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  • La teoria aristotelica della tragedia

La teoria aristotelica della tragedia

Nella Poetica, Aristotele riprende le antiche teorie sulla tragedia focalizzando l'attenzione su due concetti: quello di mìmesis (imitazione) e di kàtharsis (purificazione). Il primo si riferisce al valore e alla finalità della poesia e dell'arte in genere, in modo particolare della tragedia: tutti gli artisti sono “imitatori” (cfr. Repubblica di Platone) perché creano una realtà fantastica, modellata sulla realtà ma tuttavia diversa da essa. “Ci sembra che due siano le cause, entrambe d'ordine naturale, che in sostanza danno origine all'arte poetica. Anzitutto è connaturato negli uomini sin da fanciulli l'istinto d'imitare; in ciò si distingue l'uomo dagli altri animali, perché la sua natura è estremamente imitativa e si procura per imitazione i primi apprendimenti. Poi c'è il piacere che tutti provano davanti alle opere: quelle cose che ci fanno soffrire quando le vediamo nella realtà, ci recano piacere se le osserviamo in immagini che siano il più possibile fedeli, come i disegni delle bestie più sordide o dei cadaveri.” (Poetica, 1148 b 4-12) Quest'illusione attira e suggestiona il pubblico favorendo l'identificazione dello spettatore con i personaggi e una forte compartecipazione emotiva. Su questa profonda empatia si innesta il processo della catarsi: l'ascoltatore si immedesima a tal punto nelle vicende rappresentate da liberarsi dalle passioni portate in scena. Così Aristotele definisce la tragedia: “Tragedia è opera imitativa di un'azione seria, completa, con certa estensione; eseguita con linguaggio adorno distintamente nelle sue parti per ciascuna delle forme che impiega; condotta da personaggi in azione, e non esposta in maniera narrativa; adatta a suscitare pietà e paura, producendo tali sentimenti la purificazione che i patimenti rappresentati comportano.” (Poetica, 1149 b 24- 28)