industrializzazióne

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Lessico

sf. [sec. XIX; da industrializzare]. Processo attraverso il quale la produzione industriale di beni, in un determinato Paese, si avvia a divenire l'attività economica prevalente, in termini di ricchezza prodotta e di forze di lavoro occupate, soppiantando e relegando in secondo piano le attività economiche tradizionali, prime fra tutte l'agricoltura e l'artigianato.

Geografia industriale

Nel corso del suo sviluppo l'industria non è stata distribuita con uniformità e progressivamente questo fenomeno ha ingenerato il problema del mancato sviluppo in molti Paesi, causando pericolosi squilibri fra Paesi sviluppati e non-sviluppati con la prospettiva di più gravi contrasti politici. Il processo d'industrializzazione ebbe la sua origine nella rivoluzione industriale e questa trovò il suo naturale ambiente dove esistevano conoscenze scientifiche adeguate, concentrazione di capitali, un mercato organizzato a smerciare i prodotti. Gran Bretagna, Francia e Germania furono in Europa le prime nazioni a dare l'avvio all'industrializzazione, che ebbe il suo maggiore sviluppo dove erano presenti le materie prime necessarie all'industria e le fonti energetiche (allora ridotte quasi esclusivamente al carbone). I principali centri industriali sorsero in vicinanza dei bacini carboniferi: in Inghilterra nello Yorkshire; in Germania nella Rhur, nella Saar e nella Slesia; in Russia nell'Ucraina; negli Stati Uniti nelle regioni nordorientali; in Cina parimenti nelle regioni nord-orientali. Per altre industrie, come per esempio quella tessile, essenziale era invece la presenza d'acqua, per cui, per esempio, in Gran Bretagna sorsero stabilimenti tessili sulle rive del fiume Tweed. Questa primitiva geografia però si è venuta modificando con la scoperta di nuovi giacimenti carboniferi o lo sfruttamento di altri corsi d'acqua, ma soprattutto per il progredire della tecnologia, che consentiva nuovi processi produttivi. Nel campo dell'energia, di primaria importanza fu l'introduzione degli idrocarburi, che per il loro basso costo d'estrazione hanno soppiantato il carbone. In genere la loro introduzione non ha comportato spostamenti geografici, essendo preferibile sopportare i costi di trasporto piuttosto che decentrare le industrie già esistenti; di qui la messa in opera di lunghissimi oleodotti e di petroliere. Un'eccezione è costituita dai grandi raggruppamenti industriali sorti nelle regioni tra il Volga e gli Urali e in alcune zone della Siberia centrale. Qui, anche per la scoperta d'immensi giacimenti di gas naturale, si sono tenuti gli stessi criteri usati per il petrolio. In Asia una storia a parte è costituita dal Giappone, che, pur essendo privo di materie prime, ha raggiunto livelli altissimi d'industrializzazione. Notevole lo sviluppo dell'industrializzazione anche nell'Africa meridionale, dove la presenza di una forte immigrazione bianca e la ricchezza del sottosuolo ne hanno costituito la premessa essenziale. Tipico nel Medio Oriente lo sviluppo d'Israele, che per la presenza dei bianchi si può paragonare all'Africa meridionale, e per le materie prime al Giappone. In quasi tutti gli altri Paesi del Terzo Mondo sono presenti un'industria estrattiva delle materie prime e in genere industrie di trasformazione di modesta entità.

Scienze sociali

Per industrializzazione si intende un processo in cui l'innovazione tecnologica consente una rapida crescita della produzione. Tale processo induce profonde trasformazioni del tessuto socio-economico delle comunità interessate, favorendo nella maggior parte dei casi storicamente osservati dinamiche di mutamento sociale, culturale e politico. Così, l'arco temporale compreso fra la metà del sec. XVIII (fase della cosiddetta prima rivoluzione industriale) e la seconda metà del sec XX – quando nei Paesi economicamente più sviluppati si avvia un processo di espansione dei servizi e delle tecniche produttive a più elevato contenuto tecnologico definito da alcuni studiosi postindustriale – rappresenta sicuramente il momento più denso di trasformazioni e di rivolgimenti nella storia dell'umanità. Nella sua prima fase, l'industrializzazione si caratterizza per il passaggio da un'economia di sussistenza, dominata dal consumo locale (prevalentemente autoconsumo) e connotata da modesti livelli di produttività, a un sistema in cui le risorse economiche si concentrano sull'acquisto e l'attivazione di strumenti tecnici (macchinari, ma anche dotazioni di trasporto, strutture di comunicazione, reti commerciali) che consentono di raggiungere rapidamente e stabilmente quote ottimali di produzione dei beni. Tale processo si accompagna a una radicale conversione della manodopera, con effetti di inurbamento massiccio, e a un consistente trasferimento di risorse finanziarie prima impiegate prevalentemente in attività legate alla terra. Le scienze sociali evidenziano questo carattere non lineare dell'industrializzazione – in quanto fenomeno interagente con diverse situazioni storiche, economiche, giuridiche e culturali, contro tradizionali letture semplificatrici e monocausali – ma nello stesso tempo la sostanziale globalità del processo che ha interessato, entro un reticolo di scambi, competizioni e attribuzione di funzioni particolari, l'insieme delle realtà sociali e politiche del pianeta. Definendo anche, al di là delle significative varianti nazionali e locali, tecnologiche e morfologiche, un sistema di divisione del lavoro, una gerarchia di poteri e una strutturazione del conflitto sociale che – pur fra necessarie cautele e specificazioni – fanno dell'industrializzazione il più significativo processo sociale dall'Ottocento in poi. Mentre i processi di industrializzazione segnano, nei Paesi più sviluppati, un netto rallentamento o addirittura una flessione sul piano dimensionale, quanto a effettivi impiegati e quanto a scala degli impianti produttivi, è nei Paesi in via di sviluppo e più specificamente in quelli cosiddetti emergenti, che l'industrializzazione va registrando i progressi più significativi. I primi Paesi che, da tempo, si sono attrezzati in questo senso sono quelli del Sud-Est asiatico e, più in generale, dell'area pacifica; ma le nuove tecnologie presentano caratteristiche talmente pervasive da poter essere adottate, a certe condizioni, da un numero di Paesi potenzialmente molto più vasto, come parecchi segnali sembrano lasciar presagire. In Paesi come Cina, India, Indonesia, Corea del Sud, Thailandia, Taiwan, Brasile e, dopo il crollo dei regimi comunisti, anche molti Paesi dell'Est europeo, benché sia evidente che per la maggior parte di essi il totale di ricchezza prodotta dipende in larga misura dalle ampie dimensioni demografiche rispettivamente raggiunte, è altrettanto evidente che il progresso produttivo che si sta compiendo è rilevantissimo. Per altro verso, non in tutti i casi citati (e negli altri Paesi asiatici e latinoamericani in qualche misura coinvolti nella crescita) l'evoluzione economica è sostenuta unicamente dall'industrializzazione, ma è certamente quest'ultima a giocare nel complesso il ruolo di maggior rilievo, specialmente perché riguarda in larga misura il soddisfacimento della domanda di beni da parte dei mercati locali, e quindi porta un considerevole contributo alla modificazione delle abitudini di consumo e dei modi di vita della popolazione: aspetto estremamente importante di qualsiasi processo di industrializzazione. Nonostante la crescita dell'industrializzazione in atto in molte nazioni a economia in via di sviluppo, autorevoli analisti considerano sperequate le condizioni strutturali di crescita dell'industria nelle varie regioni del mondo. In particolare, il riferimento alla teoria della divisione internazionale del lavoro appare in grado di motivare una buona parte della crescita dei Paesi di nuova industrializzazione nei termini di una rilocalizzazione di quelle attività industriali che non sarebbe più competitivo mantenere nei Paesi a economia avanzata; di conseguenza, i primi dipenderebbero, in senso ampio, dall'evoluzione economica di quelli avanzati e la loro crescita potrebbe rivelarsi fragile, vulnerabile e funzionale in primo luogo alle economie più mature. In altri termini, l'industrializzazione nei Paesi emergenti favorirebbe la loro crescita economica, ma anche un'evoluzione delle economie mature verso i settori strategici e a più alto valore aggiunto, tale da aumentare, anziché diminuire, il gap tecnologico e reddituale tradizionale. In una direzione analoga condurrebbe la teoria del vantaggio competitivo, secondo la quale le strutture economiche presenti in una data regione risentono positivamente e in maniera preponderante di un insieme di fattori non economici (tradizione, cultura, organizzazione, istituzioni, ecc.), talché i settori produttivi che, in quella regione, hanno raggiunto posizioni di vertice a livello internazionale tenderebbero a conservarle, malgrado tutti i processi diffusivi in atto, per un tempo considerevolmente lungo: teoria che va a rafforzare, evidentemente, quella classica della divisione internazionale del lavoro e che sembra sminuire il peso strutturale dei processi di nuova industrializzazione. Infine, l'industrializzazione di queste regioni è stata realizzata in misura assolutamente prevalente in forza di investimenti esteri (giapponesi e statunitensi in Asia orientale, statunitensi ed europei altrove) e attraverso l'espansione produttiva di imprese multinazionali (o transnazionali) di origine non locale. Tuttavia, occorre anche osservare che questi ultimi hanno attuato politiche industriali differenziate secondo le fasi del proprio sviluppo più recente; se, in una prima fase, hanno accolto indiscriminatamente attività industriali originate dai Paesi avanzati, purché attivassero forme di sviluppo locali e garantissero una quota di occupazione, nelle fasi seguenti (e in particolare dagli anni Ottanta del sec. XX) molti di quei Paesi sono riusciti a sviluppare in proprio innovazioni di prodotto e di processo, ma più ancora innovazioni organizzative, che li hanno portati, in determinati (e ancora relativamente ristretti) segmenti della produzione industriale, a occupare proprio quelle posizioni di eccellenza cui fa riferimento la teoria del vantaggio competitivo. Non solo, ma nei settori manifatturieri di base, largamente diffusi fuori delle regioni di più antica industrializzazione (siderurgia, chimica di base e petrolchimica, tessile), questi sembrano avviati a posizioni di dominio nel mercato internazionale, grazie a quegli stessi elementi di competitività che avevano determinato la rilocalizzazione delle industrie relative; il loro ruolo economico internazionale è, dunque, oggettivamente solido, e tale è destinato a rimanere almeno fino a quando le produzioni che essi realizzano avranno una domanda (si ricorda che quelle produzioni sono state delocalizzate a causa della diminuita competitività dei Paesi avanzati e quindi per un calo di redditività, e non perché prive di domanda). Infine, a proposito delle condizioni finanziarie dell'industrializzazione nei Paesi emergenti, va rilevato che almeno in alcuni casi (Corea del Sud, Taiwan) si è assistito alla rapida formazione di un capitale di origine strettamente locale, molto aggressivo verso impieghi all'estero e in grado di organizzarsi in forme operative, a cominciare dal sistema dell'impresa multinazionale, perfettamente in grado di competere con quelle assunte dal capitale di origine europea o nordamericana; mentre, in condizioni di internazionalizzazione quasi assoluta dei flussi di capitali, appare assai improbabile che opzioni di tipo politico possano davvero incidere sulle prospettive dell'industrializzazione dei Paesi emergenti. Problemi del tutto diversi presenta l'industrializzazione dei Paesi più poveri (principalmente, quelli dell'Africa subsahariana a eccezione della Repubblica Sudafricana, più alcuni Paesi asiatici non toccati dai processi ricordati poco sopra). Qui, infatti, si è assistito solo sporadicamente a fenomeni rilevanti di rilocalizzazione industriale e mancano, in ogni caso, le favorevoli condizioni ambientali che nell'area pacifica e asiatica hanno sostenuto l'industrializzazione di cui si è detto: in particolare, all'assoluta assenza di capitali si aggiunge la carenza di forza lavoro qualificata, l'insufficienza dell'assetto istituzionale e organizzativo, una debolissima infrastrutturazione materiale e, non ultima, l'incertezza che caratterizza la sfera politica, che non può attrarre che capitali ad alto rischio (orientati alla speculazione e non all'investimento produttivo). L'industrializzazione dei Paesi più poveri, pertanto, non vede realizzate le condizioni per un reale decollo. Il settore industriale ha, in effetti, fatto registrare in taluni casi incrementi abbastanza vistosi e ha contribuito a un lieve innalzamento delle condizioni di vita generali, tuttavia, questa industrializzazione rimane legata a modelli obsoleti sul piano dell'organizzazione della produzione, della gestione d'impresa e dei beni prodotti: continuano a dominare il tradizionale settore dei prodotti minerari e della loro prima lavorazione, i cui redditi sono controllati di fatto da capitali esteri e non sono reinvestiti localmente; il settore agro-industriale, ma, anche in questo caso, relativamente alla prima trasformazione o alla produzione di beni di consumo a basso valore aggiunto; e, infine, l'insieme delle produzioni di beni destinate al consumo locale immediato, dalle caratteristiche qualitative molto modeste e dagli scarsi profitti.

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