Lessico

sm. [sec. XIII; da parlare].

1) Ant., assemblea, adunanza pubblica, specialmente per consulti o delibere su problemi d'interesse comune: chiamare, raccogliere a parlamento; anche convegno, discorso in genere.

2) Negli Stati democratici moderni, assemblea legislativa, formata da rappresentanti del popolo eletti a suffragio universale (per lo più con l'iniziale maiuscola): i membri del Parlamento; una lunga seduta del Parlamento. Anche l'edificio in cui l'assemblea si riunisce per le sue sedute.

Cenni storici: dalle origini al XVIII secolo

Gli antecedenti dei parlamenti moderni vanno in parte ricercati nei parlamenti medievali, la cui tipologia è assai varia e complessa, mutando secondo i tempi e i luoghi. In Italia, per esempio, durante gli ultimi secoli del Medioevo, in molte località si assistette alla trasformazione delle assemblee cittadine feudali (composte da esponenti della bassa feudalità e da liberi concessionari di terre o proprietari di immobili, divisi nelle due classi dei milites e pedites secondo che fossero tenuti a prestare servizio militare a cavallo o a piedi) in veri e propri organismi politici, le cui competenze crebbero via via che si sviluppavano le autonomie comunali. L'imposizione dei tributi, la pace e la guerra, le modifiche territoriali, i mutamenti degli statuti fondamentali del Comune divennero così le principali competenze assunte da ciascuna assemblea cittadina (chiamata parlamentum, arengum, concio, colloquium, ecc.) che si riuniva periodicamente o per particolari circostanze eccezionali in località (arena, brolo, broletto, ecc.) quasi sempre situate presso la cattedrale la cui campana serviva da segnale di convocazione. Più tardi, però (sec. XIII), con l'affrancamento delle ultime classi servili, la crescita della popolazione urbana e l'assurgere a ruolo dirigente di nuovi ceti mercantili, per evitare il caos dei continui e repentini cambiamenti nelle volontà assembleari e assicurare una stabilità di governo si aggiunsero altri organismi, solitamente col nome di Maggior Consiglio (consilium maius) ai quali vennero progressivamente trasferiti i principali poteri. Ma i parlamenti comunali rimasero formalmente gli unici organi sovrani nel Comune sino all'avvento delle signorie (sec. XIV), che molto spesso se ne servirono per legittimare la propria ascesa al potere. Più controversa è invece l'origine dei parlamenti medievali monarchici, che affonderebbero le loro radici addirittura nella caratteristica struttura del potere presso gli antichi popoli germanici, dove tutti gli uomini liberi atti al maneggio delle armi avevano competenze illimitate a deliberare su qualunque questione di comune interesse. Tali consigli, in seguito, dovettero essere allargati sino a comprendere anche gli alti dignitari ecclesiastici; più tardi, quando si trattò di organizzare un embrione di consenso dei sudditi (specie in materia di pagamento delle imposte), entrarono a farvi parte anche i rappresentanti delle città. Sorsero così, per esempio nei regni cristiani della Penisola Iberica, le prime Cortes già molto attive nel sec. XI e potentissime sino alla rivolta dei comuneros debellata da Carlo V (1520-21). Le Cortes spagnole assunsero per prime la struttura tipica di tutti i successivi parlamenti medievali, basata sulla tripartizione delle rappresentanze per “stati” (nel senso latino di status, condizione sociale, cui corrispondono i termini francesi états; spagnoli estamentos; sardo stamenti, ecc.): nobiltà, clero e rappresentanti borghesi delle città eletti in secondo o terzo grado. La tripartizione venne subito imitata dal Parlamento siciliano nel 1232, dai Parlamenti generali dello Stato sabaudo e dai successivi parlamenti medievali degli altri Paesi. Non sempre uguali furono, invece, le competenze di questi parlamenti monarchici di tipo feudale. Alcuni ebbero solo poteri di carattere giudiziario; altri di semplice registrazione degli atti sovrani, ivi compreso quello del giuramento del nuovo principe; altri ancora potevano soltanto sottoporre (“umiliare”) al sovrano le lamentele dei sudditi; più raramente arrivarono ad assisterlo nella stesura delle leggi; mentre molto importante, come si vedrà, fu soprattutto nella storia inglese la competenza in materia finanziaria. Con le monarchie assolute, i parlamenti feudali assursero a difensori delle prerogative e dei privilegi corporativi tradizionali (allora chiamati “libertà”) in conflitto con le tendenze accentratrici dei sovrani, che cercarono di superare gli ostacoli da essi frapposti disattendendo alla loro convocazione regolare. Illuminante è la storia degli Stati Generali francesi. Creati nel 1302 da Filippo il Bello, si riunirono abbastanza regolarmente sino al 1614, poi non vennero più convocati sino al 1789, alla vigilia della Rivoluzione. In Francia, comunque, la funzione di resistere al potere centrale del re fu esercitata da alcuni parlamenti provinciali mantenuti localmente in vita anche dopo che le varie regioni erano entrate a far parte della monarchia, e soprattutto dal Parlamento di Parigi.

Cenni storici: il Parlamento inglese

Di particolare interesse è la storia del Parlamento inglese, i cui poteri si svilupparono attraverso una progressiva limitazione delle prerogative regie sino a recepire i principi della democrazia rappresentativa moderna. Con la Magna Charta (1215), infatti, si riconobbero da parte del re i diritti dei feudatari già stabiliti dalla precedente Charta di Enrico I, confermando che nessuna nuova imposta poteva essere emessa senza previa loro approvazione; nel tempo, si estendevano analoghe garanzie anche agli uomini liberi delle città e si arrivava a fissare i principi fondamentali di uno stato di diritto secondo cui nessun cittadino poteva essere privato della libertà senza regolare processo. Cinquant'anni più tardi, Enrico III, per assicurarsi l'appoggio della borghesia contro i baroni coi quali era in lotta, convocò due rappresentanti per ogni città all'assemblea generale del regno, concedendo loro di riunirsi in una sede separata da quella dei baroni e dell'alto clero, dando vita alla Camera dei Comuni e al sistema bicamerale tuttora tipico del Parlamento inglese (con una Camera Alta, dei Lords, ereditaria o di nomina regia, e una Camera dei Comuni, interamente elettiva). Il Parlamento inglese, e soprattutto la Camera dei Comuni, all'avvento degli Stuart approfittò dei malumori generali del Paese contro i nuovi monarchi e riuscì gradatamente a ridimensionare i poteri della corona, prima imponendo a Carlo Ia Petition of Right (1628) e poi ribellandoglisi con l'accusa di esercizio illegale del potere, al punto di processarlo e farlo decapitare (1649). Alla ribellione il Parlamento inglese giunse per gradi successivi partendo da contrasti di natura fiscale. Infatti, di fronte all'ostinata resistenza della Camera dei Comuni a concedere i nuovi sussidi richiesti da lui, Carlo I reagì con la forza, sciogliendo a più riprese il Parlamento (una legislatura durò appena 23 giorni con il cosiddetto Short Parliament, o Parlamento Corto). Poi, però, premuto dalle urgenze finanziarie della guerra contro gli Scozzesi, il re dovette risolversi a convocare il Long Parliament (Parlamento Lungo), che durò dal 1640 al 1653. Il Parlamento Lungo, sotto la guida di J. Pym, si impose con crescente fermezza al sovrano sino ad armare contro il re e i suoi tentativi assolutistici un esercito in difesa delle libertà costituzionali. Il vincitore della guerra civile fu O. Cromwell, il quale attuò la cosiddetta “purga di Pride”, facendo espellere 140 deputati filomonarchici e trasformando il Parlamento Lungo in Rump Parliament (o Parlamento tronco, dicembre 1648), poi sostituito col Barebone's Parliament (o Parlamento Piccolo, luglio 1653) composto di soli 120 membri. Ma anche il Parlamento Piccolo ebbe vita effimera e venne sciolto da Cromwell nel dicembre 1653 perché di tendenze troppo radicali e ispirato al puritanesimo esaltato dei levellers. Più tardi il Parlamento inglese riuscì a consolidare le proprie conquiste antiassolutiste e liberali con l'Habeas corpus Act (1679), poi, di fronte a un'eventuale successione dinastica cattolica invitò Guglielmo III d'Orange a impadronirsi del trono (II Rivoluzione inglese) imponendogli di giurare il Bill of Rights e ponendo così le basi del moderno parlamentarismo. Con la II Rivoluzione si entra in una dimensione politica diversa nella quale alle prerogative regie ereditarie quale unica fonte del potere si sostituì il principio delle volontà popolari rappresentate nel parlamento: principio che trovò graduale realizzazione nel sistema politico inglese attraverso la formazione di gabinetti non più scelti esclusivamente dal re ma responsabili di fronte alle Camere che risentirono delle riforme elettorali durante il sec. XIX e del suffragio universale reso operante agli inizi del sec. XX.

Cenni storici: il Parlamento francese

Consenso dei governati e uguaglianza politica di tutti i cittadini quale unico fondamento dei governi vennero per la prima volta solennemente proclamati nella Dichiarazione dei diritti(1774), ispirata alle teorie contrattualistiche, durante la rivoluzione americana. Da allora, parlamento e libertà politiche divennero un binomio inscindibile e le lotte per la conquista delle libertà civili e politiche furono lotte per ottenere parlamenti non più gelosi custodi di arcaici interessi feudali corporativi, ma depositari della rappresentanza e garanti dei diritti naturali e politici inviolabili di ogni singolo cittadino. In tal senso operò in Francia l'Assemblea Nazionale Costituente allorché votò la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino (26 agosto 1789). Se è forse troppo lungo seguire le vicende delle varie assemblee rivoluzionarie francesi, va notato come il primo Parlamento moderno francese (l'Assemblea Nazionale Costituente sorta quando il Terzo Stato, autoproclamatosi alla Pallacorda rappresentante di tutta la nazione, obbligò i deputati degli altri Stati, prima separati, a confluire in lui) abbia avuto una struttura unicamerale e che tale struttura rimase invariata nei parlamenti francesi sino alla Costituzione dell'anno III (1795) quando venne adottato il sistema bicamerale con un Consiglio dei Cinquecento e un Consiglio degli Anziani, al fine di evitare i pericoli di ulteriori dittature giacobine (quale quella esercitata da Robespierre attraverso il Comitato di Salute Pubblica). Intenti diversi ebbe invece Napoleone che, con la Costituzione dell'anno VIII, riformò il Parlamento francese togliendogli praticamente ogni potere effettivo col ripartire la funzione legislativa tra Consiglio di Stato, Tribunato, Corpo Legislativo e Senato. La concezione napoleonica, infatti, sosteneva che “il potere deve venire dall'alto, la fiducia dal basso”, secondo lo slogan di E. J. Sieyès. Il corpo elettorale dunque, già ristretto su basi censitarie e non più universale, si limitava a scegliere gli eleggibili nella rosa dei quali il potere esecutivo nominava chi meglio riteneva opportuno. Alla restaurazione dei Borbone, con la Charte octroyée di Luigi XVIII, fu ripristinato il Parlamento bicamerale, con una Camera dei Deputati (eletta a suffragio ristretto) e una Camera dei Pari, ereditaria. Il re manteneva prerogative esorbitanti, attraverso le ordonnances (ordinanze). L'abuso in senso reazionario di queste “ordinanze” da parte di Carlo X fece precipitare la rivoluzione “liberale” del luglio 1830: venne promulgata una nuova Carta costituzionale e Luigi Filippo d'Orléans salì al trono col titolo di “re dei Francesi” in segno eloquente della sua subordinazione alla sovranità della nazione. Anche il Parlamento fu “rimaneggiato” con un allargamento della base elettorale (rimasta pur sempre rigorosamente censitaria) e l'abolizione dell'ereditarietà della Camera dei Pari. Con il Secondo Impero di Napoleone III, il Parlamento perse molti dei poteri riconquistati durante il periodo rivoluzionario quarantottesco e venne ridotto a mera parvenza legale. Bisognò attendere sino alla Costituzione della III Repubblica francese (1875) per avere una nuova sanzione ufficiale (art. 7) dei principi democratici rappresentativi con un Parlamento composto di due Camere (l'Assemblea Nazionale e il Senato, ambedue elette a suffragio universale) di fronte a cui sono responsabili i governi in carica, finché ne mantengono la fiducia. Nel 1958, con la riforma costituzionale voluta da De Gaulle e l'avvento della V Repubblica a regime presidenziale, alcuni poteri del Parlamento sono stati attenuati.

Cenni storici: il Parlamento italiano

In Italia le prime assemblee parlamentari moderne si svilupparono a partire dal 1796 come conseguenza dell'estendersi della Rivoluzione francese nella nostra penisola. Si ebbe così nell'ottobre 1796 l'Assemblea Costituente delle città di Modena, Reggio nell'Emilia, Bologna e Ferrara, che – fra l'altro – adottò il tricolore quale simbolo nazionale, mentre il II Congresso cispadano (27 dicembre 1796-9 gennaio 1797) rappresentò la prima assemblea elettiva italiana, stabilendo di affidare il potere legislativo a due Camere, il Consiglio dei Sessanta e dei Trenta. Più tardi, dalla fusione delle repubbliche Cisalpina e Cispadana (giugno-luglio 1797) uscì una nuova Costituzione, imposta da Napoleone, che prevedeva un Parlamento (o Corpo Legislativo) diviso in un Gran Consiglio e in un Consiglio dei Seniori rispettivamente con 160 e 80 membri, nominati dallo stesso Napoleone. Analogamente, nella I Repubblica romana (1798-99) il Parlamento locale, che si rifaceva pomposamente ai nomi classici di Tribunato e Senato, era composto di membri scelti dal comandante delle truppe francesi colà stanziate. È impossibile seguire tutte le vicissitudini dei parlamenti italiani durante il periodo napoleonico, visti i continui mutamenti territoriali e politici apportati da Bonaparte. Più interessante è osservare ciò che avvenne in Sicilia nel 1812, quando i Borbone, anche sotto la pressione degli Inglesi, dovettero procedere a trasformare il loro Parlamento feudale promulgando una Costituzione con una forma piuttosto conservatrice di monarchia costituzionale e un Parlamento bicamerale, abolito nel 1815. Da allora la storia del Risorgimento italiano si svolse sui binari di uno stabile intreccio tra esigenze liberali (e quindi parlamentari) e aspirazioni indipendentistico-nazionali culminate nei numerosi (e sfortunati) moti insurrezionali della carboneria. L'esplosione rivoluzionaria nazionale quarantottesca portò a un fiorire degli istituti parlamentari in tutti gli Stati della penisola, a volte addirittura con tinte di accesa democrazia: come per esempio in Toscana. Fra tutti, quelli di maggiore impegno furono l'Assemblea Nazionale Costituente della II Repubblica romana (1849) che decretò addirittura la scomparsa del potere temporale del papa, modellando i suoi articoli sull'insegnamento etico-politico di Mazzini, e il Parlamento Subalpino, sancito dallo Statuto albertino (1848) che all'atto della proclamazione del Regno d'Italia (marzo 1861) divenne il Parlamento nazionale del nostro Paese. Composto di due Camere (Camera dei Deputati e Senato del Regno, la prima elettiva e la seconda di nomina regia), agli inizi ebbe gravi limiti censitari, poi con varie riforme elettorali si andò adeguando alla crescita della società civile italiana, ma non riuscì a mantenere le proprie prerogative sovrane con l'avvento del fascismo, che lo travolse prima svuotandolo di ogni potere a tutto vantaggio dei poteri del dittatore, poi sostituendolo addirittura con la Camera dei Fasci e delle Corporazioni. La Repubblica italiana, nata dal crollo del regime fascista, è stata dotata di una nuova Carta costituzionale – elaborata dall'Assemblea Costituente ed entrata in vigore il 1º gennaio 1948 – nella quale gli ideali democratici della Resistenza sono espressi anche attraverso il ripristino di un Parlamento bicamerale eletto a suffragio universale maschile e femminile.

Diritto

Nell'ordinamento giuridico italiano, il Parlamento, un istituto di “democrazia diretta”, è un organo composto da due Camere: la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica. Per taluno si può addirittura parlare di due organi diversi che esercitano collettivamente le stesse funzioni ma la Costituzione (art. 55) afferma che: “il Parlamento si compone della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica”. Le differenze fra le due Camere sono ormai assai esigue; esse durano entrambe in carica cinque anni mentre, prima delle modifiche apportate con la legge 9 febbraio 1963, n. 2, il Senato durava sei anni. I deputati sono in numero doppio (630) rispetto ai senatori elettivi (315). Le differenze sono dunque costituite: dalla diversa età minima degli elettori (18 anni per la Camera, 25 anni per il Senato), dalla diversa età minima per gli eletti (25 anni per la Camera, 40 per il Senato); dai diversi sistemi elettorali (a suffragio universale e diretto la Camera, a base regionale il Senato); dalla presenza nel Senato di senatori non eletti, ossia gli ex presidenti della Repubblica, che sono senatori di diritto e a vita salvo rinunzia, e i cinque senatori a vita che ogni presidente della Repubblica può nominare fra i cittadini che abbiano illustrato la patria “per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario” (art. 59 Costituzione). La Camera e il Senato compiono generalmente i loro lavori separatamente; la Camera ha sede, in Roma, al palazzo di Montecitorio, il Senato in palazzo Madama. Vi sono però talune occasioni nelle quali il Parlamento siede in “seduta comune”. In tali casi la sede è quella di Montecitorio e la presidenza dell'Assemblea spetta al presidente della Camera. Questi casi riguardano: l'elezione e il giuramento del presidente della Repubblica (art. 83 e 91 Costituzione), la messa in stato di accusa del presidente della Repubblica (art. 90 Costituzione), del presidente del Consiglio dei Ministri e dei ministri (art. 96 Costituzione), la nomina dei giudici della Corte Costituzionale (art. 135 Costituzione). Le funzioni del Parlamento non sono solo, in base all'applicazione del principio della separazione dei poteri, di carattere legislativo. Il Parlamento ha complesse funzioni di carattere politico, tanto da poter affermare che proprio da esso dipende l'indirizzo politico del Paese. Infatti, alla funzione legislativa (art. 70 e seguente Costituzione) si accompagna: il potere di riforma della Costituzione (art. 138-139 Costituzione) che trova un limite solo nella forma istituzionale repubblicana; il potere di controllo sul governo attraverso l'istituto della fiducia (art. 94 Costituzione), il potere di inchiesta (art. 82 Costituzione), il controllo sul bilancio dello Stato e sul rendiconto consuntivo presentati dal governo (art. 81 Costituzione); il potere di controllo politico sull'operato del governo anche in campo internazionale, in quanto la ratifica di trattati internazionali di natura politica o che prevedano arbitrati o regolamenti giudiziari o che comportino variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi, deve essere autorizzata con legge del Parlamento (art. 80 Costituzione); il potere di eleggere il presidente della Repubblica (art. 83 Costituzione); il potere di nominare un terzo dei giudici della Corte Costituzionale (art. 135 Costituzione); il potere di dirimere i contrasti di interesse, che, data l'attuazione dell'ordinamento regionale, possono sorgere tra il governo e una regione qualora non vi sia questione di legittimità (in tal caso la competenza sarebbe della Corte Costituzionale), ma si tratti di un problema di merito (art. 127 Costituzione). Da quanto esposto si può dunque osservare che il Parlamento, proprio perché immediatamente rappresentativo del corpo elettorale, esercita le sue funzioni in ordine a ogni organo costituzionale, in particolare esercita un controllo diretto sul governo che deve goderne la fiducia (art. 94 Costituzione). Questo sistema viene perciò chiamato “governo parlamentare”. Però, proprio perché il Parlamento è per sua natura organo rappresentativo e può verificarsi l'ipotesi che questa rappresentatività venga meno di fatto, l'art. 88 della Costituzione conferisce al presidente della Repubblica la facoltà di sciogliere le Camere o anche una sola di esse, sentiti i rispettivi presidenti. L'autonomia del Parlamento trova una limitazione solo in questo caso; essa peraltro è completamente garantita da varie norme costituzionali: l'art. 63 riconosce il diritto di ciascuna Camera a eleggere il proprio presidente e il proprio ufficio di presidenza; l'art. 66 afferma che ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità; l'art. 67 dichiara che ogni membro del Parlamento esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato e l'art. 68 prevede garanzie e immunità. Ma la più forte affermazione dell'autonomia parlamentare sembra si debba ritrovare nel potere di autoregolamentazione che l'art. 64 riconosce a ciascuna Camera, in base al quale ognuna adotta un proprio regolamento a maggioranza assoluta dei suoi componenti. I regolamenti parlamentari sono quindi le norme che disciplinano la vita interna e l'effettivo esercizio delle funzioni da parte di ciascun ramo del Parlamento. La Camera ha approvato il proprio nuovo regolamento il 18 febbraio 1971, il Senato il 17 febbraio 1971. Essi riguardano le modalità di elezione del presidente dell'Assemblea e dell'ufficio di presidenza, la formazione dei gruppi parlamentari, delle giunte e delle commissioni permanenti, l'organizzazione dei lavori, la formazione dell'ordine del giorno, le modalità delle sedute dell'Assemblea, ecc. Essi regolano la vita interna di questo importantissimo organo sovrano dal cui effettivo funzionamento dipende in sostanza la vita politica della nazione.

M. Ruini, Il Parlamento della nuova Costituzione, Roma, 1948; idem, Il Parlamento e la sua riforma, Milano, 1952; M. Bon Valassina, Sui regolamenti parlamentari, Padova, 1955; S. Galeotti, Contributi alla teoria del procedimento legislativo, Milano, 1957; F. Cosentino, Note sui principi della procedura parlamentare, Milano, 1958; V. Crisafulli, Aspetti problematici del sistema parlamentare vigente in Italia, Milano, 1960; S. Acanfora, Il cittadino e il parlamento, Roma, 1987.

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