I filosofi di fronte all'IA

L’enorme e inarrestabile sviluppo tecnologico ha condotto al perfezionamento di elaboratori elettronici sempre più sofisticati: dalla prima generazione (1946-58) alla quarta (1972), basata sui circuiti a elevato livello di integrazione che permettono di concentrare in un microprocessore (un’unica piastrina di silicio contenente il circuito altamente integrato, il chip) l’unità di elaborazione centrale. Le prestazioni di questa generazione avanzata di elaboratori ha reso possibile non soltanto l’esecuzione di procedure algoritmiche e la dimostrazione automatica dei teoremi, ma anche la risoluzione di problemi formalizzati simulando funzioni cognitive di apprendimento e operazioni inferenziali, quali l’induzione e la deduzione. La ricerca in questo settore ha così reso possibile la realizzazione di macchine capaci di riconoscere e sintetizzare informazioni e forme attraverso specifici sensori: dall’elaborazione della voce e della visione a quella del linguaggio naturale che mira a costruire sistemi capaci di comunicare in forma scritta con l’essere umano. Tutti questi progressi, dall’indiscussa ricaduta anche nel possibile miglioramento della vita sociale, hanno sempre più riproposto alla riflessione sull’IA il duplice problema impostato grazie a Turing, cioè se l’intelligenza umana sia riconducibile a una serie di operazioni algoritmico-computazionali, e se gli elaboratori elettronici, costantemente in progresso sia per potenza sia per versatilità di prestazioni, possiedano un’intelligenza isomorfa a quella umana. Tra gli studiosi più accreditati e convinti dell’IA va ricordato lo statunitense Marvin L. Minsky (New York 1927), fondatore del Laboratorio di intelligenza artificiale del Massachusetts Institute of Technology (MIT), che in La società della mente (1986) ha sostenuto una teoria di tipo connessionistico, secondo la quale la mente sarebbe da concepire come costituita da una rete di unità semplici di elaborazione, chiamate “agenti”, dalle cui interrelazioni scaturirebbero i processi psichici. Accanto a lui, oltre agli specialisti fautori dell’IA, anche il filosofo statunitense Hilary Putnam (Chicago 1926) che in una prima fase della sua riflessione, e precisamente in Menti e macchine (1960), ha sostenuto che gli stati mentali, assimilabili agli stati di una macchina di Turing, possono essere realizzati su sostrati fisico-materiali diversi, organici ed inorganici: tipi differenti di hardware possono realizzare il medesimo software. Una voce critica che ha contestato l’assimilazione dei due tipi di intelligenza, artificiale e umana, in base alle diverse modalità di funzione e di operatività si è levata soprattutto dal filosofo statunitense del linguaggio John R. Searle (Denver 1932). Nell’articolo Menti, cervelli e programmi (1980) Searle ha asserito che le macchine decifrano, calcolano e organizzano sinteticamente catene di simboli con cui può essere formalizzato il linguaggio naturale senza però essere in grado di comprenderne il significato, cioè di dare luogo a un’interpretazione, in quanto questa non richiede soltanto la correttezza formale e grammaticale ma anche la determinazione di precisi riferimenti semantici all’oggetto di cui si sta parlando. Egli ha così ritenuto dimostrare che una macchina, anche qualora fosse in grado di esibire abilità e fornire prestazioni intelligenti, non per ciò sarebbe comunque possibile definirla intelligente.