Cos'è la decomunizzazione?

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La decomunizzazione è il processo di smantellamento dei lasciti delle istituzioni statali, della cultura e della psicologia comuniste nei Paesi post-comunisti. È una sorta di “pulizia politica” che si è verificata (e si sta tuttora verificando) negli Stati un tempo facenti parte del Blocco orientale e dell'Unione Sovietica, dopo la caduta del comunismo e la fine della Guerra Fredda. Pur condividendo tratti comuni, i processi di decomunizzazione hanno funzionato in modo diverso nei vari Stati.

In alcuni Stati dell’ex Blocco orientale, la decomunizzazione ha incluso il divieto di simboli comunisti. Ma non è la regola. Diversamente da com’è avvenuto con il nazismo, non c’è stato un tribunale internazionale sui crimini del comunismo, atto a giudicare le sue pratiche contrarie al diritto e a stabilire i principi comuni della decomunizzazione. Nei vari Stati, questo processo è stato “affidato” a singoli istituti: l‘Ústav pamäti národa in Slovacchia (“Istituto della memoria nazionale”) e l’omonimo Instytut Pamięci Narodowej in Polonia; il Lietuvos gyventojų genocido ir rezistencijos tyrimo centras in Lituania (“Centro lituano di ricerca sul genocidio e la resistenza”); l’Úřad dokumentace a vyšetřování zločinů komunismu in Repubblica Ceca (“Ufficio di documentazione e indagine sui reati del comunismo”) e così via.

Come avviene la decomunizzazione

A grandi linee si possono individuare tre modalità di decomunizzazione. Quella più soft appartiene a Paesi come la Bielorussia e le altre ex repubbliche socialiste sovietiche (fino al 2015, persino l’Ucraina), dove la decomunizzazione è avvenuta solo in modo formale, ma non pratico.

In altri Stati, come la Germania e l’Albania retta per 40 anni dal dittatore comunista Enver Hoxha, la decomunizzazione ha abbracciato solamente dei settori particolari, con l’allontanamento di funzionari e l’apertura degli archivi dei servizi segreti.

In Stati come Polonia, Estonia, Lettonia, Repubblica Ceca, invece, la mano pesante della  decomunizzazione ha previsto la condanna in toto del regime comunista, dunque anche dei simboli ad esso collegati. Come, ad esempio, i busti e le statue ritraenti Stalin (praticamente scomparse) e Lenin (non esiste paesino, anche il più remoto, che non abbia una sua immagine).

In Ucraina il processo di decomunizzazione e desovietizzazione è iniziato subito dopo la fine dell'Urss con il presidente Leonid Kravčuk. Ma è stato piuttosto soft. Da metà 2015, grazie alla legge sulla decomunizzazione approvata dal parlamento di Kiev, è iniziata la demolizione di monumenti e statue di epoca sovietica: smantellati 2389 monumenti e statue di epoca comunista, più 1320 statue in onore di Lenin. La legge ha toccato anche la toponomastica: ben 51493 vie, 25 distretti e 987 centri abitati sono stati rinominati di conseguenza.

Qualcosa di simile è successo in Polonia a partire dal 2017: nel quadro del processo di decomunizzazione, è stato cancellato qualsiasi richiamo al comunismo nelle denominazioni di vie, piazze e ponti, compresi quelli che ricordano Karl Marx e Friedrich Engels. 469 le statue rimosse nel Paese: più della metà di esse ricordavano il sacrificio dei soldati dell’Armata Rossa per liberare la Polonia dall’occupazione nazista.

A inizio 2017, in Ungheria, il governo ha deciso di rimuovere a Budapest la statua dedicata al filosofo marxista Giorgy Lukacs, così come di chiudere  i suoi archivi presso l’Accademia delle Scienze, visitati ogni anno da migliaia di studiosi di tutto il mondo. Una damnatio memoriae che non può non richiamare quanto successo qualche anno dopo con il movimento Black Lives Matter.

Matteo Innocenti