teleologìa

sf. [sec. XIX; dal greco télos -eos, fine+-logia]. Dottrina della finalità, dei fini. Il termine fu usato da Ch. Wolff nel sec. XVIII, ma la dottrina come tale è antichissima. Fu infatti Anassagora a concepire la dottrina di un intelletto divino ordinatore che compone gli elementi materiali in un cosmo. Decisiva fu la formulazione di Aristotele, per cui il fine è una delle quattro cause, e, come completezza, perfezione, bene, il termine cui tende ciascun movimento, trasformazione, sviluppo. Dio, come fine ultimo, è il motore del mondo, sicché all'ordine delle cause efficienti si affianca quello delle cause finali, che fornisce ordine e senso complessivo al reale. Gli stoici proposero una concezione finalistica più semplice e insieme più radicale: le cose esistono e sono ordinate dalla provvidenza a vantaggio degli esseri intelligenti. Combattuta dal cartesianesimo, la teleologia riemerge in Leibniz, per cui l'esistenza di questo mondo è dovuta alla bontà divina, che ha scelto di porre in atto il mondo migliore tra gli infiniti possibili. Kant negò da un lato la spiegazione teleologica dei fenomeni, per la ragione teoretica, ma riaffermò, sul piano del giudizio riflettente, la teleologia come connessa necessariamente al nostro modo di rappresentare l'ordine dell'universo nella sua totalità, facendone quindi un principio solo regolativo. Negata da Hegel nella sua polemica contro il dover-essere e avversata dal meccanicismopositivistico, la teleologia ritorna nella concezione di Bergson, quale motore interno dello slancio creatore della natura.

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