di mercato, la diffusione delle piccole unità produttive, senza escludere in via eccezionale l'intervento pubblico di tipo correttivo. Sull'esempio di Röpke, il liberalismo cerca uno svolgimento più aderente ai problemi dell'età contemporanea, che consenta di conciliare con le esigenze di una più equa ripartizione del benessere i principi di libertà; mentre ai problemi politici e storici, specie del liberalismo italiano, dopo il dibattito all'interno del movimento, con le interpretazioni di V. de Caprariis o di Panfilo Gentile, sono particolarmente attenti studiosi come V. Zanone, G. Sartori e N. Matteucci. Riguardo al dibattito sul liberalismo filosofico, di notevole interesse è l'intervento di uno dei suoi principali esponenti, l'americano N. Nozick, il quale, procedendo da premesse ispirate al liberalismo classico e da una posizione critica nei confronti dell'utilitarismo, favorisce una visione della vita caratterizzata da un forte individualismo, che aspira a una radicale riduzione della sfera di intervento dello Stato negli affari dei cittadini. La sua posizione contrasta nettamente con quella di J. Rawls, che sostiene una sorta di liberalismo egalitario, assai vigile sulle questioni dell'uguaglianza e delle pari opportunità.

Bibliografia

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