Lessico

agg. e sm. [sec. XIII; pp. di partire1].

1) Agg., diviso in parti; fig. lett., discorde, diviso in fazioni: “li cittadin della città partita” (Dante). Con accezioni specifiche: A) In araldica, di scudo diviso a metà da una linea verticale (in palo) che passa per il centro. Se la linea di divisione non è rettilinea si parla di partito inchiavato (quando la linea verticale è formata da denti affusati a losanga), partito merlettato o merlato, partito nebuloso, partito ondato, partito dentato, ecc. B) In botanica, di organo vegetale di foggia laminare con margine intaccato da incisioni strette e profonde; generalmente il termine è preceduto da un prefisso numerico che precisa il numero delle parti in cui l'organo risulta suddiviso (bipartito, tripartito, ecc.).

2) Sm., alternativa, soluzione a cui ci si può appigliare per risolvere una difficoltà, mezzo per superare un ostacolo: scegliere il partito più saggio; pesare i vari partiti; non sapeva qual partito prendere. Per estensione, vantaggio: trar partito da qualche cosa; anche decisione che si adotta: prender il partito di costituirsi. Nelle loc.: prender partito, decidersi; prender partito per qualcuno, schierarsi dalla sua parte; far qualche cosa per partito preso, per idea preconcetta; metter la testa a partito, metter giudizio.

3) Occasione matrimoniale, sia per la donna sia per l'uomo; la persona stessa che rappresenta tale occasione: cercano un buon partito per la figlia; quella ragazza è un ottimo partito.

4) Stato, condizione, nelle loc. trovarsi, esser ridotto a mal partito, cioè in pessime condizioni fisiche, morali, economiche.

5) Raggruppamento volontario, composto da individui uniti da idealità e interessi comuni, il cui scopo è quello di determinare l'indirizzo politico generale o più precisamente di conquistare ed esercitare il potere nell'ambito dello Stato: partito liberale; partito socialista; essere iscritto a un partito; i partiti d'opposizione.

6) In passato, setta, fazione: il partito dei ghibellini.

7) Ant., deliberazione di un'assemblea; votazione, scrutinio.

Scienze politiche

Esempi concreti di partiti politici non mancano nella storia più antica (partito di Cesare nella Roma antica; guelfi e ghibellini nel Medioevo, ecc.), ma le prime organizzazioni che a pieno diritto possono essere configurate come veri partiti politici (nel senso moderno del termine) si sono realizzate nel corso dei sec. XIX e XX in concomitanza con lo sviluppo del parlamentarismo e col progressivo diffondersi di quei principi liberali e democratici che garantiscono il diritto alla libertà d'associazione e proclamano la sovranità popolare. Numerose carte costituzionali (come l'art. 49 della Costituzione italiana, che dice: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”) riconoscono i partiti politici strumenti indispensabili dell'esercizio della sovranità del popolo e naturali tramiti attraverso i quali si organizza e si esprime la volontà dei singoli cittadini. Anzi, se molti costituzionalisti ormai definiscono i partiti come “enti ausiliari dello Stato”, il peso crescente da essi assunto nel processo delle decisioni politiche spiega perché si possa addirittura parlare di uno “Stato dei partiti” per indicare la rilevanza di queste forze politiche nel presente sistema democratico rispetto alla fase precedente dello “Stato parlamentare”, propria del periodo liberale, in cui Camera e Senato costituivano i centri motori di tutto il regime politico. Ben diverso infatti era il ruolo dei partiti politici nella società civile durante il periodo dello Stato liberale, in cui dominava il suffragio elettorale ristretto (censitario). Secondo M. Weber i partiti politici erano associazioni private dirette a garantire ai propri aderenti vantaggi personali specie di natura materiale attraverso la manovra delle leve del potere politico e amministrativo. B. Croce, invece, con la sua tipica impostazione filosofica idealistica, li reputava il massimo momento organizzativo etico-politico attraverso il quale le singole personalità – sole protagoniste autentiche della storia e della vita politica – potevano esprimere e diffondere in modo più completo ed efficace la propria carica ideale, riservando ai sindacati e alle organizzazioni di categoria la tutela degli interessi economici. Di contro, la teorizzazione elaborata dal marxismo-leninismo concepisce i partiti politici come semplici sovrastrutture dietro cui si collocano precisi e contrapposti interessi di classe, che scaturiscono dalle basi economico-produttive di ciascuna società; per quanto concerne il partito comunista, è detto che esso deve essere formato dalle sole avanguardie operaie più mature, che si identificano nei “rivoluzionari di professione”, capaci di guidare il proletariato nelle dure lotte classiste e settoriali e, soprattutto, condurlo allo sbocco rivoluzionario durante la fase finale della “dittatura del proletariato”. Ulteriori aspetti originali ha la tesi gramsciana del partito visto come “il moderno principe”, che non deve essere solo dominante nella società, ma anche egemone, cioè deve sapere vincere e nel contempo suscitare intorno a sé il consenso delle più ampie forze democratiche, conquistando in primis la fiducia degli intellettuali. Come fenomeno sociale di dimensioni macroscopiche, il partito politico è ora oggetto di nuovi studi da parte della scienza politica, o politologia. Questa ha ormai da tempo abbandonato le vecchie e poco persuasive classificazioni dei partiti politici per dedicarsi a un'analisi più rigorosa e sistematica, che prende in esame gli elementi oggettivi delle loro strutture di base interne. Così, mentre per R. Michels i partiti politici erano “carismatici” o “di interesse di classe” o “di interesse ideologico”, per V. Pareto transigenti (cioè con grandi probabilità di divenire partiti di governo) o intransigenti (destinati a un'opposizione permanente) e per B. Croce liberali o reazionari (dove i due termini assumevano un significato assai più lato dell'accezione originaria), secondo la moderna politologia, che prende spunto dalla nota tipologia di M. Duverger, i partiti politici si possono distinguere in partiti di comitato, di sezione, di cellula, di milizia. Il partito di comitato ha una struttura burocratica arcaica, quasi inesistente, manca di una rigida gerarchia formale, ha una vitalità intermittente, piuttosto vivace soltanto in occasione delle campagne elettorali: funziona, insomma, come comitato elettorale, impegnato nella raccolta dei suffragi a favore di singoli candidati. Simile struttura elitaria fu adeguata alle esigenze della lotta politica (per la conquista di seggi parlamentari) nello Stato liberale ottocentesco, caratterizzato dal sistema a collegio uninominale, con un esiguo corpo elettorale, fondato sul censo, facilmente raggiungibile e influenzabile attraverso la presenza di potenti club, o circoli, talvolta operanti con criteri addirittura clientelari. Allargandosi le basi del corpo elettorale, si affacciarono alla ribalta i partiti di massa, primi fra tutti i partiti socialisti, con finalità e problemi peculiari che misero capo alla struttura di sezione. Si trattava non solo di “creare” dei deputati, ma di inserire nella vita dello Stato masse crescenti del proletariato organizzandole e dando loro un solido grado di maturità politica. Era necessaria quindi un'attività metodica e continuativa da svolgersi con una burocrazia stabile dipendente da una direzione centrale periodicamente eletta; erano necessari statuti, ordinamenti interni, programmi ben precisi, una diffusione capillare che partendo dalla periferia coprisse l'intero territorio statale attraverso una miriade di elementi di base locali: le sezioni appunto. Laddove il quadro politico generale reazionario – come nella Russia zarista – non permetteva un libero organizzarsi dei partiti nella legalità e alla luce del sole, i partiti rivoluzionari, e in primis i partiti comunisti, si sono dati come struttura di base la cellula, atta a operare nella clandestinità e a sfuggire alle repressioni poliziesche. Formata da un ristrettissimo gruppo di aderenti (non più di 15-20 persone), la cellula per solito raggruppa individui di un medesimo luogo di lavoro o di attività (officina, fabbrica, scuola, caseggiato, ecc.), che si conoscono bene fra di loro in modo da limitare il più possibile eventuali infiltrazioni di delatori. A eliminare ulteriormente tale pericolo, la cellula ha esclusivamente rapporti verticali con i centri dirigenti superiori e costituisce una sorta di compartimento stagno non avendo alcun rapporto orizzontale con le altre cellule. Nel periodo fra le due guerre mondiali, i movimenti fascisti, o comunque autoritari, si sono dati una tipica struttura paramilitare con nuclei armati e addestrati, una rigida gerarchia che si rifà a quella degli eserciti, divise particolari (le camicie nere, brune, ecc.), inni marziali e tutto l'armamentario di un bellicismo che concepisce la lotta politica come violenza e scontro fisico diretto, tendenti addirittura a eliminare fisicamente gli avversari. Sono questi i cosiddetti partiti di milizia, che si ponevano su un piano nettamente antiparlamentare e miravano a distruggere lo Stato liberale rappresentativo nel totale disprezzo dei principi democratici. Se nell'ambito di uno Stato si può individuare la presenza di uno solo o di una pluralità di partiti politici si hanno sistemi monopartitici o pluripartitici, con un'ulteriore suddivisione all'interno di quest'ultima categoria fra bipartitismo e multipartitismo. Il monopartitismo (o sistema a partito unico), che si discosta affatto dalla concezione dello Stato liberal-democratico occidentale per la messa fuorilegge di ogni partito concorrente, è caratteristico dei regimi totalitari di tipo fascista, ma si ritrova anche nelle repubbliche democratiche popolari seppure con motivazioni esattamente contrapposte. Nei regimi fascisti, infatti, il partito, almeno teoricamente, vuole identificarsi con lo Stato, mentre nelle tesi comuniste il partito (organo d'azione della dittatura del proletariato) agisce sullo Stato in attesa di arrivare a costruire la società senza classi, e quindi a permettere l'“estinzione” dello Stato. A proposito del pluripartitismo, si deve distinguere fra il bipartitismo, conosciuto in quei Paesi dove praticamente due soli partiti si contendono la maggioranza dei suffragi, alternandosi vicendevolmente al potere, e il multipartitismo, caratteristico di quelle società poco integrate nelle quali forti tensioni sociali e differenziazioni regionali, linguistiche, religiose, razziali, ecc. danno origine a una molteplicità di partiti. § Va ricordato come i profondi mutamenti geopolitici, la scoperta, in Italia, di una diffusa corruzione all'interno dei partiti e l'adozione nel nostro Paese del sistema maggioritario nelle elezioni per il Parlamento hanno determinato a partire dagli Novanta del sec. XX un profondo cambiamento nel sistema partitico. Da un lato i partiti che si potrebbero definire tradizionali hanno subito un radicale processo di rifondazione facendo proprie le istanze di una società meno arroccata su posizioni ideologiche predeterminate e più flessibile, dall'altro sono sorte formazioni completamente nuove con leader non provenienti dal tradizionale mondo della politica, che si sono peraltro dimostrate di grande impatto e seguito nell'elettorato. In tal senso è risultata particolarmente efficace la definizione dello studioso tedesco Kirchheimer che ha parlato di "partiti pigliatutto”. Essi traggono origine da fenomeni sociali ed economici (declino delle ideologie, benessere diffuso, ruolo dei mass media), e sono essenzialmente interessati a estendere in maniera indifferenziata il proprio elettorato (Forza Italia in Italia e in anni recenti En Marche! in Francia). A tal fine si accentua il ruolo della leadership a scapito di quello degli iscritti e degli attivisti, aprendosi all’influenza dei gruppi di pressione e stemperando il programma. A partire dai primi anni 2000 la politica europea ha visto anche la nascita di organizzazioni post-ideologiche che si definiscono libere associazioni di cittadini (Partiti Pirata del Nord Europa, Movimento 5 Stelle in Italia, Indignados in Spagna, Movimento Occupy).

Diritto

Giuridicamente il partito politico è un'“associazione non riconosciuta”; non ha infatti personalità giuridica. Delle obbligazioni assunte dal partito sono dunque responsabili i suoi dirigenti. Il partito politico ha però diritto alla tutela del proprio nome, del contrassegno ed eventualmente della bandiera. Lo Stato rinuncia dunque a esercitare un controllo sull'attività interna dei partiti, che è regolata dal rispettivo statuto, ma si riserva un diritto di controllo sull'attività esterna, in quanto essa si deve uniformare ai principi democratici che sono alla base dell'ordinamento giuridico statale. Eccezioni a questa regola sono: il divieto di ricostituzione del partito fascista; il divieto di costituzione di partiti sovversivi o che tendano al mutamento dell'ordine costituito mediante la rivoluzione. Un altro aspetto del partito politico che ha assunto, in tutti gli ordinamenti giuridici moderni, e anche nel nostro, importanza fondamentale è quello di organo dello Stato, soprattutto sotto la forma di “gruppo elettorale” e di “gruppo parlamentare”. Essi infatti esercitano delle funzioni costituzionali, il gruppo elettorale nel momento delle elezioni, il gruppo parlamentare durante l'attività parlamentare. È pur vero che la Costituzione stessa sancisce per i membri del Parlamento il divieto del mandato imperativo (art. 67), ma è anche vero che ogni elettore si trova di fronte, al momento delle elezioni, a delle liste di candidati contrassegnate dal simbolo di ciascun partito e non può votare per persone diverse da quelle contenute nelle liste. Oltre a ciò, nei gruppi parlamentari, la disciplina di gruppo vincola i componenti alla disciplina di partito con la sola eccezione della votazione a scrutinio segreto. Proprio per questa funzione pubblicistica assunta dai partiti se ne era disposto il finanziamento pubblico con la legge 2 maggio 1974, n. 195, che impegnava lo Stato a contribuire alle spese elettorali dei partiti che fossero stati rappresentativi di una certa parte dell'elettorato, pur nella tutela delle minoranze linguistiche. Contestata da più parti, la legge aveva superato la prova di un referendum abrogativo (11 giugno 1978). Tuttavia le inchieste della magistratura, sviluppatesi particolarmente dopo il 1992, avevano messo in luce come, soprattutto attraverso il sistema degli appalti per le opere pubbliche, si era sviluppata una vasta rete di finanziamenti illegali ai partiti, oltreché a singoli candidati. Ciò ha portato, nel 1993, ad un serrato dibattito per la revisione delle norme sul finanziamento ai partiti, anche perché con referendum del 18 aprile 1993 la legge n. 195 del 1974 è stata abrogata. Con la legge 2 gennaio 1997, n. 2, erano state approvate le norme per la regolamentazione della contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici, attraverso le quali, in sede di dichiarazione dei redditi, si poteva destinare lo 0,4 per mille dell'IRPEF al finanziamento della politica, alla stregua di quanto già si faceva con l'8 per mille. Lo scarsissimo gettito derivato da tale strumento ha spinto il legislatore ad adottare nuove regole. È scomparso il finanziamento pubblico annuale mentre permane quello straordinario (L. 3 giugno 1999, n. 157). Quest'ultimo è erogato dal presidente della Camera ai partiti politici in occasione di consultazioni elettorali. Si basa su una quota fissa stabilita dalla legge per ogni elettore e da distribuire fra i partiti in base ai risultati ottenuti. Sono state poi introdotte agevolazioni di natura fiscale per le erogazioni liberali ai partiti e movimenti politici prevedendone la detrabilità dall'imposta dovuta. Nel 2012 il GRECO (Groups d'Etats contre la COrruptions/Group of States against Corruption), un organismo del Consiglio d'Europa per aiutare gli Stati aderenti nella lotta contro la corruzione, ha redatto un "Rapporto di valutazione sulla trasparenza del finanziamento dei partiti politici" che ha evidenziato le criticità del sistema italiano. Il governo Letta ha emanato il decreto legge 28 dicembre 2013, n. 149, convertito in legge 21 febbraio 2014, n. 13, che prevede espressamente l'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti.

Bibliografia

P. Virga, Il partito politico nell'ordinamento giuridico, Milano, 1948; M. Duverger, Les partis politiques, Parigi, 1951; G. Leibholz, Strukturprobleme der modernene Demokratie, Karlstruhe, 1958; G. Maranini, Miti e realtà della democrazia, Milano, 1958; H. Arendt, The Origins of Totalitarianism, New York, 1966; A. Colombo, La dinamica storica dei partiti politici, Milano, 1970; L. Morlino (a cura di), Costruire la democrazia. Gruppi e partiti in Italia, Bologna, 1991; P. Scoppola, La Repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema partitico, 1945-1996, Bologna, 1997; O. Massari, I partiti politici nelle democrazie occidentali, Roma-Bari, 2004; D. Della Porta, I partiti politici, Bologna, 2009.

 

 

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