Periodo napoleonico, romanticismo e letteratura risorgimentale

Il periodo napoleonico e Vincenzo Monti

La rivoluzione francese significa per gli italiani la diffusione delle nuove idee giacobine. Si apre un intenso e a volte drammatico dibattito politico, che ha il suo vertice nell'opera di Vincenzo Cuoco. La stagione napoleonica coincide invece con il consolidamento del gusto neoclassico incarnato dal suo protagonista indiscusso, Vincenzo Monti.

L'Italia rivoluzionaria

Nonostante il fermento generale, la situazione italiana cambia solo con l'entrata dell'esercito francese, che sotto la guida di Napoleone invade nel 1796 l'Italia settentrionale, permettendo il sorgere di varie repubbliche locali. Sono momenti difficili e ricchi di speranze come di cocenti delusioni. La Repubblica Cisalpina nasce quando la Lombardia viene liberata dagli austriaci, ma con il Trattato di Campoformio (1797) Napoleone cede Venezia all'Austria; la Repubblica Partenopea, a cui avevano aderito con entusiasmo intellettuali e letterati, finisce tragicamente sui patiboli dei Borboni (1799).

I più avanzati fra gli intellettuali italiani danno un forte contributo alla ricerca di una cultura capace di maggiore partecipazione agli eventi pubblici. L'impegno dei nuovi giornali (durante il triennio giacobino, 1796-99, nascono più di cento testate, tra cui spiccano "Il Monitore italiano" e "Il Monitore napoletano"), il dibattito pubblico sempre più acceso e fecondo (grande risonanza ebbe il concorso bandito, nel settembre del 1796, dall'amministrazione generale della Lombardia sul tema "Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità dell'Italia?", vinto poi da Melchiorre Gioia) rivelano un entusiasmo civile che certo ha le sue origini nelle elaborazioni culturali dell'Illuminismo italiano, ma che solo ora, durante lo sviluppo degli eventi, esce dai circoli ristretti e influenza scelte politiche.

 

Critica del giacobinismo

L'esito del giacobinismo francese nella politica del terrore e soprattutto le necessità della politica imperiale di Napoleone, vista come l'imposizione con le armi al resto dell'Europa degli orientamenti della Francia rivoluzionaria sono i motivi principali di una critica alle esperienze rivoluzionarie della Francia nel tentativo di individuare un nuovo realismo politico di tono moderato e meno schematico. La critica antigiacobina e le nuove tendenze spirituali che presto diventeranno "romanticismo" sono il fondamento del pensiero liberale, che sarà il cardine della cultura ottocentesca.

Vincenzo Cuoco (1770-1823) è la personalità più rilevante di questi anni. Partecipò alla rivoluzione napoletana del '99 e fu esiliato; durante il regime napoleonico visse a Milano, dove diresse il "Giornale italiano" e pubblicò il romanzo filosofico Platone in Italia (1804-06). Tornò a Napoli, lavorando per il governo di Gioacchino Murat. Col ritorno dei Borboni, fu messo da parte. Il suo capolavoro è il Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, che pubblicò prima anonimo (1801) e poi col suo nome nel 1806. Lucidissimo, con una prosa scarna ma elegante, il saggio critica l'astrazione del giacobinismo italiano che aveva fatto della rivoluzione del '99 una "rivoluzione passiva", miope rispetto alle esigenze vere della "nazione" e del "popolo". Cuoco mostra un grande senso realistico della storia, e rivendica l'autonomia della rivoluzione italiana.

 

La letteratura del periodo napoleonico

Il classicismo assume un ruolo fondamentale di coesione culturale, sebbene in un certo senso sia un paradosso culturale: fu l'orientamento letterario più diffuso durante il periodo napoleonico, ma anche durante gli anni conformistici della Restaurazione, quando fu matrice dell'Italia papalina. Se consideriamo l'importanza storica di un evento come il neoclassicismo, la variante "classicista" appare come il nodo più difficile, ma anche più significativo, per comprendere la cultura di questi anni. Ricordiamo l'inestricabile continuità fra classicismo settecentesco e la nuova prospettiva neoclassica in autori come M. Cesarotti, A.Verri che sono la prova storica più chiara di questa paradossale continuità fra tradizione e innovazione. Diverso il caso di Pietro Giordani (1774-1848), fedele a un classicismo retorico ed eloquente, con un tono rigoroso, un'idea seria, morale e dignitosa della letteratura.

Ippolito Pindemonte (1753-1828) propose un classicismo equilibrato e musicale. Nelle Prose e poesie campestri e nell'epistola in versi Sepolcri (1807) aveva mostrato una certa grazia e levigatezza del tono; il suo capolavoro rimane la bellissima elegiaca traduzione dell'Odissea (1822).

Vincenzo Monti

Vincenzo Monti (1754-1828) fu il massimo esponente del neoclassicismo italiano e ricoprì una posizione di prestigio durante il periodo napoleonico e i primi anni della restaurazione.

 

La vita e le opere

Nato a Fusignano di Alfonsine, presso Ravenna, si formò nel seminario di Faenza e seguì i corsi di giurisprudenza e medicina all'università di Ferrara. Nel 1776 pubblicò il suo primo libro di versi, La visione di Ezechiello, dedicato al cardinale Scipione Borghese. Il successo dell'opera e la protezione del cardinale gli permisero di trasferirsi a Roma, dove rimase fino al 1797. Il clima culturale della città papale, caratterizzato da un neoclassicismo erudito e tradizionalista, si rivelò subito congeniale a Monti, che si dedicò a una produzione poetica celebrativa del potere pontificio: La bellezza dell'universo (1781) per le nozze di Luigi Braschi, nipote del papa, la Feroniade (pubblicata postuma nel 1832) per esaltare con una visionarietà "allucinatoria" il progetto di risanamento delle paludi Pontine e la celebre Ode al signor di Montgolfier (1784), che canta il primo volo in pallone aerostatico. Monti si cimentò con successo anche nel teatro, scrivendo due tragedie, l'Aristodemo (1786) e il Galeotto Manfredi (1788). Nel 1791 si sposò con la bellissima Teresa Pikler. Nel 1793 avviò la Bassvilliana, in terzine dantesche (notevole per intensità visionaria e facilità narrativa), in cui, prendendo spunto dall'assassinio a Roma del rivoluzionario francese J. Hugou, detto Bassville, convertitosi in punto di morte, condanna gli orrori della rivoluzione francese e celebra la grandezza della fede redentrice.

Negli anni successivi, però, mostrò una moderata simpatia per la rivoluzione: sospettato dall'autorità romana, fu costretto a fuggire a Milano sotto la protezione di Napoleone.

A Milano divenne poeta ufficiale del nuovo potere napoleonico. Esaltò Napoleone nel Prometeo (1797), nell'ode Per la liberazione d'Italia (1801) e ancora nel poemetto In morte di L. Mascheroni (1801) e nella tragedia Caio Gracco (1802). Sempre più inserito negli ambienti ufficiali del regime, celebrò la gloria dell'imperatore dei francesi in vari componimenti poetici d'occasione, con ampi riferimenti al mito greco. Fu ricompensato con la nomina a poeta del governo italiano (1804) e a storiografo del Regno d'Italia (1806). L'indiscussa egemonia sull'ambiente letterario milanese fu rafforzata dalla pubblicazione della traduzione dell'Iliade (1810), da lui compiuta su traduzioni latine, poiché conosceva poco il greco. Il risultato della versione è comunque esaltante: una lingua precisa e luminosa, un sentimento epico che sa alternare malinconia, epos e narrazione in toni quasi dolci e familiari.

Alla caduta di Napoleone, Monti si schierò subito con i vincitori, ai quali dedicò le azioni teatrali Il mistico omaggio (1815); Il ritorno d'Astrea (1816); Invito a Pallade (1819). Il governo asburgico cercò di utilizzarne l'indiscutibile prestigio nominandolo direttore della rivista letteraria "Biblioteca italiana", ma Monti si trovò a essere progressivamente emarginato. Partecipò comunque con vivo interesse al dibattito sulla questione della lingua con la Proposta di alcune correzioni e aggiunte al vocabolario della Crusca (1817-26), scritta in collaborazione con il genero Giulio Perticari, assumendo una posizione critica nei confronti del purismo più radicale. Diede il proprio contributo alla grande polemica sul romanticismo con lo scritto Sermone sulla mitologia (1825), in difesa del valore poetico dei miti classici (la "meraviglia" e il "portento" delle favole mitologiche contro "al nudo arido vero"). La sua ultima opera, scritta a più di settant'anni, Pel giorno onomastico della mia donna Teresa Pikler (1826) è un testo ricco di sensibilità e di una melanconia sapientemente costruita ma non soffocata dall'eleganza neoclassica.

 

Il giudizio critico

Il dato più evidente della personalità di Monti è senza dubbio la sua plateale disponibilità a cambiare collocazione politica; anche in un periodo di grande travaglio come quello rivoluzionario e napoleonico, in cui tutti gli equilibri ideali, politici e militari vennero continuamente messi in discussione, è sconcertante osservare la sua totale mancanza di coerenza. Bisogna comunque dire che il poeta romagnolo espresse a suo modo una forma di coerenza, incentrata sul ruolo che egli aveva scelto per sé fin dall'inizio: il ruolo del poeta di corte, del letterato fedele alla tradizione del Cinquecento e soprattutto del Seicento. Ebbe così un gran merito: creare un "classicismo borghese italiano", il carattere di una cultura finalmente nazionale, definita rispetto allo stile neoclassico internazionale.

Il periodo napoleonico e Vincenzo Monti in sintesi

Anni della rivoluzione Molti giornali italiani ("Il Monitore italiano", "Il Monitore napoletano") contribuiscono al diffondersi di una cultura capace di partecipare agli eventi pubblici.
La critica antigiacobina Il più grande critico del giacobinismo è il napoletano Vincenzo Cuoco, che nel suo Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 ne denuncia l'astrazione ideologica e la mancanza di una prospettiva politica realistica per l'Italia.
Monti Gli anni romani Nel clima neoclassico papalino scrive opere come l'Ode al signor di Montgolfier (1784) e la Bassvilliana (1793).
Gli anni milanesi Passa al servizio di Napoleone. Scrive Il pericolo (1798) e Per la liberazione d'Italia (1801); pubblica la traduzione dell'Iliade (1810).
La Restaurazione Con la Restaurazione passa al servizio degli austriaci. Scrive Pel giorno onomastico della mia donna Teresa Pikler (1826).
Giudizio critico Monti è il più grande poeta neoclassico. Nonostante l'incoerenza politica, ebbe un gran merito: creare un "classicismo borghese italiano", il carattere di una cultura finalmente nazionale, definita rispetto allo stile neoclassico internazionale.

Il romanticismo

Il romanticismo si diffonde per tutto l'Ottocento: in un certo senso è la cultura del secolo. Non è una semplice contrapposizione alla razionalità dell'illuminismo, anche se rispetto alla ragione mette l'accento sulla fecondità della passione, dell'irrazionalità e dell'indicibile. In realtà il romanticismo si presenta in sorprendente continuità con la ricerca illuministica del "moderno"; però, come se la sua maturazione si manifestasse in una sorta di trasgressione e di radicale novità culturale. D'altra parte, il romanticismo per tutto l'Ottocento raccoglierà orientamenti diversi e contrastanti: dall'esaltazione di un libertario individualismo alla proposta del più introverso, se non reazionario, spirito di conservazione. In Italia la polemica romantica è condotta dalle riviste "Il Conciliatore"e "L'Antologia": esponenti di spicco sono Giovanni Berchet e Silvio Pellico. Collaterali al romanticismo sono gli esiti altissimi della poesia in dialetto del milanese Carlo Porta e del romano Gioacchino Belli.

L'idea romantica

Gli elementi essenziali che costituiscono il tessuto del nuovo movimento romantico sono individualismo e popolo, natura, storia, amore totale, il senso di squilibrio dell'io tra fiaba e quotidiano.

L'io si deve esprimere; l'arte e la lingua non sono strumenti di conoscenza razionale, bensì espressioni istintive della libertà individuale e insieme dello spirito e dell'identità profonda del popolo. Se viene rifiutato il meccanicismo illuministico è solo perché la natura, per i romantici, resta il segreto stesso dell'energia vitale, la forza spirituale che parla attraverso i simboli e le analogie. Nella storia tutto è dinamico, anzi è rivoluzionario e procede per fratture, superamenti, sintesi e crisi. Il sentimento è romanticamente un dramma perpetuo; l'amore è una prova estrema e coincide ironicamente con l'incompiutezza e la passione del frammento. Il senso di squilibrio (cioè l'aspetto negativo) dell'io, rispetto ai limiti del tempo e della realtà, mette il soggetto in una condizione di drammaticità che può ridursi sia a fiaba (i misteri delle tradizioni popolari, l'onirismo, il culto oscuro del Medioevo o l'esotico), sia paradossalmente alla quotidianità, in uno sguardo realistico ugualmente esasperato e assoluto.

Il romanticismo italiano

Il romanticismo italiano si delinea come un modello culturale più cauto e prudente rispetto agli analoghi movimenti tedesco e inglese. Non fu mai una vera rottura con la tradizione. Anzi, in certi casi divenne un'occasione in più per esperire nuove formule rispettose della tradizione letteraria umanistica. La negazione di qualsiasi estremismo condusse a un dibattito meno ricco, ma non per questo meno interessante, rispetto a temi fondamentali come la ricerca di un linguaggio "popolare", cioè non accademico e astratto, o la necessità di proporre una letteratura nazionale "utile" al progresso collettivo.

 

Origini e prima generazione romantica

Il romanticismo italiano trovò la sua elaborazione nei dibattiti pubblici delle riviste. Quando la "Biblioteca italiana" diretta da Giuseppe Acerbi aprì il suo primo numero con l'articolo di Madame de Staël Sulla maniera e l'utilità delle traduzioni, si avviò immediatamente un acceso dibattito fra classicisti e romantici. La rivista aveva un'impostazione classicista, senza mai essere settaria. La polemica, del resto, si irrigidì su questioni quasi secondarie (l'uso della mitologia classica, il rapporto con le letterature straniere, l'unità drammatica del modello aristotelico). Posizioni classicistiche più intelligenti (Pietro Giordani) mantennero un sicuro punto in comune con le riflessioni romantiche nel desiderio di una letteratura italiana "universale".

I romantici italiani si raccolsero attorno alla rivista milanese "Il Conciliatore", durata però solo un anno (1818-19) perché soppressa dalle autorità austriache. Nel gruppo emersero Pietro Borsieri (1788-1852), autore del divertente e ironico Avventure letterarie di un giorno (1816) e della stesura del Programma del "Conciliatore"; Ludovico di Breme (1780-1820), un intellettuale di livello europeo, forse l'unico italiano capace di misurarsi con le riflessioni degli idéologues. Il gruppo del "Conciliatore" tentò di mantenere in vita la ricerca del nostro migliore illuminismo, sostenendo con la novità romantica un senso storico della cultura, del senso civile e di una comune coscienza nazionale.

 

Giovanni Berchet

Il milanese Giovanni Berchet (1783-1851) è famoso soprattutto per la Lettera semiseria di Giovanni Grisostomo al suo figliuolopubblicata nel 1816 nella "Biblioteca italiana" e considerata il manifesto del romanticismo italiano. La finzione di un padre che intende spiegare al figlio collegiale il significato della poesia romantica (presentandogli la traduzione, fatta dallo stesso Berchet, di due ballate del poeta tedesco Gottfried August Bürger) serve ad affermare il carattere sostanzialmente "popolare" della poesia e il suo rapporto storico con il popolo. Nel rapporto fra scrittore e pubblico, il "popolo" rappresenta il gusto medio e borghese, opposto sia agli intellettuali raffinati, i "parigini", sia alla plebe ignorante gli "ottentotti". Berchet, esule in Francia, Inghilterra e Belgio perché carbonaro, tradusse molto (Il Bardo di Thomas Gray e il romanzo Il curato di Wakefield di Oliver Goldsmith) e tentò egli stesso, soprattutto con I profughi di Parga (1819-20) e le Romanze (1824), quel gusto medio della poesia "popolare" che aveva teorizzato.

 

Silvio Pellico

Silvio Pellico (1789-1854), piemontese di Saluzzo, è figura di rilievo del romanticismo risorgimentale. Colto e amico di letterati italiani e stranieri, compose soprattutto tragedie. La sua Francesca da Rimini venne rappresentata con grande successo nel 1815. Collaborò attivamente al "Conciliatore", pubblicandovi anche la prima parte di un romanzo, Breve soggiorno in Milano di Battistino Barometro, che lasciò incompiuto. Nel 1820 fu arrestato come carbonaro e trasferito ai Piombi di Venezia; la condanna a morte fu commutata poi nella carcerazione allo Spielberg, una fortezza in Moravia, dove rimase fino al 1830. Appena graziato compose l'opera autobiografica per cui è più noto, Le mie prigioni (1832), che ebbe un grandissimo successo di pubblico in Italia e all'estero (tradotta già nel 1833 in francese e successivamente in altre lingue). Letta subito, al di là delle intenzioni dell'autore, come atto di accusa contro il regime austriaco, l'opera è la sofferente descrizione del mondo del carcere come luogo dominato dall'ingiustizia e dalla violenza, popolato di emarginati e vittime, illuminato talvolta da gesti di intensa pietà umana. Dopo la liberazione si dedicò ancora alla tragedia, scrivendo tra le altre Leoniero da Dertona e Gismonda da Mandrisio (1832), Corradino (rappresentato nel 1834 e pubblicato postumo), Eugilde della Roccia (1832), che solo in parte ripeterono il successo della Francesca da Rimini. Di scarso interesse è il suo trattato morale Dei doveri dell'uomo (1834).

Carlo Porta

Carlo Porta (1775-1821), poeta in dialetto milanese, occupa un posto particolare nel romanticismo italiano, esponente di quello che potremmo chiamare realismo romantico. Funzionario statale, nel 1792 pubblicò El lavapiatt del Meneghin ch'è mort (Il lavapiatti del Meneghin che è morto) e, intorno al 1804, una spigliata e popolare versione-travestimento in milanese dell'Inferno di Dante. In un articolo sulla "Biblioteca italiana" (11 febbraio 1816) Giordani aveva attaccato la poesia dialettale, considerandola un esempio deleterio di particolarismo, da superare nella "pratica della comune lingua nazionale". A questo attacco Porta rispose con violenti sonetti e con l'adesione alle proposte romantiche. Però, più che adesione fu semplice simpatia o, meglio, un interesse aperto a quella prospettiva di modernità e di spontanea comunicatività che Porta pensava essenziale non del romanticismo ma della poesia stessa. Intenso fu comunque il ruolo che egli ebbe nella vita culturale milanese: raccolse intorno a sé un ristretto e familiare cenacolo di giovani letterati lombardi, tra cui G. Berchet, T. Grossi, E. Visconti; vi partecipò anche lo scrittore francese Stendhal, che ammirava molto la poesia di Porta. Dal 1814 al 1816 il poeta cominciò a raccogliere in vari quaderni autografi le proprie opere, che dopo la sua morte subirono censure moralistiche e cancellazioni da parte di Luigi Tosi. Nel 1817 viene pubblicata una piccola raccolta dal titolo Poesie. Postuma l'edizione del 1826 curata dall'amico Tommaso Grossi. Il mondo di Porta è una straordinaria rappresentazione linguistica del popolo e della borghesia che affollano piazze e mercati della Milano del tempo. La sua opera è un altissimo risultato di rapida e guizzante comicità e di dolente satira sociale, come forse non accadrà mai più (eccetto per il poeta romano G.G. Belli) in tutto il nostro Ottocento. Determinanti sono una profonda ma mai corriva simpatia per il mondo dei perdenti e degli oppressi e l'infinita varietà dei registri del dialetto. Tra i risultati più straordinari, che lo pongono tra i grandi della nostra letteratura, i componimenti poetici On miracol (1813-14); La nomina del cappellan (1819-20); I desgrazi de Giovannin Bongee (1812-13); La Ninetta del Verzee (1814); El lament del Marchionn di gamb avert (1816), On funeral (1816).

Giuseppe Gioachino Belli

Figura complessa e a lungo ignorata della letteratura italiana, il romano Giuseppe Gioachino Belli (1791-1863) rappresenta con Porta una voce particolarmente significativa del realismo romantico.

Nato da una famiglia impiegatizia fedele al regime pontificio, lavorò a lungo come funzionario del governo papalino. La sua formazione proseguì quindi in maniera autodidatta: fu ampia e disordinata, subito caratterizzata da forti interessi letterari. Conobbe e apprezzò grandemente la poesia dialettale di Porta. Dal 1830 al 1837 e dal 1842 al 1849 scrisse i Sonetti in romanesco. Fu uomo d'ordine sempre più marcatamente conservatore, al punto di rinnegare persino la propria opera dialettale.

I 2279 sonetti di Belli sono stati pubblicati integralmente solo nel 1952. Nella Introduzione, scritta nel 1831, il poeta indicò chiaramente il senso del proprio lavoro: "Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che è oggi la plebe di Roma. Il poeta non si pone illusioni pedagogiche che possano far da velo al suo sguardo e soprattutto non rintraccia nel popolo mitiche innocenze da esaltare: la plebe romana è il frutto corrotto di un sovrapporsi plurimillenario di civiltà. Belli osserva distaccato tutto ciò: non è il suo mondo, è il mondo in cui si trova; per rappresentarlo egli si crea uno strumento di grande efficacia: una voce narrante, che si frappone tra l'autore e l'argomento della sua opera, che si serve di un dialetto senza variazioni di registro. Delinea così, sonetto dopo sonetto, un mondo in cui tutto si ripete rimanendo immobile: è l'inferno romano in cui, come in quello dantesco, non c'è il divenire. La battuta finale del sonetto è spesso una riduzione a nulla di quanto si era fatto intravedere. Da questo senso d'impotenza elevato a sistema nasce l'amara comicità belliana, che si risolve spesso in uno sberleffo verso i potenti. Il mondo dei Sonetti è staticamente ingiusto: neppure dalla morte è possibile sperare un cambiamento, ma all'improvviso, in alcuni scorci, mostra dentro di sé momenti di profonda delicatezza, di umanità offesa che il poeta sembra quasi celare per pudore.

Il romanticismo italiano in sintesi

Il romanticismo I temi della cultura romantica sono l'esaltazione dell'individualismo e della natura del genio; l'affermazione del continuo divenire della storia; la supremazia della passione, del sogno e del dramma personale. Anche la fiaba è un modo per scoprire le passioni naturali del popolo.
Romanticismo italiano Giovanni Berchet (Lettera semiseria di Giovanni Grisostomo al suo figliuolo, 1816) afferma il carattere "popolare" (nel senso di borghese) della poesia romantica; Silvio Pellico (con Le mie prigioni, 1832) ottiene un grande successo descrivendo le sue sofferenze di patriota incarcerato dall'Austria.
Carlo Porta Simpatizzante del movimento romantico, Carlo Porta scrive in un duttilissimo dialetto milanese. Le sue Poesie (1826) sono un esempio altissimo di dolente satira sociale e di guizzante comicità, riflesse nell'infinita varietà di registri del dialetto.
Giuseppe Gioachino Belli Con i suoi 2279 Sonetti intende lasciare un "monumento" alla plebe romana, osservata con occhio distaccato, in un "inferno"' in cui tutto si ripete rimanendo immobile. Da questo senso di impotenza nasce l'amara comicità belliana.

La letteratura risorgimentale

Si può parlare di letteratura risorgimentale solo a partire dal 1830, quando l'impegno politico assume una centralità e un'urgenza che non erano ancora evidenti nei decenni precedenti. D'altra parte, il Risorgimento italiano nasce proprio da una maturazione storico-culturale che passa per la crisi della Carboneria e delle azioni isolate e approda a una coscienza politica e culturale nazionale in senso moderno. Secondo la fortunata formulazione di De Sanctis sono due i grandi parametri del pensiero politico risorgimentale: la scuola democratica e quella cattolico-liberale. Sul piano più strettamente artistico, gli esiti più alti vengono dal romanzo di Nievo e dalla storiografia letteraria di De Sanctis.

La scuola democratica

La crisi dei moti carbonari, lo sviluppo del liberalismo europeo richiedevano in Italia un impegno politico nuovo. In un certo senso, quello che mancava era proprio una coscienza politica che partisse dalla mobilitazione delle forze interne del popolo italiano. Fu Mazzini il punto di questa nuova sintesi, ma altre personalità scrissero e si mossero in questa direzione.

Giovanni Ruffini (1807-1881), un amico di Mazzini, dopo i primi anni di impegno politico trasferitosi in Inghilterra, scrisse in inglese i due romanzi Lorenzo Benoni (1853) e Il dottor Antonio (1855), che ebbero grande successo e contribuirono a diffondere all'esterno le vicende del Risorgimento italiano. La narrazione, sempre nostalgica e struggente, è ricca di riferimenti autobiografici.

Esempio di radicalismo democratico fu il fiorentino Francesco Domenico Guerrazzi (1804-1873), il cui romanticismo è un modello di provocazione e di cruda volontà polemica. Gli esuberanti romanzi storici La battaglia di Benevento (1827-28) e L'assedio di Firenze (1836) sono incentrati su personaggi e fatti eroici, un richiamo più al romanzo "nero" inglese che al modello manzoniano. Pregevoli le sue pagine di memorialistica (Note autobiografiche, 1833, e Memorie, 1848) e lo strano romanzo satirico sulla delusione del Risorgimento, Il secolo che muore (postumo, 1885).

Il democratico napoletano Luigi Settembrini (1813-1876) pagò con il carcere l'aver scritto la Protesta del popolo delle Due Sicilie (1847), aspra denuncia antiborbonica. Le sue opere migliori sono le Lezioni di letteratura italiana (1866-72), documento storiografico contro il potere della Chiesa, insieme a un'autobiografia interessante e sobria, le Ricordanze della mia vita (incompiute e postume, 1879) con pagine memorabili sui suoi anni d'infanzia e di carcere.

 

Giuseppe Mazzini

Nato a Genova nel 1805, fu assiduo lettore dei classici italiani, Carbonaro, e visse quasi sempre esule all'estero. Morì a Pisa nel 1872. Esempio altissimo di intellettuale rivoluzionario, con la fondazione della Giovine Italia (1831) introdusse un partito laico repubblicano che ancora mancava alla nostra tradizione. Mazzini credeva in un paese moderno, indipendente e unito; cercò una libertà concreta che lasciasse alle spalle l'oscurantismo controriformistico e gli atavici privilegi di un sistema aristocratico e ingiusto. Se il suo pensiero è attraversato e nutrito­ da un misticismo moralistico, è solo perché la sua visione politica nasce dalla necessità di una liberazione integrale, dello spirito individuale come della vita collettiva. La stessa esperienza letteraria non è per lui un semplice strumento di comunicazione, bensì un esercizio di religiosità moderna votata al progresso. I saggi scritti negli anni '30 ­ poi raccolti nel 1847 sotto il titolo Scritti letterari di un italiano vivente ­ dimostrano un fortissimo interesse per la letteratura europea e per le grandi discussioni romantiche sulla libertà e la novità dei generi letterari. Per Mazzini l'intellettuale ha una funzione educatrice e di concreta sintesi in favore di quel principio di "associazione" che è il presupposto dei grandi ideali repubblicani, come popolo, nazione, tradizione. Scrivere è lottare; e lottare vuol dire educarsi, procedere nella complessità della storia, con tutta la forza spirituale della libertà. Importanti, anche stilisticamente, i suoi saggi Fede e avvenire (1835) e Dei doveri dell'uomo (1861).

 

Carlo Cattaneo

La crisi storica del 1848-49 costituì per certi versi uno spartiacque culturale. Il nuovo impegno risorgimentale richiese uno spostamento delle ricerche verso una conoscenza laica e razionale, più oggettiva e più concreta rispetto alle grandi illusioni dei decenni precedenti.

Figura esemplare di questa nuova esigenza fu il milanese Carlo Cattaneo (1801-1869), intellettuale di estrazione contadina, ma erede dell'illuminismo lombardo. Presente nella politica attiva, partecipò alle Cinque Giornate di Milano, fu chiamato da Mazzini come Ministro della Repubblica Romana e da Garibaldi, durante la liberazione di Napoli. Il suo pensiero aspira a un atteggiamento "positivo" e razionale, secondo una "identità fondamentale del metodo nelle scienze fisiche e nelle morali". All'astrazione, ai principi fondamentali, oppose un empirismo esercitato da un'intelligenza rigorosa, che sapesse guardare all'utilità sociale, come se il progresso trovasse fondamento sull'equazione di razionalità e democrazia. Nel 1839 fondò "Il Politecnico", rivista votata alla divulgazione, allo sviluppo tecnologico e imprenditoriale, secondo un esempio altissimo di riformismo. Nel 1844 pubblicò le Notizie naturali e civili su la Lombardia, insuperato saggio di etnografia moderna e di indagine socio-economica. Lo stesso anno "Il Politecnico" chiuse e Cattaneo cominciò a scrivere sulla "Rivista europea", diretta dal 1945 da Carlo Tenca. Numerose le sue opere: Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra (1848), in cui denunciava l'ambiguità dell'aristocrazia e dei moderati italiani; Archivio triennale delle cose d'Italia dall'avvenimento di Pio IX all'abbandono di Venezia (1851-55), notevole racconto storico sugli eventi di quegli anni, da cui emerge limpidamente un'idea dignitosa e concreta di "libertà" e di risveglio nazionale. Va sottolineato che Cattaneo, portavoce di una politica antisabauda e antiaristocratica, elaborò il progetto di un'Italia repubblicana e federalista. Nel 1860 raccolse un altro libro di articoli: Memorie d'economia pubblica. Il tema essenziale di tutti i suoi scritti è la certezza che l'intelligenza e il "fare" siano l'unico percorso del progresso di civilizzazione. Il suo pensiero pertanto fu pragmatico, radicale e privo di compromessi, aperto a tutte le scienze, non per una generica curiosità ma proprio per la consapevolezza che lo studio e la ricerca scientifica e morale siano un unico aspetto della crescita umana; egli osteggiò, sul problema della lingua, le soluzioni romantiche e manzoniane a favore di una lingua chiara e semplice, quella che lui stesso adottava. Notevole il saggio Sul principio istorico delle lingue europee (1841).

 

Carlo Tenca

Modernamente critico militante, che assunse l'eredità mazziniana, spogliandola però dello schematismo spirituale a favore di una maggiore attenzione ai testi come al dibattito europeo contemporaneo, il milanese Carlo Tenca (1816-1883) diresse dal '45 la "Rivista europea" (1838-1847) e dal '50 al '59 un altro organo del riformismo moderato di quegli anni, "Il Crepuscolo". Staccatosi dalle posizioni repubblicane, fu poi tra i principali esponenti della destra moderata. In letteratura promosse il "vero", il reale e rifiutò ogni forma di sentimentalismo. Oltre a un romanzo storico e a opere poetiche, notevole il suo saggio Delle condizioni dell'odierna letteratura in Italia (1846).

 

Il pensiero rivoluzionario

Grande polemista, indefesso anticlericale alla ricerca di una laicizzazione del pensiero capace di rivoluzionare la condizione umana, il milanese Giuseppe Ferrari (1811-1876) ha lasciato una riflessione corposa e sicura, mai appesantita da particolari schematismi. Soprattutto La federazione repubblicana (1851) e la Filosofia della rivoluzione (1851) sono opere storiche importanti e di grande respiro.

Il napoletano Carlo Pisacane (1818-1857) fece coincidere pensiero e azione, finendo per morire nella tragica spedizione di Sapri. Il suo pensiero è l'esaltazione del coraggio, della passione, degli atti naturali contro il conformismo sociale. Per lui solo l'intervento diretto della "plebe" ­ proprio quella meridionale, dove è minore la presenza dell'ipocrisia borghese ­ poteva consentire un reale rinnovamento. Nelle sue riflessioni entrano parole come "socialismo", "propaganda del fatto", come se il romanticismo e una coscienza politica rigorosa e concreta trovassero in lui il primo vero esempio, e purtroppo il primo martire. La guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49 è del 1851; i Saggi storico-politico-militari sull'Italia sono postumi (1858-60), come il bellissimo Testamento politico.

La scuola cattolico-liberale

Intorno agli anni '30 e '40 emerse una cultura cattolica interessata al confronto con la cultura laica e ai progetti di rinnovamento della società italiana. Le forze più vive chiedevano un riformismo cattolico che si definì soprattutto intorno agli anni '40 nel "neoguelfismo". Non mancarono tuttavia proposte più radicali, di riforma integrale sia della Chiesa sia della società.

 

Antonio Rosmini

Figura emblematica di uomo di Chiesa (sacerdote, fondatore dell'ordine dei rosminiani) e di filosofo, il roveretano Antonio Rosmini (1797-1855) risulta la figura più complessa del cattolicesimo italiano. Egli si oppose con tutte le forze al relativismo contemporaneo (confrontandosi con il sensismo e il criticismo kantiano), cercando una rigorosa giustificazione razionale che potesse dimostrare la piena oggettività dell'"essere" divino. Propose anche una forte "riforma" della Chiesa, attraverso il sostanziale rifiuto del potere temporale. Libri come Delle cinque piaghe della Chiesa (1848, ma scritto già tra il '32 e il '33), La costituzione secondo giustizia sociale (1848) o la Logica (1854) testimoniano del suo notevole impegno culturale.

 

Il neoguelfismo e Gioberti

Il progetto di riforma cattolica della politica assunse una maggiore concretezza con Vincenzo Gioberti (1801-1852). Il suo libro Del primato morale e civile degli italiani (1843), in cui compare per la prima volta la parola "Risorgimento" nel significato culturale e politico che rimarrà fino a oggi, diventò il manifesto del neoguelfismo italiano: l'Italia, scelta dalla Provvidenza come sede del cattolicesimo, doveva assumere la guida dei popoli per la realizzazione del divino nella storia. Non solo il clero (votato "gagliardamente" a modernizzarsi), ma soprattutto il papa aveva il compito di svolgere questo ruolo di guida religiosa e politica. Dopo l'esperienza del 1848-49 con Pio IX (che deluse le speranze del neoguelfismo italiano), anche Gioberti cambiò posizione, attenuando il suo radicale nazionalismo. Del Rinnovamento civile d'Italia (1851) mostra una novità programmatica: il rinnovamento italiano doveva avere un legame più stretto con il generale contesto europeo, mentre le classi popolari dovevano assumere un ruolo più decisivo. Anche la leadership mutava: non più il Papato bensì l'"azione egemonica" del Piemonte.

 

Il liberalismo piemontese

Nell'ambito del liberalismo piemontese, sviluppatosi nella nobiltà legata alla monarchia sabauda, Cesare Balbo (1789-1853) con Delle speranze d'Italia (1844) si avvicinò alle posizioni guelfe giobertiane e auspicò una federazione dei principi italiani sotto la guida dei Savoia.
Ma l'esponente di maggior rilievo della scuola moderata piemontese fu Massimo D'Azeglio (1798-1866), uomo politico e intellettuale legato ai gruppi romantici lombardi, genero di Alessandro Manzoni. Di interesse politico sono i suoi scritti Degli ultimi casi di Romagna (1846) e I lutti di Lombardia (1848). Più nota e popolare la sua attività di romanziere. Ettore Fieramosca ossia la disfida di Barletta (1833) è un notevole esempio di romanzo storico, con forti accenti patriottici, in cui si prefigura il formarsi di una coscienza nazionale. Spicca la sua autobiografia I miei ricordi (postumo, 1867), che risulta anche un libro godibile per lo stile colloquiale, vivace e spesso struggente, dedicato com'è al ritratto della vita e della dignità di un "gentiluomo risorgimentale".

Niccolò Tommaseo

Niccolò Tommaseo (1802-1874), figura di rilievo del cattolicesimo romantico, sentì fortemente la contraddizione tra i valori della tradizione religiosa e le nuove istanze della modernità.

 

La vita e le opere

Dalmata, anche se la famiglia era di origine veneta, studiò a Spalato ed ebbe una ricca educazione umanistica. A Padova nel 1819 conobbe il filosofo A. Rosmini e nel 1824, a Milano, Manzoni e C. Cantù. Intervenne nella disputa sulla questione della lingua con Il Perticari confutato da Dante (1825). Dal 1827, a Firenze, iniziò un'attivissima collaborazione con "L'Antologia" di G.P. Vieusseux, cominciando a dedicarsi a ricerche di carattere linguistico: il Dizionario dei sinonimi (1830) resta un importante contributo alla storia e alla definizione della lingua nazionale.

Fuggito da Firenze per non cadere nelle mani della polizia austriaca, si recò a Parigi, dove nel 1834 conobbe Mazzini. Pubblicò, oltre al trattato politico Opuscoli inediti di fra Girolamo Savonarola (1835), diverse opere di poesia: Confessioni (1836), Versi facili per gente difficile (1837) e Memorie poetiche e poesie (1838), che raccoglie in parte e sistematicamente le due opere precedenti. Nell'ambito della narrativa scrisse i romanzi Il duca d'Atene (1837) e Il sacco di Lucca (1838). Elaborò un ponderoso Commento alla Divina commedia (1837), in cui mise in luce le fonti bibliche del poema dantesco. Nel 1838 fu per alcuni mesi in Corsica, dove stese il romanzo in parte autobiografico Fede e bellezza, pubblicato nel 1840 dopo il ritorno a Venezia in seguito a un'amnistia del governo austriaco. Nel 1848 fu a capo dell'insurrezione veneziana contro l'Austria: arrestato con Daniele Manin, fu liberato dall'insurrezione popolare e posto a capo della risorta repubblica di San Marco. Dopo la sconfitta (1849) fu costretto all'esilio a Corfù. Prese posizione anche sulla questione romana, auspicando una rinuncia al potere temporale da parte del papa. Nel 1854 ottenne l'autorizzazione a trasferirsi a Torino, ma la sua crescente avversione alla politica di Cavour lo isolò dall'ambiente cattolico-liberale torinese; anche per questi motivi nel 1859 si recò a Firenze, dove si dedicò con passione, nonostante i crescenti disturbi alla vista che lo resero quasi cieco, alla preparazione e alla pubblicazione di un grande Nuovo dizionario della lingua italiana (1858-79, in collaborazione con Bernardo Bellini), vero monumento al suo costante impegno in ambito linguistico.

 

La pratica della contraddizione

Caratteristica del lavoro di Tommaseo è una vibrante contraddizione fra antico e moderno, sentimento cattolico e generoso slancio rivoluzionario. Le sue opere sono una miniera di annotazioni umane e linguistiche. Anche per questo il suo capolavoro, a parte i dizionari, risulta il romanzo Fede e bellezza, che narra la storia d'amore di Giovanni, esule italiano in Francia, per la bella e sensuale Maria, italiana anch'essa. Entrambi provengono da esperienze segnate dal peccato e anche la loro passione si svolge in parte sotto il segno negativo della carnalità; sono tuttavia animati da una forte passione religiosa, grazie alla quale sanno iniziare un cammino di redenzione. La narrazione, discontinua e frammentaria, è percorsa da improvvise illuminazioni che a volte tendono alla ripetizione; i personaggi stentano a realizzarsi, rimangono nella condizione di chi proclama a gran voce i propri valori, eppure non riesce a dare una ragione profonda all'esistenza. La caduta sostanziale delle certezze apre la porta alla modernità.

La satira di Giuseppe Giusti

Giuseppe Giusti (1809-1850), di Monsummano, esponente di una poesia satirica di lunga tradizione, seppe fondere nella sua opera l'intento patriottico-risorgimentale con i toni della letteratura burlesca toscana. Conobbe gli intellettuali più significativi del suo tempo. Il suo è un esempio di satira popolare e di ghigno beffardo. Fin dal '38 componeva i suoi "scherzi" politici (tra gli altri, Lo stivale, 1836, e Il re Travicello, circa 1843), anche se la prima raccolta di Versi è del 1844. Dopo un certa adesione alle idee democratiche, tornò, a seguito della crisi 1848-49, a un liberalismo più moderato, entrando in polemica con F.D. Guerrazzi. Sugli ultimi anni '40 scrisse un bel libro storico-politico, Cronaca dei fatti di Toscana, che uscì postumo nel 1890. Nei suoi lavori si evidenzia un certo gusto "paesano", qualcosa di raffermo e di chiuso, che se in qualche misura recupera la tradizione toscana, non sa comunque evitare un certo grossolano provincialismo. La sua poesia è fatta di caricature, di amarezza, persino di odio, per quanto ancora diverta con quel gusto di vigorosa oralità. Fa eccezione la poesia Sant'Ambrogio, forse la sua più bella, in felice equilibrio tra scherzo e tono patetico, in cui anche i soldati austriaci vengono visti come vittime della storia e non solo come oppressori. Apprezzabili i risultati formali (fu ammirato da Carducci).

La poesia patriottica e lirico-patetica

Una sorta di romanticismo minore, volto a una continua divulgazione dei miti e dei culti popolari, si espresse nella forma della poesia patriottica, che mostra ancora un gusto popolareggiante della parola e del canto.

Il trevisano Francesco Dall'Ongaro (1808-1873) scrisse fra l'altro Canti popolari (1845-49) e il popolare dramma storico Il fornaretto di Venezia (1846). Notevoli sono anche i suoi Stornelli (1849) e la sua produzione narrativa.

Il genovese Goffredo Mameli (1827-1849) realizzò in qualche modo il modello mazziniano di inno popolare (Fratelli d'Italia, 1847, divenuto nel 1946 l'inno della Repubblica italiana). Luigi Mercantini (1821-1872) con il suo Inno a Garibaldi (1859) e La spigolatrice di Sapri (1857) seppe recuperare tutta la tenera malinconia nascosta nel canto popolare.

Le due figure più rappresentative di questo filone sono Prati e Aleardi.

Il trentino Giovanni Prati (1814-1884) propose un patetismo languido e molle, non privo di morbosità, mediante forme espressive disordinate e comunque conformistiche. Ebbe molto successo la sua novella in versi Edmenegarda (1841), ma il suo risultato migliore sono gli ultimi libri Pische (1876) e Iside (1878), caratterizzati da un edonismo e da una dissipazione sentimentale che certo interessò il giovane D'Annunzio.

Il veronese Aleardo Aleardi (1812-1878), patriota e uomo politico, fu un'esemplare figura di poeta tardoromantico, sincero e votato alle alte idealità, religioso eppur critico verso il potere della Chiesa, profondamente umanitario. Le sue Lettere a Maria (1846), idillio sentimentale e civile, e i postumi Canti (1882) ebbero grande successo. Nei suoi versi, nutriti di eccessivo languore e gusto per il pittoresco, si avverte la crisi di un'epoca e del modello letterario romantico.

Ippolito Nievo

Il padovano Ippolito Nievo (1831-1861) è il romanziere di maggior rilievo fra Manzoni e Verga e rappresenta uno degli interpreti più autentici della cultura italiana negli anni cruciali tra Risorgimento e avvio dello Stato unitario.

 

La vita e le opere minori

Laureato in legge, patriota, mazziniano, visse con coraggio l'esperienza risorgimentale, partecipando all'impresa dei Mille. Morì durante una tempesta in mare mentre da Palermo tornava a Napoli. Della sua ricca produzione fanno parte: opere poetiche (Le lucciole, 1857, e Amori garibaldini, 1860); novelle, nella linea della "letteratura campagnola", che Nievo avrebbe voluto raccogliere in un Novelliere campagnolo; scritti politici (Venezia e la libertà d'Italia, 1860, e il Frammento sulla rivoluzione nazionale, inedito fino al 1929), nei quali è evidenziato un laicismo concreto ma aperto; romanzi quali Il conte pecoraio (1857), sul modello manzoniano, Angelo di bontà (1856) e soprattutto Il barone di Nicastro (1860), una specie di romanzo filosofico in cui Nievo racconta la vana ricerca della virtù. Sulla stessa linea è anche la Storia filosofica dei secoli futuri (1860), una storia fantastica dell'umanità dal 1859 fino al 2222.

 

Le "Confessioni di un italiano"

Il capolavoro di Nievo sono le Confessioni di un italiano, romanzo scritto nel 1857-58, ma pubblicato solo postumo (1867), con molte modifiche e con il titolo redazionale Confessioni di un ottuagenario. Tema del libro è la formazione, la conquista della maturità da parte del giovane Carlino Altoviti, in un intreccio fra vicende personali e la storia della conquista dell'unità d'Italia. Pagine bellissime sull'infanzia di Carlino e della cuginetta Pisana sono per Nievo anche la maniera per raccontare un mondo segreto, velato dalla nostalgia dell'adolescenza. Lo scrittore costruisce un'identità, lasciando però che il racconto non si immobilizzi in una tesi programmatica, ma raccolga, spesso quasi inconsapevolmente, quei paesaggi, quelle sfumature, che sono di una personalità in crescita. Il linguaggio è carico di sensi, di esperienze diverse, auliche come improvvisamente dialettali (lombarde e venete). L'amarezza e il disincanto di fondo ne fanno il ritratto migliore di una generazione di grande slancio politico-morale, ma anche ormai sempre più cosciente dell'illusione risorgimentale.

La nascita della storiografia letteraria: Francesco De Sanctis

Francesco De Sanctis (1817-1883) è il fondatore della storiografia letteraria italiana. Sostenitore dello stretto legame fra storia letteraria e storia civile, egli fu in parte riferimento per Benedetto Croce e in seguito, attraverso la riflessione di Antonio Gramsci, di critici novecenteschi di impostazione storicistica e marxista.

 

La vita e le opere

Nato in provincia di Avellino, compì gli studi a Napoli presso uno zio; passò quindi alla scuola dello studioso purista B. Puoti, di cui presto divenne collaboratore. Nel 1839 aprì una propria scuola privata di lingua e grammatica, che mantenne anche dopo la nomina a professore presso il Real Collegio Militare della Nunziatella (1841). Frattanto l'orizzonte dei suoi interessi si andava estendendo all'estetica e alla storia: le letture lo portarono a contatto con le più recenti e importanti correnti letterarie, filosofiche e politiche d'Europa. Nel 1848, per aver preso parte all'insurrezione napoletana, fu destituito dalla Nunziatella e accettò un posto di precettore presso un nobile di Cosenza; nel dicembre 1850 venne arrestato e rimase in carcere fino al 1852.

Lo studio della filosofia di Hegel lo portò ad abbandonare le posizioni giovanili cattolico-spiritualiste a favore d'una concezione laica e democratica. Liberato ma espulso dal Regno di Napoli, De Sanctis andò esule a Torino (1853), dove visse dando lezioni private e scrivendo articoli per giornali e riviste; organizzò quindi un corso di conferenze dantesche che suscitarono notevole interesse e lo resero noto, tanto che nel 1856 fu chiamato a insegnare letteratura italiana al Politecnico di Zurigo. Nel 1860 rientrò dalla Svizzera e s'impegnò nell'azione politica, divenendo deputato e ministro della Pubblica Istruzione del neonato Regno d'Italia (1861-62). Diresse quindi (1863-65) il quotidiano "L'Italia", organo dell'Associazione Unitaria Costituzionale, perseguendo l'obiettivo di formare un raggruppamento di "Sinistra giovane". Non rieletto deputato dal 1865, De Sanctis si concentrò esclusivamente sugli studi critico-letterari. Nel 1871 fu chiamato a ricoprire la cattedra di letteratura comparata presso l'università di Napoli, dove tenne quattro corsi su Manzoni (1872), sulla scuola cattolico-liberale (1872-73), su Mazzini e la scuola democratica (1873-74), su Leopardi (1875-76). Dopo la caduta della Destra storica (1876) De Sanctis tornò alla politica attiva e fu nuovamente ministro dell'Istruzione (1878 e 1879-81). Quindi, seriamente ammalato agli occhi, si ritirò a Napoli, dove morì.

 

La "Storia della letteratura italiana"

Nel suo capolavoro critico, la Storia della letteratura italiana (1870-71), De Sanctis ricostruisce il grande sfondo storico etico-civile dal quale sorsero i capolavori della letteratura italiana. Le linee di tale svolgimento sono il prodotto di variabili storiche diverse, che non escludono stasi, decadenza o regresso. I primi capitoli della Storia trattano il problema delle origini della letteratura italiana che, favorita per un verso dalla presenza d'importanti centri culturali e di un ceto colto, era però ostacolata dalla persistente divisione linguistica tra la lingua dotta latina e la molteplicità dei dialetti. Dante rappresentò in questo quadro il culmine d'un duplice processo di sviluppo, letterario e filosofico-scientifico: la Divina commedia "è il mondo universale del medio evo realizzato nell'arte". Ma più di lui influì sulle generazioni successive Petrarca, che aprì la via all'umanesimo e al Rinascimento. Come Petrarca neppure Boccaccio fu, secondo De Sanctis, uomo veramente moderno, poiché non seppe andar oltre la cinica e beffarda rappresentazione del mondo medievale ormai morto. Nel Quattrocento, Ariosto suggellò con il suo poema l'evasione nella pura immaginazione letteraria. Il solo, vero uomo moderno fu, per De Sanctis, Machiavelli, scopritore della scienza politica e primo sostenitore in Italia dell'idea nazionale. Così, mentre da Tasso a Marino si prospetta la crisi di valori dell'Italia, sull'altro versante gli isolati e i perseguitati (da G. Bruno a P. Sarpi a P. Giannone a G. Vico) additano o preparano la rinascita nazionale, che si annuncia, pur contraddittoriamente, in Goldoni, Alfieri e Foscolo, per compiersi con Manzoni e Leopardi, nei quali essa si accompagna a vera grandezza di creazione letteraria.

 

Le altre opere

Tra gli altri studi di De Sanctis spicca il Saggio critico sul Petrarca (1869), mentre fra i lavori inclusi nei Saggi critici (1866) e nei Nuovi saggi critici (1869) vanno menzionati quelli assai noti su episodi della Divina commedia, su L'uomo del Guicciardini, su Schopenhauer e Leopardi e inoltre Il darwinismo nell'arte e quelli su E. Zola. Nel discorso La scienza e la vita (1872) egli prese posizione nei riguardi dell'ormai dilagante positivismo, sostenendo la necessità di non separare la scienza dalla vita per ricostruire il tessuto morale dell'individuo e della nazione. Finissimo e vivacissimo narratore si rivelò infine nel frammento autobiografico La giovinezza (1889) e nelle 15 lettere che costituiscono il resoconto Un viaggio elettorale (1876).

 

L'estetica e la critica letteraria

La concezione estetica di De Sanctis, pur risentendo dell'influsso di Hegel, ha carattere di forte originalità. L'arte, benché non possa essere considerata avulsa dalla viva storia morale e politica della nazione di cui è parte, è per lui autonoma, non destinata a cedere il passo a una sfera superiore dello spirito, la filosofia. L'opera d'arte non si può ridurre né a un contenuto di pensiero astratto o di fatti concreti, né alla semplice forma; essa è creazione spontanea e fantastica dell'artista, forma che include in sé il contenuto, entità unica, irripetibile e compiuta. L'artista, però, non la crea dal nulla, ma solo elaborando un "argomento" dato, il quale impone a sua volta una "situazione" che genera l'ossatura dell'opera e, indirettamente, il suo stile. Al tempo stesso l'artista non è un uomo isolato ed estraneo alla società, ma risente entro il proprio animo delle condizioni e degli eventi della nazione a cui appartiene, nonché della sua tradizione artistica. Queste sedimentazioni della realtà esterna mettono in moto la fantasia dell'artista e la spingono a "rappresentare", senza peraltro che vi sia una relazione meccanica di causa-effetto tra realtà e creazione artistica.

La letteratura risorgimentale in sintesi

Scuola democratica Scrivere è lottare; significa educare il popolo a una nuova coscienza nazionale, libera e repubblicana. Esponenti: Giuseppe Mazzini (1805-1872), patriota e intellettuale, fonda la Giovine Italia, autore di saggi (Scritti letterari di un italiano vivente, 1847; Dei doveri dell'uomo, 1861); i romanzieri Giovanni Ruffini (1807-1881) e Francesco Domenico Guerrazzi (1804-1873).
Carlo Cattaneo Carlo Cattaneo (1801-1869) fondò a Milano la rivista "Il Politecnico" (1839), organo di diffusione del riformismo. Elaborò un progetto repubblicano e federalista dell'Italia. Principali opere: Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra (1848), Memorie di economia pubblica (1860).
Carlo Tenca Carlo Tenca (1816-1883), critico militante promosse il reale e scrisse Delle condizioni dell'odierna letteratura in Italia (1846).
Carlo Pisacane Carlo Pisacane (1818-1857), esponente del pensiero rivoluzionario vicino al socialismo, fece coincidere pensiero e azione. Morì nella spedizione di Sapri.
Scuola cattolico-liberale Si esprime nel cosiddetto "neoguelfismo", che vedeva il cattolicesimo e la Chiesa come garanti di una nuova coscienza nazionale. La prospettiva politica fu prevalentemente moderata. Esponenti: Vincenzo Gioberti (1801-1852), autore del manifesto del neoguelfismo Del primato morale e civile degli italiani (1843); i piemontesi Cesare Balbo (1789-1853) con Delle speranze d'Italia (1844) e Massimo D'Azeglio (1798-1866), autore di romanzi storici (Ettore Fieramosca ossia la disfida di Barletta, 1833) e di un'autobiografia (I miei ricordi, 1867). Figura più complessa quella di Antonio Rosmini (1797-1855), che propose una forte riforma della Chiesa.
Niccolò Tommaseo Linguista straordinario e scrittore di forte impianto religioso-mortale, Tommaseo (1802-1874), padovano, partecipò alla rivolta veneziana del 1848. Scrisse trattati, romanzi, ma monumenti fondamentali sono il suo Nuovo dizionario della lingua italiana (1858-79) e il romanzo Fede e bellezza (1840).
Giuseppe Giusti Esponente della poesia satirica, Giusti (1809-1850) compose Versi (1844), scherzi politici e un libro storico-politico Cronaca dei fatti di Toscana (1890).
Ippolito Nievo Patriota garibaldino (1831-1861), morì durante la spedizione dei Mille. Le Confessioni di un italiano, scritto nel 1857-58, pubblicato postumo nel 1867, è il ritratto di una generazione delusa ma anche definitivamente congedata dall'illusione risorgimentale.
Francesco De Sanctis Napoletano (1817-1883), con la sua Storia della letteratura italiana (1870-71) ricostruisce il grande sfondo storico etico-civile dal quale sono sorti i capolavori della letteratura italiana. La sua opera indica l'apertura a un nuovo realismo non più indebolito dal sentimentalismo romantico. L'artista deve immergersi nella società.