plusvalóre

sm. [sec. XX; dal latino plus, più+valore, calco del tedesco Mehrwert]. Indica il maggior valore monetario sotto forma di produzione ottenuta rispetto al valore monetario iniziale dell'insieme dei fattori produttivi utilizzati nel processo produttivo. Nella storia economica il concetto di plusvalore ha una posizione centrale nella teoria marxista, ma è stato trattato anche da altri autori (F. Quesnay, A. Smith, D. Ricardo, J. A. Schumpeter), con alcune differenze e diversi gradi di elaborazione del concetto. Le varie teorie possono trovare un punto in comune nel fatto che il plusvalore viene considerato funzionale e strumentale allo sviluppo economico generale della società nel suo complesso, ma temporaneo, in quanto destinato a esaurirsi. In Marx, il plusvalore si origina nel contesto dell'economia capitalistica, nella quale la forza-lavoro viene remunerata in rapporto al lavoro necessario alla produzione dei mezzi di sussistenza e di riproduzione della forza stessa. Ciò in quanto, nella società capitalistica, la forza-lavoro è una merce come un'altra; secondo Marx, invece, essa racchiude, a differenza degli altri fattori produttivi, un'intrinseca capacità produttiva che rende la classe operaia portatrice dell'unico elemento valorizzativo del bene prodotto. In questo modo la differenza fisica, riferita a una normale giornata di lavoro, tra la quantità di lavoro effettivamente fornita e quella pari alla remunerazione sopra descritta, consente al capitalista di realizzare un plusvalore assoluto. Allo stesso risultato si perverrebbe anche in ipotesi di aumento della produttività, a parità di tempo fisico lavorato, che determinerebbe il plusvalore relativo. Il meccanismo riproduttivo del capitale (definito da Marx riproduzione semplice o allargata a seconda che ci sia rinnovamento o accrescimento del capitale iniziale) genera, dunque, un processo di accumulazione capitalistica e un progressivo immiserimento del proletariato, il cui grado di sfruttamento viene misurato dal saggio di plusvalore, dato dal rapporto tra plusvalore e capitale speso nell'acquisto della forza-lavoro (salario). Anche per Marx, tuttavia, il saggio di plusvalore è destinato a cadere, senza però che esso necessariamente porti a una “stazionarietà” del sistema economico (come era stato ritenuto da Smith in poi). Le cause di questa caduta sono da ricercarsi nell'instabilità economica e sociale derivata dalla disoccupazione stabile o periodica della forza-lavoro, indotta dal meccanismo di accumulazione. Tutto ciò porta, secondo Marx, a una ridistribuzione fra capitale fisso (beni strumentali e materie prime) e capitale variabile (forza-lavoro) e a un rallentamento del processo accumulativo. Nella concezione di Schumpeter, che riassume i prodromi di un'impostazione teorica decisamente diversa, il plusvalore nasce grazie all'introduzione di un diverso e più conveniente impiego dei fattori produttivi. La “nuova combinazione produttiva”, infatti, è capace di realizzare riduzioni di costo o più elevati prezzi di vendita per effetto di economie esterne e/o interne di varia tipologia. Tale funzione innovatrice viene attribuita all'apporto dell'imprenditore cui logicamente spetta la quota di plusvalore. In questo senso il plusvalore rappresenta generalmente una spinta all'evoluzione e allo sviluppo del sistema economico, nonostante la sua natura evidenzi un carattere monopolistico e al tempo stesso temporaneo, per effetto dell'ineluttabile erosione (la cui velocità dipende dal grado di “trasparenza” e “fluidità” del mercato) conseguente alla riorganizzazione dell'intero ramo produttivo interessato dall'innovazione introdotta.

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