Definizione

sf. [sec. XX; da urbanistico]. Termine a carattere generale, che comprende l'insieme di tecniche e discipline scientifiche (dalle analisi territoriali alla pianificazione, alla progettazione di interventi a grande scala, all'amministrazione e gestione delle città e del territorio) volte allo studio delle trasformazioni urbane, del territorio e dell'ambiente, finalizzate alla riorganizzazione fisico-spaziale degli insediamenti umani e alla protezione ambientale. In tal senso rientrano nel campo dell'urbanistica ossia le attività di ricerca e tecnico-professionali, sia l'azione legislativa e amministrativa, in particolare degli enti locali.

Cenni storici: l'Ottocento

L'urbanistica moderna nasce nel periodo della rivoluzione industriale (fine sec. XVIII), come strumento correttivo degli aspetti negativi (in particolare l'accelerato inurbamento) indotti dalle profonde modificazioni sociali e territoriali conseguenti la rapida trasformazione dei sistemi di produzione. Insieme alla critica radicale (rappresentata anche da proposte di impronta utopistica: R. OwenCh. Fourier, H. de Saint-Simon, E. Cabet) e alla denuncia civile (specie per le condizioni abitative delle masse urbane: F. Engels), si sviluppano orientamenti e tecniche per la soluzione dei problemi denunciati. Nella seconda metà del sec. XIX, anche per influsso del positivismo, si afferma una concezione dinamica della città come “organismo” (in crescita) e si diffondono tecniche urbanistiche basate soprattutto sulla realizzazione e il controllo delle reti di urbanizzazione. Il compito prevalente assunto dall'urbanistica fu quindi ordinare l'espansione delle città, ovviamente in accordo con le logiche economiche e la configurazione dei rapporti sociali propri dell'epoca. Tuttavia ciò comportò spesso interventi significativi anche sui centri già esistenti, e piani di ristrutturazione urbana complessiva (specie in relazione alle nuove stazioni ferroviarie). I piani ottocenteschi di Parigi, Vienna, Barcellona divennero modelli universali (abbattimento delle mura urbane, grandi viali diagonali, sviluppo della rete viaria e urbanizzativa a maglia ortogonale, parchi urbani, monumentalizzazione delle strutture pubbliche, ecc.) anche se spesso assai banalizzati e ridotti nelle repliche. Negli USA il Park Movement (A. J. Downing e F. L. Olmsted), il Conservation Movement (per i parchi nazionali) e infine il City Beautiful Movement (D. H. Burnham) costituirono le uniche forme di opposizione costruttiva al monotono sviluppo speculativo dell'edificazione urbana e alle devastazioni ambientali di un capitalismo particolarmente aggressivo. L'urbanistica ottocentesca modificò radicalmente non solo l'aspetto, ma la stessa concezione della città. Attraverso queste esperienze si formarono inoltre le modalità amministrative e di gestione della città moderna, nonché la classe di tecnici e funzionari che progettò e realizzò infrastrutture e servizi in grado di sopportare la crescita urbana anche nei decenni successivi.

Cenni storici: gli sviluppi novecenteschi

Con gli inizi del Novecento comincia a maturare una crescente insoddisfazione per i modelli di sviluppo urbano fino ad allora perseguiti (che pure continuano a essere diffusamente praticati) e, d'altro canto, si sviluppano la ricerca e la sperimentazione di modelli alternativi. Se prima della guerra si collocano nel solco della tradizione, e del suo aggiornamento, le esperienze di O. Wagner a Vienna, di H. P. Berlage ad Amsterdam, di P. Abercrombie a Londra, le futuribili proposte di E. Hénard per Parigi e parte della manualistica che fiorisce ai primi del secolo (soprattutto in Germania: R. Baumeister, J. Stübben), assumono invece caratteri fortemente innovativi, per esempio, le proposte di “città lineare” di A. Soria y Mata per Madrid, le visioni della cité industrielle di T. Garnier (che trovano poi parziale applicazione nell'esperienza dello stesso Garnier a Lione, 1909-20), la critica romantica di C. Sitte, quella lucida di R. Eberstadt, e le profezie di E. Howard. Queste ultime, oltre a concretizzarsi nelle due garden cities (Letchworth, di B. Parker e R. Unwin, 1902; Welwyn, di L. de Soissons, 1919), influenzano enormemente la progettazione dei nuovi sobborghi residenziali in tutta Europa e negli USA. L'accelerazione dell'innovazione tecnologica (diffusione della elettricità e del motore a scoppio) e l'evoluzione sociale conseguenti la prima guerra mondiale pongono nuovi problemi e, nel contempo, sembrano offrire nuove possibilità di soluzioni. Il problema dominante è ovunque costituito dalla necessità di provvedere di alloggi adeguati la sempre crescente popolazione urbana. Intorno a tale problema, dalla seconda metà degli anni Venti, si concentra anche l'attenzione del Movimento Moderno. Attraverso i suoi maggiori esponenti (W. Gropius, Le Corbusier, E. May, H. Meyer, L. Hilberseimer, S. Giedion), e specie in occasione dei CIAM (Congrès Internationaux d'Architecture Moderne: 1928, a La Sarraz, e 1933, tenutosi in crociera tra Marsiglia e Atene), il movimento fonda le proprie convinzioni su una critica radicale alla città industriale e sulla ricerca di principi astratti di razionalità e di funzionalità (schematizzazione e separazione delle “funzioni” abitare, lavorare, ricrearsi). Nonostante le dichiarazioni di principio (che trovano forma compiuta con la “Carta di Atene” del 1933, ma pubblicata nel 1941 da Le Corbusier), e la notevole azione di autopromozione professionale (esposizioni, riviste, concorsi, realizzazione di quartieri modello, ecc.), il Movimento Moderno non riuscì a fornire un modello convincente e praticabile di città. Sotto la pressione dell'inurbamento – e dei connessi problemi sociali – il tema della riorganizzazione urbana per “satelliti” viene di fatto ridotto a quello del quartiere residenziale periferico (soprattutto in Germania, con l'esperienza delle grandi Siedlungen), costituito da abitazioni a basso costo, tipizzate e reiterate secondo criteri rigidamente predeterminati. Tra i pochi esempi che esprimono una visione ancora unitaria della città, almeno in via di principio, il piano di E. May per Francoforte (dal 1924), gli interventi progettati da B. Taut a Berlino e il piano per Amsterdam di C. van Eesteren (1928-35), che costituisce un vero e proprio repertorio delle tecniche sviluppate dall'urbanistica funzionalista (zonizzazione funzionale, tipizzazione edilizia, diffusione delle aree verdi, ecc.). Non a caso è nella Germania di Weimar (per gli orientamenti governativi) e nei Paesi Bassi (per la diffusione delle pratiche di “produzione del suolo”: polders) che si hanno le maggiori realizzazioni dell'urbanistica modernista, che presupponeva una forte presenza dell'ente pubblico locale e dello Stato, sia riguardo ai finanziamenti necessari, sia per attuare le vaste rifusioni fondiarie indispensabili a garantire “libertà” alla progettazione, non più condizionata nemmeno dai tracciati viari. Anche per questi motivi gli architetti del Movimento Moderno furono attratti (specie nei primi anni Trenta) dall'Unione Sovietica, che sembrava presentare condizioni ideali per ampliare le sperimentazioni: l'industrializzazione tardiva e accelerata e la modernizzazione forzata del Paese ponevano infatti il tema della completa ristrutturazione delle città maggiori, e addirittura della fondazione di nuove città nelle regioni orientali, mentre la pratica della pianificazione economica (Gosplan, piani quinquennali) e sociale sembrava garantire i mezzi e i poteri per gli interventi. Gli architetti sovietici, dapprima influenzati dalle avanguardie artistiche della Rivoluzione (costruttivismo), ma attenti alle esperienze occidentali (soprattutto tedesche), erano già da tempo impegnati, e divisi, sul dibattito teorico (imperniato intorno al superamento del dualismo tra città e campagna, alla definizione della “città socialista” e alla connessione tra pianificazione fisica e pianificazione economica), negli studi teorici (per esempio N. A. Miljutin) e nelle proposte (per esempio per il piano di Mosca e per la nuova città di Magnitogorsk). Tuttavia con l'avvio del secondo piano quinquennale, segnato per la cultura architettonica dal concorso internazionale per il Palazzo dei Soviet (1932-33), il sistema di potere favorisce e poi impone orientamenti accademici, che caratterizzano infatti sia il piano di Mosca del 1935 sia le altre realizzazioni di un regime ormai consolidato. Anche in Italia, pur non mancando raffinate elaborazioni teoriche, del tutto in linea con quelle compiute nel resto d'Europa, e un intenso dibattito (in particolare sul rapporto tra moderno e antico: G. Giovannoni e M. Piacentini), le realizzazioni concrete sono orientate prevalentemente alla ristrutturazione delle città, in chiave di ammodernamento, ma anche di rappresentazione dei poteri e dei valori costituiti dal fascismo. Maggiore libertà è tuttavia riconosciuta agli architetti nelle costruzioni a carattere utilitaristico, e agli urbanisti nelle città e villaggi di nuova fondazione connessi alla politica di bonifica (per esempio Sabaudia, nella Pianura Pontina, pianificata da Luigi Piccinato nel 1934) e nelle colonie.

Cenni storici: la pianificazione regionale statunitense

Negli USA l'impegno riformista ispira teorie ed esperienze di pianificazione a scala regionale, con forti contenuti sociali e ambientali. Nel 1923 si costituisce a New York la Regional Planning Association of America (B. Mackaye, C. Stein, L. Mumford, H. Wright), che promuove alcune realizzazioni (per esempio Sunnyside Gardens, New York, 1924-1928) e contribuisce al rapporto della Commission of Housing and Regional Planning dello Stato di New York (1926), in cui si configura un piano d'insieme, a scala regionale, basato sulla regolamentazione delle acque, la distribuzione dell'energia elettrica e il potenziamento dei trasporti, al fine di rendere le attività produttive indipendenti dalle concentrazioni urbane. Nello stesso clima nasce anche il progetto di Broadacre City (F. L. Wright, 1934) per una “città agricola”. Con il New Deal (cheassume gli obiettivi del decentramento industriale e dell'“agricoltura autosufficiente” in funzione antiurbana) il regionalismo ispira la costituzione della Tennessee Valley Authority (1933), con la quale si voleva pianificare lo sviluppo di un'area degradata (controllo dei fiumi, elettrificazione, riconversione industriale, nuovi insediamenti), esperimento molto avanzato, e in gran parte fallito, che rimase comunque isolato in un Paese tradizionalmente alieno a forme di pianificazione o, comunque, di ingerenza pubblica nella regolazione dei fenomeni di mercato. Tra le esperienze innovative di pianificazione urbanistica possono comunque essere ricordate quelle che hanno portato, a partire dal 1936, alla realizzazione di greenbelts (nel Maryland, nel Wisconsin, nell'Ohio), derivate dal modello howardiano della città-giardino; i villaggi agricoli finanziati dalla Farm Security Administration realizzati con l'impiego di case prefabbricate o spostabili; alcuni villaggi operai costruiti in tempo di guerra; gli studi per la ristrutturazione delle downtowns (fra i primi quello progettato da Victor Gruen per Fort Worth nel Texas, 1954); i quartieri residenziali con edifici collettivi a molti piani costruiti a ridosso delle grandi città (Lafayette Park a Detroit, Lake Meadows a Chicago); i progetti di trasformazione complessiva dei centri di alcune grandi città (Filadelfia negli anni Quaranta, Boston negli anni Cinquanta). Negli anni Settanta del sec. XX nasce in America il concetto di pianificazione strategica che supera gli strumenti urbanistici tradizionali di tipo vincolistico e, attraverso l'impegno collettivo, la convoglia su una visione socio-politica della città e del suo territorio proiettata in un futuro anche lontano, ma realizzabile sulla base di partenariati, di interessi convergenti e di un'attenta analisi dei tempi di attuazione.

Cenni storici: la pianificazione in Europa nel secondo dopoguerra

In Europa il secondo dopoguerra può suddividersi sommariamente in tre fasi, di diversa durata e intensità nei diversi Paesi: una prima fase di ricostruzione, anche delle città, ma soprattutto delle reti di trasporto e dell'economia industriale; una seconda fase di ulteriore crescita e sviluppo, nel segno dell'industrializzazione e della concentrazione urbana; una terza fase caratterizzata dalla ristrutturazione dei sistemi produttivi (riduzione di manodopera e nuove tecnologie), dalla crescita delle funzioni di servizio, dall'integrazione dei mercati, dall'emergere della questione ambientale e della necessità di ristrutturazione dei principali centri urbani. La ricostruzione postbellica (in molti casi avviata già durante la guerra) è generalmente occasione per una riforma legislativa dei settori connessi all'urbanistica (in particolare quello delle abitazioni) e, soprattutto, per l'avvio di politiche urbanistiche complessive (in una prima fase anche di orientamento “regionalistico”), caratterizzate da una forte presenza dello Stato (con la parziale eccezione di Paesi Bassi, Germania e Italia). Dal punto di vista culturale il dibattito si polarizza tra l'orientamento (specie nei centri cittadini), a ricostruire “com'era e dov'era”, e la tendenza a sperimentare teorie e metodi dell'urbanistica modernista, che trovano maggior seguito nella fase di sviluppo immediatamente successiva. A partire dagli anni Ottanta si è potuto registrare una sorta di rifiuto rispetto ai contenuti e al processo tradizionale dell'intervento urbanistico: la contraddizione tra la scala urbanistica e quella architettonica ha portato a forme di grave mancanza di coerenza sia nella pretesa di fissare con precisione le caratteristiche delle città senza conoscere i dati del suo sviluppo, sia nella mancanza di una soluzione oggettuale (formale) delle parti singole della città eludendo le peculiarità di ciascun caso e di ciascuna situazione contingente.

Cenni storici: la pianificazione in Gran Bretagna

La pianificazione delle maggiori città fu impostata sui principi espressi dalle commissioni Barlow (1937-40), Uthwatt (1941) e Scott (1942-43), sanciti dai Town and Country Planning Act (1944 e 1947), dal New Towns Act (1946) e dal Town Development Act (1952). La ricostruzione di Londra, ispirata al Green Belt Act del 1938 e basata, in linea di massima, sulla proposta di piano di P. Abercrombie e J. H. Forshaw (Greater London Plan, 1944), costituì occasione per avviare il vasto programma di realizzazione delle new towns che, pur perseguito nel tempo con variabile intensità (prima in chiave di decentramento urbano, poi di riequilibrio regionale, in relazione alla programmazione economica), rappresenta la più importante esperienza del Regno Unito, avendo dato origine a un numero consistente di nuove città (trentatrè, fino all'inizio degli anni Settanta), tutte costruite a partire dal dopoguerra sotto il controllo e la direzione del governo centrale. La legge urbanistica del 1962 istituì l'obbligo per tutte le autorità locali di predisporre un proprio piano territoriale e nel 1963 venne costituito un organo centrale per la pianificazione urbanistica presso i ministeri dei Trasporti, dell'Edilizia e delle Amministrazioni locali. Sulla base dei nuovi orientamenti, venne istituito a Londra il Greater London Council (1965) in sostituzione del London County Council. Tra gli interventi esemplificativi dell'operato del Greater London Council (sciolto nel 1986), le ristrutturazioni delle aree di Barbican (1957-78) e South Bank (1947-77), i quartieri Roehampton (1955-61) e Robin Hood Gardens (1972), Thamesmead (1967-75), definita come una “new town in the town”. All'opposto si situano invece i più recenti interventi nella City e, soprattutto, l'immensa operazione di ristrutturazione dell'area portuale (Docklands) che ha riportato le dinamiche di espansione della capitale britannica verso l'East End. Ampiamente criticata dalla cultura architettonica e urbanistica dei Paesi continentali, la riconversione dei Docklands ha anticipato alcuni dei problemi che sono diventati comuni alle esperienze di riconversione delle aree deindustrializzate (tra cui, sempre in Gran Bretagna, si ricordano anche i Salford Quays a Manchester e il Baltic Quay a Gateshead) come quelli riguardanti i tempi di sfruttamento e di riconversione e il ruolo del settore privato e di quello publico. L'ampliamento della linea metropolitana Jubilee Line (inaugurata nel 1999) rappresenta la più importante operazione di programmazione e sviluppo urbanistico di Londra dalla conversione dei Docklands (riconducibile alla cultura urbanistica degli anni Ottanta); attraversando la zona del South Bank, l'area del Bermondsey, i Docklands, la zona di North Greenwich e i quartieri di West Ham e Stratford e connettendosi con stazioni di interscambio di linee ferroviarie regionali e internazionali la Jubilee Line contribuirà ad accelerare lo spostamento del baricentro dello sviluppo della città verso est. La politica urbanistica in Gran Bretagna, nettamente improntata al pragmatismo e connotata dalla serrata dialettica tra Stato (prevalente) e autonomie locali (contee e comuni), si completa con numerosi provvedimenti, e conseguenti azioni, per la protezione delle acque, delle coste, sui parchi nazionali, ecc.

Cenni storici: la pianificazione in Francia

La politica urbanistica è stata decisamente governata dallo Stato, con periodiche revisioni delle scelte generali (oscillanti tra il tentativo di risolvere i problemi della metropoli parigina e la costruzione di alternative) e degli strumenti tecnici e amministrativi. Dopo la ricostruzione (1945-50), intesa prevalentemente come “ricostituzione” del preesistente, il governo avvia i primi massicci programmi di edilizia abitativa a basso costo, impostati su grandi quartieri periferici intensivi (grands ensembles), che nella periferia parigina arrivano nell'insieme a oltre un milione di abitanti (per esempio Créteil, Sarcelles, Bobigny, Poissy). Mentre vengono perfezionati in questo senso gli strumenti legislativi e amministrativi (Codice dell'urbanistica e dell'abitazione, 1954; ZUP-Zones d'Urbanisation prioritaire, 1958; ZAD-Zone a urbanizzazione differita, 1962; CNAT-Commissione nazionale per l'assetto del territorio, 1963; DATAR-Delegazioni per l'organizzazione del territorio e l'azione regionale, 1964; OREAM-organizzazioni di studio e assetto delle aree metropolitane, 1965), la critica generalizzata a queste esperienze porta a ipotizzare lo sviluppo sia dei centri minori della regione parigina sia di alcune città, individuate a scala nazionale come métropoles d'équilibre, destinate a contrappesare l'agglomerazione della capitale (Lille-Roubaix-Turcoing, Nancy-Metz, Strasburgo, Lione-St. Etienne, Marsiglia, Tolosa, Bordeaux, Nantes). Lo Schéma directeur della regione parigina (1965-69) istituisce però anche cinque villes nouvelles (Evry, Cergy-Pontoise, Marne-La Vallée, Melun-Sénart, Saint-Quentin-en-Yvelines), la cui realizzazione (insieme a quelle di Rouen-Vaudreil, Lione-L'Isle d'Abeau, Marsiglia-Fos, Lille-Est/Villeneuve d'Asque e Toulouse-Le-Mirail), sostenuta dalla legge fondiaria del 1975, costituisce il motivo centrale dell'esperienza francese. Dalla fine degli anni Settanta, con il pur controverso avvio del decentramento amministrativo, e sull'onda dei grandi interventi parigini, cresce anche in Francia l'attenzione per il tema della riqualificazione urbana (che porta a privilegiare la pianificazione locale), mentre le linee ferroviarie ad alta velocità (TGV) e la diffusione delle nuove tecnologie tendono a modificare la stessa geografia nazionale. Accanto ai grands travaux di Stato voluti da Mitterrand (egli, sull'onda dei cambiamenti fatti dal barone Haussman, intraprende una serie di radicali trasformazioni urbane: un esempio eclatante è il quartiere parigino della Defense, ma il risultato di queste operazioni è stato generalmente abbastanza deludente, tendente più a una speculazione edilizia che alla realizzazione di architetture rilevanti), i progetti apparentementi più modesti di aménagement urbain promossi dal Comune parigino costituiscono il fatto urbanistico e architettonico più importante nella trasformazione di Parigi dell'ultimo ventennio del secolo XX. Attenuato il fenomeno “espansionistico” delle villes nouvelles, si è assistito a una riconquista delle aree urbane marginali, svuotate delle vecchie funzioni industriali o infrastrutturali. Le ZAC (Zones d’Aménagement Concerté) rappresentano da una parte il prodotto maturo di un'urbanistica pragmatica e “trasparente”, gestita interamente dal Comune con procedure attuative “democratiche” che contemplano società a economia mista e un numero allargato di progettisti, e dall'altra esprimono la rinuncia alla strategia del grande progetto urbano. I progetti delle ZAC (da citare, fra i più significativi, quelli di Citroën-Cévennes, Reully, Seine-Rive Gauche, Bercy, Paris-Villette-Aubervilliers) hanno tratto le loro ragioni da considerazioni locali riguardanti esclusivamente il frammento di città oggetto dell'intervento senza contemplare prospettive ad ampio raggio che avrebbero consentito di andare al di là del luogo fisico in cui si costruisce.

Cenni storici: la pianificazione in Germania

La situazione disastrosa delle città nel primo dopoguerra, unita alla diffidenza per il centralismo statale, pone i comuni al centro del processo di pianificazione, senza specifiche innovazioni legislative, nonostante la completa ridefinizione dello Stato su base federale (Länder, 1948; attribuzione delle competenze, 1954); solo del 1960 è la prima legge nazionale (Bundesbaugesetz, in vigore fino al 1987). Tali particolarità portano a una sostanziale saldatura tra le diverse fasi di ricostruzione, espansione e ristrutturazione urbana (Städtebauförderungsgesetz per il recupero edilizio, 1972), praticata con modalità intensive e assai disinvolte anche nei centri a carattere storico-artistico. I casi di Hannover, Colonia e Francoforte sono da questo punto di vista esemplari; importanti per l'attenzione al problema dei trasporti i casi di Amburgo e Monaco, mentre Berlino, con l'IBA (Internationale Bauausstellung Berlin), è diventata per un decennio una sorta di laboratorio permanente e di terreno di confronto per la cultura architettonica internazionale. L'IBA, costituita nel 1979, ha dato l'avvio a un piano di ricostruzione di un pezzo di città avvalendosi di un metodo imperniato su un nuovo rapporto tra il piano urbanistico, il progetto architettonico e la struttura politico-organizzativa della Bauaustellung Berlin GmbH (Esposizione d'architettura Berlino S.r.l.), quale ente indipendente dall'amministrazione centrale. Dal 1981, con la separazione tra Assessorato all'edilizia e Assessorato all'urbanistica, l'IBA è stata divisa in due tronconi indirizzati l'uno verso il risanamento degli edifici preesistenti (diretto da H. Hämer) e l'altro verso quelli di nuova edificazione (diretto da J. P. Kleihues) accentuando, di fatto, la tendenza alla disomogeneità degli intenti già presente nel gruppo di lavoro. L'esperienza dell'IBA, criticata a più riprese nei suoi esiti per l'eterogeneità delle soluzioni architettoniche, ha comunque segnato l'aspetto della nuova Berlino, influenzando anche le scelte della politica di “ricostruzione critica” conseguente alla riunificazione della città (1989). Nel resto del Paese banale può definirsi, in genere, la pianificazione delle espansioni residenziali, in bilico tra la continuità con le città esistenti e la scelta dei “grandi quartieri”, che coniugano il modello delle Siedlungen moderniste con l'organizzazione scalare dei servizi, a partire dalle “unità di vicinato”.

Cenni storici: la pianificazione nei Paesi Bassi

I canoni dell'urbanistica modernista (J. B. BakemaJ. H. van den Broek) vengono applicati e rielaborati con maggiore continuità ed estensione: nella ricostruzione (il complesso del Lijnbaan nel centro di Rotterdam assume carattere esemplare), per le successive espansioni urbane (per esempio Zuidwijk a Rotterdam, Bijlmermeer ad Amsterdam), sostenute da ampi programmi statali di edilizia abitativa, per le città di nuova fondazione nei polders bonificati (per esempio Lelystad). Mentre i piani locali sono saldamente gestiti dai comuni, lo sviluppo industriale e urbano del Paese (nella sua parte occidentale) viene riferito dai primi anni Sessanta al piano (nazionale) della Randstad Holland. Nonostante i positivi risultati conseguiti, in termini di qualità media, l'insoddisfazione per l'iterazione di soluzioni standardizzate e gli insorgenti problemi di de-industrializzazione e di riqualificazione urbana segnano anche nei Paesi Bassi una svolta, solo in parte registrata dal piano di Amsterdam del 1980. In coincidenza con lo spostamento del porto, le aree portuali abbandonate di Amsterdam, a nord-est della stazione (Oostelijk Haven), costituite da un arcipelago di isole e penisole arificiali (KNSM, Java, Borneo-Sporenburg) sono state utilizzate per nuovi insediamenti residenziali a carattere sperimentale. Gli interventi sono stati controllati mediante master plan preliminari (comprendenti indicazioni su tipi edilizi, materiali, caratteri degli spazi pubblici, fino al tipo di vegetazione) al fine di accentuare l'dentità di ogni complesso. Lo sviluppo urbanistico di Amsterdam è rappresentato, in proiezione temporale, dalla grande estensione urbana dell'IJ-burg (un gruppo di sette isole artificiali, creato nel settore est, dove verranno costruite 18.000 abitazioni per 45.000 persone) e dall'ambizioso centro di sviluppo dello Zuidas (Asse sud), strategicamente localizzato tra le aree urbane dello Zuid e il Buitenveldert, vicino all'aeroporto di Schiphol. L'IJ-burg rappresenta l'ultima possibilità di espansione a grande scala della città (aree non edificabili per motivi ambientali arginano ulteriori sviluppi); per questo si sta puntando sulla città di Almere, destinata a diventare un importante polo satellite di Amsterdam e già interessata da un innovativo ridisegno del centro urbano per opera di R. Koolhaas. Anche la città di Rotterdam, con il trasferimento delle funzioni comerciali al porto dei container, all'inizio degli anni Novanta, ha colto l'occasione di espandere la sua già vasta iniziativa di ricostruzione urbanistica a sud del fiume Maas. L'operazione di ridisegno del Kop van Zuid è stata governata da un gruppo di controllo della qualità, costituito da architetti e tecnici di chiara fama e ha puntato sul potenziamento delle infrastrutture (il ponte Erasmus di Ben van Berkel è diventato un simbolo della città), sulla conservazione dell'identità del luogo (l'ex sede della navigazione Olanda-America è stata trasformata in Hotel) e su un piano regolatore generale dei grattacieli per uffici del molo Wilhelmina (affidato a Norman Foster). Il centro tradizionale di Rotterdam, sulla sponda nord della Mosa, dopo l'imponente opera di ricostruzione post-bellica è stato oggetto di interventi per il completamento del rinnovo urbano mediante la concentrazione delle istituzioni culturali già esistenti (Parco Museale di OMA e Y. Brunier, 1992), l'annessione di nuove (il Kunsthal di R. Koolhaas, 1992; il Nederlands Architectuurinstituut di J. Coenen, 1993; il Museo di storia naturale di E. van Egeraat, 1996) e il miglioramento della qualità dello spazio pubblico (ridisegno dello Shouwburgplein di West 8, 1997).

Cenni storici: la pianificazione in Spagna

L'urbanistica del dopoguerra, piegata anche alle esigenze di rappresentanza di un regime fortemente accentratore, segue ancora a lungo gli schemi tipici degli anni Trenta; così che anche il piano per l'area metropolitana di Madrid (1963) configura una “città più grande”, piuttosto che un articolato sistema territoriale. Con il ritorno della monarchia costituzionale, tuttavia, si assiste negli anni Ottanta a una vera e propria rinascita urbana, caratterizzata da una fertile dialettica tra i diversi livelli amministrativi, da un'intensa ripresa produttiva di opere pubbliche e di edilizia privata, da un marcato impegno, anche culturale, delle categorie professionali. A Madrid, il nuovo Plan General de Ordinacion Urbana, elaborato nei primi anni Ottanta, ha voluto rappresentare qualcosa di più di un semplice strumento di pianificazione urbanistica. Si tratta di un piano che ha scelto di distinguersi dalla gestione privatistica e autoritaria franchista dei precedenti strumenti di pianificazione, partendo dalle richieste sociali e rivolgendosi criticamente verso la storia urbanistica della città. Tra i temi guida si annoverano: il recupero della città e del suo patrimonio edilizio, il riequilibrio tra le sue parti, il completamento piuttosto che l'espansione dei suoi confini, la difesa delle funzioni più deboli e penalizzate (residenza, industria, servizi collettivi), il potenziamento delle infrastrutture e delle attrezzature a uso pubblico. Le idee guida sono state tradotte in puntuali proposte architettoniche e normative. Le “50 ideas para recuperar Madrid” scaturite dal lavoro di progettisti incaricati dall'Oficina Tecnica Municipal per interpretare e risolvere progettualmente alcuni dei luoghi particolarmente significativi della città (tra gli interventi più riusciti si può citare la sistemazione dell'area di San Francisco el Grande, su progetto di J. Navarro Baldeweg) hanno rappresentato una novità sostanziale rispetto alla tradizionale procedura di pianificazione. Mentre a Madrid si è voluto usare comunque lo strumento del piano tentando di farlo dialogare con il progetto, a Barcellona si è registrata negli anni Ottanta la perdita completa di fiducia nel Piano e ci si è affidati totalmente al progetto per affrontare i problemi della città. Nel 1980 una nuova Commissione per l'Urbanistica (assessore l'architetto O. Bohigas) nominata dal Sindaco socialista di Barcellona ha introdotto correttivi determinanti al Plan General Metropolitano approvato nel 1976. I lavori della Commissione hanno indicato come strategia l'allontanamento dai tradizionali piani di grande respiro e il ricorso a progetti di immediata realizzazione sui quali indirizzare anche i programmi di medio e lungo termine. Coerentemente con questa nuova visione degli strumenti di pianificazione e trasformazione urbana, Barcellona ha visto in pochi anni trasformare completamente interi suoi settori. L'occasione delle Olimpiadi del 1992 ha dato ulteriori impulsi al rinnovamento lasciando importanti testimonianze nella Val d'Hebrón, sulla Diagonal, sulla collina di Montjuic (incompiuta dopo l'Expo del 1929) e soprattutto con la Villa Olimpica (o Nuova Icária), un intervento che ha occupato un settore del Poblenou di vecchia industrializzazione degradato e segregato restituendolo alla città. Tra le esperienze urbanistiche spagnole più recenti va annoverata quella che ha interessato la città di Bilbao. Nel 1988 è stato formulato un piano di ristrutturazione e sviluppo urbanistico di ampia portata, teso a differenziare l'economia della città in seguito alla crisi dei cantieri navali e delle industrie pesanti: la strategia del progetto ha puntato sul potenziamento della rete infrastrutturale (due nuove linee di metropolitana, ampliamento dell'aeroporto di Sondika, nuovi ponti sul Nervión e valorizzazione delle banchine) e dell'offerta culturale (creazione di un parco dedicato alla cultura comprendente il Museo Guggenheim di F. O. Gehry e il Palazzo dei congressi e della musica di F. Soriano e D. Palacios) e terziaria (creazione della “Manhattan vasco”, una nuova area residenziale e terziaria immersa nel verde, e ampliamento della Fiera).

Cenni storici: la pianificazione nei Paesi del Nordeuropa

Nei Paesi del Nordeuropa, caratterizzati per lungo tempo da governi di orientamento socialdemocratico e da economie a partecipazione pubblica, le politiche e le realizzazioni urbanistiche hanno seguito per grandi linee il modello originario inglese (sviluppo per città e quartieri “satelliti”), con caratteri di particolarità e di eccellenza dovuti alle specificità locali (geografiche e demografiche) e alla straordinaria continuità amministrativa (soprattutto in tema di politiche abitative, governative). In Danimarca un insieme di politiche urbanistiche coerenti, che hanno interessato in particolar modo la città di Copenhagen (l'unica area urbana del Paese), ha prodotto una situazione urbana di elevato confort e di grande equilibrio. Tale risultato è derivato da una lunga tradizione che passa dagli studi di S. E. Rasmussen e del Dansk Byplanlaboratorium alla fine degli anni Venti, al rapporto “Fasce a verde nella regione di Copenhagen” del 1936, al conseguente vincolo (nel 1938) di un immenso patrimonio di aree verdi, alla prima legge urbanistica del 1938, alla costituzione nell'immediato dopoguerra dell'Ufficio per il Piano Regionale, alla pubblicazione nel 1951 del “piano delle cinque dita” (cinque direttrici di sviluppo radiali, sostenute da linee ferroviarie) e nel 1952 del piano regolatore della città capoluogo fino all'ultimo piano regolatore di Copenhagen del 1993. Tra le esperienze più recenti va segnalata quella del concorso per la pianificazione dell'Ørestad (1994), una nuova area di espansione a sud di Copenhagen con la quale si intende vitalizzare la terra compresa fra la capitale e il mare attraverso il richiamo di attività specializzate e l'offerta di occasioni residenziali e ricreative alla popolazione metropolitana. Anche in Svezia l'esperienza urbanistica si è concentrata intorno al Piano per la “grande Stoccolma”, organizzato fin dal 1950 su uno sviluppo per satelliti (23 quartieri e 5 città: per esempio Vällingby, Farsta) legati alla capitale da un efficiente sistema di trasporti (scelta confermata dal Piano regionale del 1970). Come anche in Danimarca gli anni Ottanta sono stati caratterizzati dalla crescente attenzione per la piccola dimensione e per gli aspetti ambientali, come testimonia il quartiere Bo01 a Malmø sorto come Expo europea dell'housing per il 2001, ispirato ai principi di qualità, identità e contenimento dei consumi energetici. Lo sviluppo pianificato di Helsinki, capitale della Finlandia, segue gli stessi principi, e Tapiola (una delle città satelliti, prevista già dal piano di E. Saarinen del 1918) si propone come modello, ripreso per esempio da Kivenlahati, città satellite di Otaniemi. L'esperienza finlandese è tuttavia arricchita da una particolare attenzione per la definizione anche formale degli spazi urbani, che ha trovato il massimo interprete in A. Aalto (Piani per Imatra, 1951, e per il centro di Helsinki, 1973).

Cenni storici: la pianificazione nell'Europa orientale

L'evoluzione dell'urbanistica nei Paesi socialisti appare dominata dalla problematica dell'industrializzazione e dalla scelta per un'economia rigidamente pianificata, che condiziona l'applicazione degli stessi modelli diffusi anche nel resto d'Europa (grandi quartieri di edilizia standardizzata, città satelliti). L'esperienza dell'Unione Sovietica risente a lungo del vasto programma di ricostruzione postbellica delle città maggiori, ma si estende successivamente alla realizzazione di città satelliti – formate da quartieri (rajon) e unità di vicinato (micro-rajon) o da kombinat, unità di produzione e residenza –, alla creazione di sistemi urbani a scala territoriale e alla fondazione di nuove città (specie in funzione dello sfruttamento minerario e dei programmi di industrializzazione, per esempio Togliattigrad, 1967, e Naberezhnye-Chelny, 1971). L'esperienza dei piani di Mosca (1971; della regione, 1973; aggiornamento, 1984) e di Leningrado, l'odierna San Pietroburgo (1966, restauro del centro storico) costituisce un termine di riferimento importante, che tuttavia non esaurisce l'ampia casistica degli interventi. Stessi principi e stesse soluzioni negli altri Paesi, pur con adattamenti alle specifiche esigenze locali: in Ungheria con una intensa politica di fondazione di nuove città (per aggregazione di kombinat) o nella Repubblica Democratica Tedesca, con importanti interventi di ristrutturazione e ampliamento “per quartieri” delle città esistenti (per esempio Berlino, Dresda), ma anche con la fondazione di nuove città (per esempio Eisenhüttenstadt, Hoyerswerda, Halle Neustadt). Pur sugli stessi orientamenti generali, appare più interessante la vicenda urbanistica della Polonia, caratterizzata da una maggiore attenzione sia per i centri storici sia per la progettazione dei nuovi quartieri e, soprattutto, dall'approfondimento, anche teorico (B. Malisz) dei temi connessi alla pianificazione fisica a scala territoriale. Caratteri di qualche originalità riveste l'esperienza della Iugoslavia, con il piano di ricostruzione di Skopje, distrutta dal terremoto (concorso del 1966, vinto da K. Tange), e soprattutto con il piano di Belgrado (1972) che, rifiutando la scelta degli insediamenti satellite, articola la città metropolitana in tre nuclei spazialmente e funzionalmente distinti.

Cenni storici: la pianificazione in Italia

L'Italia si distingue dagli altri Paesi europei per l'assenza di una politica urbanistica nazionale, e anche per la debolezza e discontinuità delle politiche abitative. La legge fondamentale (la 1150 del 1942), di carattere prevalentemente amministrativo, e non di indirizzo, prevede un'articolata strumentazione pianificatoria (dal livello territoriale a quello attuativo), che tuttavia è rimasta in gran parte disattesa. Subito dopo la guerra si ritenne tale sistema di piani (interpretato come rigidamente deduttivo e scalare) troppo complesso, e si procedette quindi in ambito urbano con piani di ricostruzione immediatamente operativi. L'attenzione e le risorse governative si concentrarono però sulla ricostruzione delle infrastrutture territoriali e del sistema industriale: da un lato fidando ancora una volta sulla robustezza della rete urbana che storicamente caratterizza il Paese; dall'altro lato nel timore che una pianificazione troppo rigorosa potesse deprimere il settore edilizio-immobiliare, ritenuto trainante per l'economia nazionale (specie per l'occupazione). L'intervento nel settore abitativo, organizzato su due “piani settennali” fu affidato all'INA-Casa, che operò prevalentemente con la realizzazione di quartieri, spesso di grande qualità progettuale, ma quasi sempre svincolati dai piani urbanistici esistenti; irruenta invece la crescita dell'edilizia privata, sostenuta da un vasto processo di inurbamento, dalla crescita dell'economia in generale e da numerose disposizioni a carattere genericamente agevolativo. Dalla metà degli anni Cinquanta le città maggiori cominciano a dotarsi dei “nuovi” Piani Regolatori Generali (PRG), estesi all'intero territorio comunale; i Comuni diventano pertanto i soggetti principali e quasi esclusivi della pianificazione, salvo l'approvazione amministrativa dei rispettivi piani, prima da parte del Ministero dei Lavori Pubblici, poi delle Regioni. I PRG comunali, tuttavia, si configurano in genere piuttosto come strumenti di regolamentazione dell'attività edilizia (prevalentemente privata) che come veri e propri piani urbanistici, o strumenti di pianificazione degli interventi pubblici; quasi assente la strumentazione attuativa, pure prevista (piani particolareggiati), spesso disattese o stravolte le previsioni di piano, sotto la spinta degli interessi fondiari, anche a carattere speculativo. Nel corso degli anni Sessanta, in coincidenza con il tentativo di avviare nel Paese la programmazione economica (“Progetto '80”), il tema della riforma urbanistica (centrata sulla questione degli espropri) diventa oggetto di un'ampia campagna di opinione (Istituto Nazionale di Urbanistica) e di scontro politico. Nel 1962 è approvata la legge n. 167, che doveva riportare nell'ambito della pianificazione (locale) gli interventi di edilizia abitativa (affidata alla GESCAL), attraverso i Piani di edilizia economica e popolare (PEEP) e i piani di zona (attuativi del PEEP e del PRG), consentendo ai Comuni di espropriare le aree necessarie, ma a prezzi sostanzialmente di mercato. Le difficoltà di attuazione di tale legge, insieme alla scarsa diffusione della pianificazione nel Paese, ad alcuni scandali urbanistici (per esempio frana di Agrigento), e infine ai movimenti studenteschi e operai della fine degli anni Sessanta, che rivendicano il diritto all'abitazione, portano alla cosiddetta “legge ponte” (legge 765/1967, nelle intenzioni a carattere provvisorio) e alla legge di riforma per la casa (legge 865/1977, istituzione degli IACP, Istituti autonomi per le case popolari) che, tra l'altro, fissa il prezzo degli espropri in riferimento al valore agricolo, anziché al prezzo di mercato. Se la seconda contribuisce a sbloccare nelle grandi città i programmi di edilizia pubblica e assistita, la prima, seguita dal decreto che istituisce gli standard urbanistici (quantità minime di verde e servizi per abitante da prevedersi nei piani), contribuisce a diffondere la pianificazione urbanistica nella quasi totalità dei comuni, sia pure in termini prevalentemente amministrativi. Nel corso degli anni Settanta si attua la riforma costituzionale, con l'istituzione delle Regioni a statuto ordinario e il passaggio dallo Stato alle Regioni delle competenze anche in materia di urbanistica, ambiente e programmazione socio-economica. Anche questo importante passaggio, tuttavia, non induce una vera e propria riforma urbanistica, né (con poche eccezioni, quali, per esempio, i Piani regionali dell'Emilia-Romagna e dell'Umbria) il rilancio della pianificazione a scala sovracomunale (vengono anzi abbandonate le proposte formulate alla fine degli anni Sessanta come “proiezioni territoriali” delle scelte di programmazione nazionale, CRPE). Piuttosto che come enti amministrativi di programmazione e gestione del territorio le Regioni si qualificano in realtà come soggetti legislativi: la maggior parte di esse si dota tuttavia di proprie leggi “urbanistiche”, assumendo di fatto la legge del 1942 come quadro di riferimento per la costruzione delle procedure burocratiche regionali, su modello di quelle statali, prevalentemente in funzione dell'approvazione dei piani comunali. Di scarsa incidenza l'azione regionale anche nel settore abitativo, dal 1977 (legge 457) cogovernato dal CER (Comitato per l'edilizia residenziale), organismo ministeriale al quale pure partecipano le Regioni stesse. Nel corso degli anni Settanta, in parallelo all'attenuarsi delle tensioni all'inurbamento (con arresto o addirittura il regresso demografico delle città maggiori), al diffondersi del benessere, e ai primi segnali di crisi del modello di sviluppo industriale (oltre che della produzione edilizia), matura nella cultura urbanistica, e poi nel Paese, una maggiore attenzione per i fenomeni di “spreco edilizio” (sottoutilizzazione del patrimonio abitativo, a fronte di persistenti problemi abitativi), per la situazione dei centri storici, per la carenza delle attrezzature urbane (con conseguenti fenomeni di congestione delle aree centrali), per le questioni ambientali. Tali istanze trovano parziali risposte nelle leggi 10/1977, 457/1978 e 392/1978. La prima mira a riformare il regime dei suoli (le norme fondamentali, relative agli espropri, sono tuttavia dichiarate ancora una volta incostituzionali nei primi anni Ottanta, mettendo in crisi anche la legge 865/1971: la questione sarà risolta, in via provvisoria, solo nei primi anni Novanta), stabilisce contributi obbligatori alle spese di urbanizzazione, delinea forme istituzionali di collaborazione tra il settore pubblico (a livello locale) e gli operatori privati, istituisce i Programmi pluriennali di attuazione, che dovrebbero articolare nel tempo l'attuazione del PRG, mantenendo un equilibrio tra azione pubblica (realizzazione delle urbanizzazioni) e iniziativa privata. La seconda (457/1978), nell'ambito di una ennesima riforma, e di un rilancio dell'azione programmatoria e finanziaria dello Stato nel settore abitativo, prevede in forma più estesa che in passato contributi e agevolazioni per gli interventi di recupero e riqualificazione edilizi e istituisce i Piani di recupero (di iniziativa comunale o privata), che verranno sperimentati soprattutto nei centri storici. La terza infine (legge 392/1978, per l'“equo canone”) rimuove il pluridecennale “blocco dei fitti”, avviando nelle intenzioni, pur tra cautele, ritardi, contraddizioni e incertezze di attuazione, la liberalizzazione “controllata” del mercato degli affitti. L'impatto concreto di tali riforme (parziali) sulla pianificazione urbanistica, che rimane ancora prevalentemente a carico dei Comuni, è tuttavia assai modesto. Nel corso degli anni Ottanta, i tempi lunghi (o resi tali dall'inefficienza burocratica) di elaborazione e, soprattutto, di approvazione dei piani, le procedure pubbliche di assunzione delle scelte fondamentali per il governo cittadino, l'impegno programmatico espresso dai piani (quasi mai rispettato dalle stesse amministrazioni) non trovano riscontro nei tempi convulsi della politica, nelle iniziative dei principali soggetti economici, spesso improntate alla speculazione o all'accaparramento delle risorse pubbliche, nel quadro di un'economia e di una cultura civile che stentano a registrare le trasformazioni in corso a livello planetario (caduta dei “blocchi” politico-ideologici, crisi generalizzata del modello industriale, prevalenza e instabilità dei mercati finanziari, effetti delle nuove tecnologie, integrazione “dei Paesi in via di sviluppo”, emergenze ambientali, ecc.). Anche nelle grandi città la pur indifferibile revisione dei PRG, per la quale non mancano studi, elaborazioni tecnico-culturali e proposte innovative, viene avviata in ritardo e stenta oltre tutto a giungere a conclusione (nel 1987 viene proposto dallo studio Gregotti il piano regolatore per la città di Torino, approvato solo nel 1995). Ma è soprattutto la carente (o inesistente) gestione dei piani che mette in crisi il funzionamento delle reti urbanizzative, delle attrezzature e dei servizi pubblici, del traffico urbano, fino a determinare situazioni di paralisi amministrativa e anche vere e proprie crisi ambientali (per esempio blocco temporaneo della circolazione delle auto). Il fiorire di pianificazioni specialistiche “di settore” (per esempio piani del traffico), di estemporanee innovazioni amministrative, e l'orientamento a intervenire per singoli progetti (a carattere puntuale, ma anche di rilevanti dimensioni e impatto, soprattutto in occasione di manifestazioni di rilievo internazionale, di incontri politici di importanza mondiale, o delle ricorrenti catastrofi: terremoti, frane, alluvioni), svincolati da un coerente quadro di insieme, lungi dal fornire soluzioni ai problemi emergenti, contribuiscono a smembrare i meccanismi di gestione delle città e del territorio. Alla metà degli anni Ottanta le istanze dell'ambientalismo trovano risposta, inopinata e ampiamente insufficiente, con la legge 431/1985 che modifica (a posteriori) i contenuti stessi del trasferimento delle competenze, istituendo una sorta di cogestione tra Stato e Regioni nella tutela ambientale, concepita ancora prevalentemente in termini vincolistici. Nell'incapacità di produrre leggi organiche in materia, la legge 431/1985 estende infatti in maniera generalizzata i vincoli “paesaggistici” di cui alla legge 1497/1939, che fino ad allora aveva trovato scarsa e solo puntuale applicazione; su questa base, benché alquanto impropria, si innesca tuttavia una ripresa delle attività di pianificazione a scala territoriale (o “di area vasta”), con i Piani territoriali paesistici (regionali), che da un lato superano decisamente l'impostazione originaria, assumendo di fatto carattere di tutela ambientale, dall'altro lato stimolano la formazione, o almeno l'esigenza, dei piani territoriali di coordinamento (PTC), anch'essi già previsti dalla legge del 1942, ma di scarsa o nulla applicazione nel tempo. Sullo scorcio del sec. XX numerosi altri provvedimenti vengono peraltro assunti in materia ambientale: dalla istituzione delle autorità e dei piani di bacino per i fiumi, a quella di nuovi parchi e aree protette di livello nazionale e regionale. Con la legge 142/1990 per la riforma delle autonomie locali (soppressione dei comuni minori, istituzione delle città metropolitane, trasferimento alle Province delle competenze relative all'amministrazione e alla pianificazione urbanistica, nel quadro delle attribuzioni regionali in materia di programmazione socio-economica), il quadro di riferimento, ancora largamente incompleto e disorganico, lascia tuttavia intravvedere la possibilità di avvio di una nuova fase dell'urbanistica italiana. Agli inizi degli anni Novanta, un nuovo strumento operativo, il programma integrato (legge 179/1992), viene incontro alle endemiche difficoltà pianificatorie della legislazione urbanistica italiana, difficoltà insite nell'operare previo esproprio e nella debolezza degli strumenti a questo alternativi. Il programma, pur privo della facoltà espropriativa, esalta il carattere integrativo delle dimensioni coinvolgibili (la città, i soggetti pubblici e privati e le relative risorse economiche, finanziarie e organizzative) introducendo lo strumento dell'accordo di programma. Il programma integrato si connota pertanto come strumento per eccellenza per rinnovare la città. L'applicazione che se ne fa nelle vesti di Programma di riqualificazione urbana (D.M. 21 dicembre 1994) e di Programma di recupero urbano (legge 493/1993) avviene quasi prevalentemente nell'ambito di interventi generalmente riferibili al rinnovo urbano (rifunzionalizzazione di aree industriali dismesse e di parti degradate della città; completamento delle urbanizzazioni nelle zone già oggetto di interventi di edilizia residenziale pubblica; ecc). Nonostante la proliferazione di strumenti finalizzati al rinnovo dell'esistente, la situazione italiana è rimasta carente di una politica coerente in tal senso e gli interventi realizzati sono ancora di dimensioni troppo esigue, in rapporto ai contesti, per poter incidere significativamente sulla città e sul territorio. Dalla metà degli anni Novanta alcune città italiane hanno approfittato degli aiuti dell'iniziativa europea “Urban”, nata nel 1994 e continuata nel 2000 con l'obiettivo di affrontare il degrado urbano in oltre cento città europee. I siti “Urban” sono stati selezionati in base a indicatori socioeconomici oggettivi (situazione economica e sociale, disoccupazione, scarsa attività economica, povertà ed emarginazione, elevata presenza di immigrati e minoranze etniche, basso livello d'istruzione, elevata criminalità, andamento demografico instabile, precaria situazione ambientale) e secondo altri fattori come la qualità del programma proposto, l'equilibrio nella distribuzione dei programmi all'interno dello Stato membro e la coerenza con le azioni nazionali e dell'Unione Europea. In Italia i progetti “Urban” sono stati attivati nelle città di Carrara, Caserta, Crotone, Genova, Milano, Misterbianco, Mola di Bari, Pescara, Taranto e Torino.

Bibliografia

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