Descrizione generale

s.m. [da bipartito]. In senso letterale, il termine bipartitismo indica un sistema politico caratterizzato dalla presenza di due soli partiti in competizione per il governo. Il bipartitismo si distingue, perciò, dal monopartitismo, caratterizzato dalla presenza di un unico partito al governo, e costituisce una specifica strutturazione del pluripartitismo proprio dei partiti politici democratico-parlamentari contraddistinti dalla competizione di più partiti. All'interno dei regimi pluripartitici, infatti, il bipartitismo si differenzia dal multipartitismo, che è un sistema in cui si ha la concorrente presenza di più di due partiti, esprimendo in genere tale pluralità con la scarsa integrazione di società contrassegnate da forti fratture sociali e da profonde differenziazioni regionali, linguistiche, religiose, razziali, ecc. Il bipartitismo va distinto anche dal bipolarismo, in cui a competere non sono formazioni politiche fortemente strutturate e caratterizzate da unità interna e da relativa stabilità nel tempo (cioè partiti nel significato proprio della parola), ma coalizioni di forze indotte dal meccanismo elettorale (maggioritario, uninominale) a stringere intese, a elaborare programmi comuni e a selezionare candidati da sottoporre al giudizio dell'elettorato. La storia politica internazionale, in realtà, presenta ben pochi esempi di bipartitismo allo stato puro. Lo stesso sistema politico britannico – considerato l'archetipo del bipartitismo – può essere giudicato bipartitico solo per approssimazione. In realtà, infatti, il meccanismo elettorale basato su piccoli collegi uninominali – in cui viene eletto un solo candidato, senza alcun recupero in sede centrale dei voti “dispersi” – ha prodotto spesso esiti incongrui con il loro presunto principio ispiratore. Frequentemente piccole formazioni locali hanno goduto della rappresentanza parlamentare, mentre partiti nazionali (come il vecchio Partito liberale), forti di un diffuso consenso elettorale ma incapaci di vincere la competizione nei singoli collegi con i candidati dei partiti maggiori (conservatori e laburisti), sono risultati privi di qualsiasi presenza nelle istituzioni. Si è prodotto, così, un bipartitismo tendenziale, non di rado condizionato proprio dal potere di coalizione di piccole formazioni locali. Opinabile è anche l'attribuzione di caratteri rigorosamente bipartitici al sistema politico degli Stati Uniti. Qui, infatti, la storica polarizzazione del consenso elettorale attorno alle forze dominanti dei democratici e dei repubblicani non ha mai impedito l'emergere di movimenti e candidati outsider (si pensi al caso Ross Perot in occasione delle presidenziali del 1992 e del 1996). Molti regimi democratici occidentali, come nella Francia e nella Germania postbelliche, caratterizzati da una costante e vivace competizione fra schieramenti contrapposti capaci di avvicendarsi alla guida del governo nazionale, pur nella diversa configurazione elettorale e istituzionale della rappresentanza politica, mostrano un numero consistente di partiti in competizione. Essi tendono, insomma, al modello bipolare – favorendo coalizioni di schieramenti (come in Francia) o convergenze sui partiti maggiori rinforzate da soglie d'accesso o da premi di maggioranza (come in Germania) – pur rimanendo rigorosamente pluripartitici. Esperienze propriamente bipartitiche sono caso mai rintracciabili in regimi di democrazia imperfetta, dove – come in alcuni Paesi dell'Africa o dell'Asia – il consenso elettorale è ancora orientato dalle appartenenze etniche o tribali o, viceversa, come in certe realtà politiche sudamericane, dal controllo sociale esercitato da leaderse gruppi di pressione tradizionali. La competizione elettorale bipartitica, o tendenzialmente tale, è comunque giudicata da molti un modello ideale di rendimento e funzionalità democratica almeno per tre ragioni: perchè enfatizza la capacità degli elettori di determinare con il voto chi deve governare, penalizzando quindi chi governa male; perchè obbliga i partiti ad adottare politiche realistiche e moderate per attrarre l'elettorato di centro, decisivo per la vittoria dell'uno o dell'altro partito; infine, perchè spinge a un atteggiamento pragmatico e responsabile l'opposizione, consapevole di poter costituire a breve termine un'alternativa di governo. La maggior parte dei politologi associa infatti la nozione di alternanza ai sistemi politici e elettorali di tipo bipartitico, che favoriscono una reale possibilità di avvicendamento al governo di forze alternative, accrescendo la competizione democratica e migliorando il rendimento delle istituzioni.

Il bipartitismo in Italia

In questo senso, per esempio, sin dagli anni Settanta del sec. XX il sistema politico italiano era stato definito da Giorgio Galli una forma di bipartitismo imperfetto, in cui due partiti egemoni (Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano) si confrontavano senza che si producesse alternanza alla guida delle istituzioni. La radicale crisi di legittimità che aveva investito il sistema dei partiti fra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, confermata dal successo di referendum popolari ispirati al superamento del vigente sistema proporzionale e rinforzata dal venir meno di alcuni vincoli di politica internazionale (guerra fredda, blocchi militari contrapposti), sollecitava riforme elettorali che avevano progressivamente condotto a un sistema grossolanamente bipolare, in cui non si intravedevano però forti tendenze al bipartitismo. Sin dalle origini risorgimentali, del resto, la democrazia parlamentare italiana sembrava presentare resistenze all'assunzione di un modello bipartitico che rifletteva forse fattori sociali connessi con l'eterogeneità economica e culturale del Paese. Negli anni che seguirono l'unificazione politica del Paese, Destra e Sinistra “storiche” si configuravano come coalizioni parlamentari volubili e scarsamente coese, malgrado un regime elettorale favorevole a sviluppi bipartitici. Già la scelta del connubio da parte di C. Cavour e, più tardi, l'esperienza del trasformismo di A. Depretis, segnalavano una precoce vocazione del sistema politico italiano a intese fra schieramenti poco inclini a dinamiche propriamente bipartitiche. Ancora Galli, peraltro, vide nella stagione giolittiana l'anticipazione di una sorta di bipartitismo imperfetto, in cui l'opposizione socialista era sollecitata a rappresentare responsabilmente le ragioni delle classi subalterne candidandosi a sostituire al potere i ceti borghesi e le forze politiche moderate o conservatrici. Questo processo sarebbe stato interrotto dalla Grande guerra e, poi, dall'avventura dittatoriale del fascismo. Nel secondo dopoguerra, ragioni interne e internazionali avrebbero ulteriormente impedito l'approdo, con il bipartitismo tendenziale, a una vera democrazia dell'alternanza. Giovanni Sartori aveva opposto alla formula del bipartitismo imperfetto quella del pluralismo polarizzato, criticando con ciò l'impianto analitico di Galli e le sue premesse politologiche. Solo con la riforma elettorale del 1993 e con le due ravvicinate consultazioni del 1994 e del 1996, però, la questione era uscita dai dibattiti fra specialisti e dalla riflessione degli addetti ai lavori per trasformarsi in sperimentazione di un nuovo modello di rappresentanza, ispirato ai principi della democrazia competitiva. Con la legge elettorale maggioritaria votata nel 1993, infatti, dopo che due referendum tenuti nel 1991 e nel 1992 avevano evidenziato l'insofferenza degli elettori verso un sistema rigidamente proporzionale, anche l'Italia si avviava, almeno tendenzialmente verso il bipartitismo. In realtà anche nel nuovo meccanismo veniva mantenuta una quota di seggi (25%) da assegnare con il metodo proporzionale, ma ciò, di per sé, non costituiva un vero ostacolo all'esemplificazione del quadro politico. Era semmai la storia dei partiti italiani a rendere meno lineare un percorso che, almeno nella mente degli ideatori dei referendum, avrebbe dovuto condurre in breve tempo alla scomposizione delle vecchie organizzazioni e a una nuova riaggregazione di forze in grado di rendere effettivamente bipartitico il sistema. Pur in un contesto complicato, comunque, l'introduzione del maggioritario spingeva i partiti a creare delle alleanze elettorali che determinavano, se non il bipartitismo, sicuramente una polarizzazione della politica italiana. Nelle prime elezioni con il nuovo sistema (1994) ciò si determinava solo in parte per l'esistenza di tre “poli” e per l'eterogeneità delle alleanze che si erano prodotte nell'occasione, avendo come effetto l'interruzione della legislatura solo dopo due anni. Ma l'esperienza condotta e il sommovimento che si era intanto creato nel panorama politico italiano, fatte salve poche eccezioni, avevano portato al confronto elettorale tra due “poli”, quello di centro-destra e quello di centro-sinistra.

Bibliografia

F. Barbano, Sociologia della politica: concetti, metodi e campo di ricerca, Milano, 1961; M. Duverger, I partiti politici, Milano, 1961; E. Pennati, Elementi di sociologia politica, Milano, 1961; G. Galli, Il bipartitismo imperfetto, Bologna, 1966; G. Sartori, Tipologia dei sistemi di partito, in “Quaderni di sociologia”, XVII, pag. 187, 1968; idem, Antologia di scienza politica, Bologna, 1971.

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