saṃsāra

sm. sanscrito. Concezione dell'esistenza, nella tradizione religiosa dell'India, intesa come trasmigrazione da una forma di vita all'altra in un ciclo inarrestabile di morti e rinascite. È fondamentalmente una risposta vitalistica all'ineluttabilità della morte, nel senso che la vita genera la vita; si tratterebbe della versione indiana del rapporto morte-fecondità in cui al “morire” si sostituisce “l'essere vissuti”; è “l'esser vissuti”, ossia “l'attività”, o karman, caratterizzante una vita, a produrre e a determinare la vita successiva. Tale sistema non è fine a se stesso, ma s'inserisce in un contesto etico-sociale in cui ogni vita – sin dall'essere nati in condizione umana o animale, e, nella condizione umana, in una casta e in una determinata famiglia piuttosto che in un'altra, così come, nella condizione animale, in una o in un'altra specie – è il risultato dei meriti o demeriti acquisiti nella vita precedente. Con il disfacimento del contesto etico-sociale sorretto dalla dottrina del saṃsāra, si ha un sovvertimento di valori: il saṃsāra cessa di essere una “consolazione” (o giustificazione) della morte e diventa il fondamento dell'infelicità della condizione umana; diventa una condanna alla condizione umana, dalla quale ci si deve liberare per assurgere ad altra condizione. La dottrina della liberazione, moksha, già presente alla fine del periodo upaniṣadico, produce movimenti ascetici e religioni eterodosse quali il buddhismo e il giainismo; è infine sempre presente nell'ulteriore sviluppo “ortodosso” che va sotto il nome d'induismo.

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