Kore’eda, Hirokazu

regista cinematografico giapponese (Tokyo, 6 giugno 1962). Tra i più celebrati autori del nuovo cinema giapponese, ha messo a fuoco una poetica delicata e contemplativa che si presenta quale intima riflessione sui temi universali della società, della famiglia e dei legami affettivi.  
Cresciuto nel culto di registi giapponesi ed europei quali Ozu, Renoir e Truffaut, una volta conclusi gli studi presso l’Università di Waseda, intraprende la carriera di assistente alla regia per documentari televisivi. Esordisce alla regia con il documentario Mou hitotsu no kyouiku (1991), dedicato all’allevamento di un vitello da parte di alcuni studenti delle scuole elementari. L’approdo al cinema di fiction avviene con Maboroshi no hikari (Maborosi, 1995), cronaca del dramma emotivo di una giovane vedova che viene presentato al Festival di Venezia dove si aggiudica il premio Osella per la sceneggiatura e la fotografia. Prova successiva è Wandāfuru raifu (After life, 1998), una pacata riflessione sulla memoria e la morte in cui un gruppo di anime incaricate di accogliere i nuovi defunti nell’aldilà aiuta loro a scegliere l’unico ricordo che potranno conservare: il film ottiene la vittoria al festival di Buenos Aires. Con Disutansu (Distance, 2001) Kore’eda si avvicina con maggior convinzione al tema della famiglia, raccontando la riunione di un gruppo di parenti che si incontrano per commemorare la perdita di alcuni terroristi suicidi. Il successo internazionale arriva con Daremo shiranai (Nobody knows, 2004), in cui la reclusione forzata di quattro ragazzi in un appartamento di Tokyo dopo l’abbandono della madre viene raccontata con la delicatezza e la partecipazione emotiva che diventeranno uno dei suoi marchi di fabbrica. Il film è accolto calorosamente al Festival di Cannes dove Yūya Yagira, attore più giovane ad essere insignito del riconoscimento, conquista il premio per la miglior intepretazione maschile. Il successo del film spiana la strada ad Hana (2006), prima opera in costume dell’autore che viene distribuita anche in America. Il successivo Aruitemo aruitemo (Still walking, 2008) unisce con equilibrio magistrale emozioni intense e stile dimesso nel raccontare una riunione familiare volta a ricordare l’anniversario della dipartita di un giovane membro della famiglia. Kore’eda si concentra successivamente sul tema della solitudine nella vita metropolitana con lavori quali Kūki ningyō (Air doll, 2009), tratto da un manga giapponese e racconto di una bambola gonfiabile che prende improvviamente vita, e Kiseki (I wish, 2010). Soshite chichi ni naru (Father and son, 2013), storia di due famiglie di diversa estrazione sociale che scoprono di aver cresciuto l’una i figli dell’altra, è una nuova occasione per misurarsi con il tema tanto caro dei legami familiari: la vicenda paradigmatica e la delicatezza dello sguardo dell’autore valgono al film il Premio della Giuria al Festival di Cannes. Proprio al Festival di Cannes verrano presentati sempre più spesso i nuovi lavori del regista: tra questi i successivi Umimachi Diary (Little Sister, 2015) e Umi yori mo mada fukaku (Ritratto di famiglia con tempesta, 2016), girati in contemporanea e nuove variazioni sul tema dei legami familiari. Sandome no satsujin (Il terzo omicidio, 2017) vede Kore’eda affontare il genere del thriller legale per tratteggiare una riflessione sulla colpa e sulla ricerca della verità. La consacrazione definitiva arriva con Manbiki kazoku (Un affare di famiglia, 2018) che conquista al Festival di Cannes la Palma d’Oro per il miglior film: è la storia di una famiglia disfunzionale che decide di adottare una bambina abbandonata e che permette al regista di interrogarsi nuovamente sui legami di sangue e sul concetto di famiglia. Il successo del film spiana la strada alla prima produzione in lingua francese del regista: Le vérité (Le verità, 2019) vede la partecipazione di attrici di fama internazionale come Juliette Binoche e Catherine Deneuve e ripropone l’attenzione del regista verso i rapporti familiari e il tema della memoria personale.

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