Plutarco

Le Vite Parallele

Prima rilevante prova nel genere letterario della biografia (cioè la narrazione della vita di un personaggio celebre), le Vite Parallele costituiscono una galleria di celebri personaggi accostati a coppie per le analogie, più o meno forzate, che Plutarco intuisce nelle loro vite, seguite spesso da una synkrísis, cioè da un confronto: Tèseo e Romolo (i primi re, rispettivamente di Atene e di Roma); Pericle e Fabio Massimo (per la prudenza usata da entrambi nelle operazioni militari); Licurgo e Numa (legislatori, l'uno di Sparta, l'altro di Roma); Demostene e Cicerone (entrambi politici ed oratori); Alessandro e Cesare (tutti e due abili condottieri e monarchi). Lo scrittore dichiara con molto scrupolo le sue fonti: ha attinto ampiamente dagli storici precedenti (oltre ai grandi storici dell'età classica Erodoto, Tucidide, Senofonte, anche autori minori quali Duride, Ctesia, Eforo, Teopompo, Timeo) e ha pure ricavato numerose notizie dalla storiografia romana, pur avendo appreso la lingua latina tardi e mai perfettamente.

Biografia e dottrina peripatetica

Si usa collocare l'origine e lo sviluppo del genere biografico all'inizio del IV sec. a.C., quando Isocrate compose l'Evagora e Senofonte l'Agesilao, entrambe opere a metà strada tra la biografia e il panegirico. Sempre nello stesso periodo storico si fa risalire la distinzione tra biografia “peripatetica”, elaborata dal punto di vista formale e riservata a vite di uomini di stato e grandi condottieri (Plutarco è stato incluso in questa tipologia) e biografia “alessandrina”, schematica e asciutta, dedicata a vite di studiosi e con un'esplicita finalità dottrinaria (il maggior esempio è il De viris illustribus di Svetonio). Nel I sec. d.C., Plutarco fissa schema, caratteri e scopi del genere biografico, che non ha più niente a che fare con la letteratura encomiastica: suo compito è rappresentare, con una finalità paradigmatica, i vizi e le virtù dell'uomo. “Non scrivo un'opera di storia, ma delle vite” dichiara l'autore nel proemio alle Vite di Alessandro e Cesare e aggiunge: “Spesso un breve fatto, una frase, uno scherzo, rivelano il carattere dell'individuo più di quanto non facciano battaglie”. Infatti, secondo la dottrina peripatetica del filosofo Teofrasto – da cui Plutarco è molto influenzato – il carattere del personaggio (éthos) si rivela nelle manifestazioni della vita reale e dunque attraverso le azioni (práxeis). Il gusto per il particolare aneddotico ha dunque molta parte nella biografia plutarchea, ma il proliferare degli aneddoti non invalida il senso globale della personalità del protagonista, costruita intorno a un nucleo essenziale di valori etici.

Biografia e storiografia

Il grande merito di Plutarco è quello di aver separato la biografia dalla storiografia elevandola a genere letterario autonomo. Con la fondamentale dichiarazione soprariportata “Non scrivo un'opera di storia, ma delle vite” Plutarco distingue i differenti ambiti delle due forme letterarie che, per estensione, finalità e stile diversi, non possono essere confuse. L'adesione ad un genere diverso dalla storia permette all'autore di soffermarsi su aspetti marginali e di solito trascurati dall'analisi storiografica e su tempi remoti ed avvolti nell'alone misterioso del mito. Nel proemio alle Vite di Tèseo e Romolo, dopo l'affascinante parallelo tra i periodi più antichi “quasi totalmente ignorati” e le zone inesplorate nelle carte geografiche, Plutarco presenta il suo intento moderatamente razionalista nei confronti del mito e del meraviglioso: “Cercherò pertanto di setacciare questo materiale di favole e renderlo ragionevole”. Tuttavia, le concezioni filosofiche e religiose, influenzano i propositi dell'autore il quale, a volte, viene meno alle sue scelte metodologiche e fa rientrare nel racconto delle vite aspetti mistici e legati alla sfera del soprannaturale (come, per esempio, nella Vita di Cesare, l'apparizione del fantasma di Bruto).

Il rapporto con Roma

Il disegno plutarchiano delle Vite, con l'accostamento di un personaggio greco a uno latino, corrisponde all'intento di contrapporre il mondo greco, la cui grandezza politica è ormai tramontata, ma i cui valori restano termine di confronto irrinunciabile, alla supremazia ormai “universale” di Roma. A questo proposito l'atteggiamento di Plutarco appare venato da ombre di ambiguità: nell'opera è costante e continua l'oscillazione tra l'orgoglio dell'intellettuale greco, volto alla strenua difesa del patrimonio culturale e delle sue tradizioni, e l'apertura al mondo latino, mossa dalla comprensione della grandezza insuperabile di Roma, erede della grecità.