Definizione

Sm. [sec. XIX; dal francese communisme]. Dottrina e sistema politico-sociale fondato sul principio dell'uguaglianza reale (non astratta né puramente nominale), che comporta, anche se non necessariamente, il possesso comune di tutti i beni e l'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione. In questo senso il comunismo va distinto dal collettivismo, che implica il possesso comunitario integrale di tutti i beni. Ispirato all'istanza di radicale rinnovamento della società umana, il comunismo si è sviluppato attraverso i tempi con tematiche di varia ispirazione e non meno difformi teorizzazioni, cui sono seguiti rinnovati tentativi di realizzazione pratica.

Scienze politiche: anticipazioni del comunismo

Premesso che il termine comunismo designa nel linguaggio politico contemporaneo il complesso delle teorie e delle esperienze storiche che tra XIX e XX secolo hanno fatto riferimento al pensiero di K. Marxe di V. Lenin (marxismo-leninismo), va detto che taluni hanno riconosciuto primordiali forme di comunismo pratico fin dagli albori della civiltà. La proprietà comune della terra è considerata per esempio un carattere peculiare dei popoli preistorici già nei vagheggiamenti classici di una mitica “età dell'oro” dell'umanità. Sul piano più concretamente storico, la terra comune, da tutti conquistata e difesa, consentì in effetti la trasformazione dei primi sodalizi umani in cellule sociali omogenee, che tuttavia diedero ben presto vita a forme di proprietà privata, nate in seguito alle prime rudimentali organizzazioni del lavoro necessarie a rendere più proficua l'attività economica. Ne scaturì una gerarchizzazione della società, divisa tra minoranze detentrici del potere economico e politico e larghe fasce di popolazione subordinate. Questa divisione si approfondì nei secoli, determinando la formazione di diverse classi sociali e portò a continue sollevazioni, ispirate a un anelito di giustizia reclamante una più equa distribuzione della terra. Aspirazioni egualitarie si riscontrano anche in alcuni filoni del pensiero greco, nei quali però ciò che è genericamente rapportabile al comunismo non discende da un qualche desiderio di giustizia sociale, ma esattamente dall'opposto: dalla convinzione cioè che l'aristocrazia dei sapienti e le classi dominanti dovessero svincolarsi dai condizionamenti economici per realizzare liberamente il sommo bene della Repubblica ideale. Tale appare il caso più celebre delle teorie comuniste della Grecia classica, quello di Platone, che nella Repubblica vorrebbe appunto introdurre il comunismo per affrancare dall'egoismo della proprietà privata le classi dirigenti (i “re filosofi” e i “custodi dello Stato”) affinché si dedichino interamente al bene pubblico. A eccezione, forse, della satira di Aristofane (che ricorda con simpatia quanti, ad Atene, volevano mettere in comune le terre, il danaro, i pasti e le donne), una visione antitetica a quella platonica svilupparono i cinici (che proclamavano la fratellanza e l'eguaglianza di tutti gli uomini, facendo partecipi della comunanza dei beni anche le categorie più umili), gli stoici e gli epicurei ellenici, che tuttavia disprezzavano i beni economici all'insegna dell'individualismo. A Roma, le lotte secolari che opposero patrizi e plebei ebbero un carattere più marcatamente sociale, ispirandosi ad una politica di più equa suddivisione delle proprietà fondiarie, mentre forme di comunismo non fondate su motivazioni economico-sociali ma su princìpi etico-religiosi si ritrovano nelle comunità pitagoriche della Magna Grecia. Anche nel mondo ebraico i seguaci degli esseni (sec. II e I a. C.) praticavano la comunione dei prodotti agricoli e avevano abolito il lavoro servile. In maniera analoga, i cristiani dei primi secoli interpretarono il messaggio evangelico in chiave di radicale rinuncia ai beni del mondo e misero in comune le loro sostanze. Come il comunismo platonico consegue al disprezzo per i beni materiali in nome della sapienza, così quello cristiano primitivo consegue all'ascetico rifiuto del denaro e del possesso in nome dei valori ultraterreni. Ma il comunismo cristiano, avendo tra le sue premesse anche l'individualismo e l'egualitarismo, si apparenta assai più al comunismo dei cinici che non a quello di Platone. Questa iniziale somiglianza, riscontrabile nelle correnti ereticali del II secolo d.C. (Carpocrate, Epifane), venne però meno nel Medioevo, quando varie tendenze eretiche, partendo dall'interpretazione letterale della povertà evangelica, tracimarono in veri e propri movimenti sociali di tipo chiliastico rivendicanti forme di comunismo. Un simile anelito si manifesta nella predicazione di Arnaldo da Brescia o nei fermenti del movimento francescano, nelle esortazioni millenaristiche di Gioachino da Fiore o di Giovanni da Parma o di Gherardo da San Donnino, come pure nelle pressanti richieste mistico-rivoluzionarie del comunismo degli Albigesi, dei patarini, dei fratelli apostolici di Fra' Dolcino, dei lollardi inglesi e degli hussiti di Boemia, ai quali tutti la Chiesa di Roma contrappose un'ortodossia secondo cui la rinuncia ascetica ai beni del mondo non costituisce un dovere, ma un esercizio di virtù, e non riguarda comunque né la Chiesa né gli ordini monastici in quanto istituzioni ma solo gli individui. Nel Cinquecento, sull'onda della Riforma luterana, si svilupparono analoghi movimenti ereticali che, come quello anabattista, assunsero aspetti rivoluzionari e di avanzata rivendicazione sociale, poi travasati nelle jacqueries francesi e nelle tante rivolte contadine sei-settecentesche. Diverso dal comunismo religioso, anche se talvolta intrecciato con esso, fu l'insieme delle teorizzazioni genericamente comunistiche e di tipo utopistico derivanti dalla svolta culturale impressa all'Europa cristiana dall'Umanesimo e dal Rinascimento. Numerosi filosofi e letterati cercarono tra XVI e XVII secolo di disegnare un nuovo assetto dei rapporti economico-sociali, immaginando ipotetici modelli di sistemi comunisti a base egualitaria che si richiamavano talora a visioni religiose, talora a reviviscenze platoniche, talora ai diritti naturali. Così fecero T. Moro con la descrizione di Utopia (1516), A. F. Doni con l'immagine dei Mondi celesti (1552-53), T. Campanella con il racconto della Città del Sole (1602). Benché sia rimasto utopistico fino a tutto il Settecento e alla prima metà dell'Ottocento, il comunismo assunse tratti più realistici con i contributi dei dottrinari del secolo XVIII, da Meslier a Rousseau, da D'Holbach a Linguet, da Mably a Morelly, tutti unanimi nel cercare di riorganizzare la società sulla base del principio “il lavoro secondo le forze di ciascuno, i prodotti secondo i bisogni individuali”. Lo sviluppo industriale e la conseguente formazione di notevoli masse proletarie portarono in primo piano i drammatici risvolti delle questioni economiche, legate allo sfruttamento del lavoro, e la possibilità di porre in essere una società comunista divenne questione assai più concreta. Nell'ambito della Rivoluzione francese, per esempio, gli hebertisti reclamarono la drastica abolizione dei privilegi connessi alla proprietà, mentre il divario fra il momento giuridico della semplice uguaglianza “formale” e il momento economico dell'uguaglianza “reale” divenne il tema dominante di Babeuf, di F. Buonarroti e dei membri della “congiura degli Uguali” (1796 che realizzò la convergenza tra gli eredi del giacobinismo e i neofiti del comunismo rivoluzionario, pronti a ricorrere alla forza per abbattere l'ordine costituito. Nell'Ottocento le esigenze del proletariato moderno, anelante a riscattarsi dalle condizioni di sudditanza economica e politica, si ritrovano anche negli scritti di C.-H. Saint-Simon e di C. Fourier. Mentre R. Wallace credette di scorgere nel comunismo il mezzo definitivo per riscattare l'uomo dai più pesanti ostacoli materiali e morali, W. Godwin predicò un comunismo a sfondo anarchico, C. Hall previde un'antitesi sempre più diffusa fra una minoranza di ricchi possessori del capitale privato e le masse dei lavoratori, Proudhon proclamò addirittura che “la proprietà privata è un furto” e J.-A. Blanqui consigliò la formazione di una “dittatura parigina”, per fare piazza pulita degli antichi padroni e preparare le masse all'esercizio della democrazia.

Scienze politiche: comunismo marxista

Rispetto a questi progetti, che hanno il limite di affidarsi ai generosi sforzi di piccole minoranze e non fuoriescono dall'utopismo, una svolta significativa nel programma del comunismo moderno viene impressa da K. Marx e da F. Engels che, nel 1848, alla vigilia dei moti rivoluzionari, pubblicano a Londra il Manifesto del Partito Comunista, destinato a costituire la prima esposizione teorica, completa e unitaria, di un programma e di una strategia politica che indicano quale compito decisivo dei comunisti la costruzione di una nuova società senza classi . Ai principi del giusnaturalismo e del razionalismo settecentesco e alla concezione filosofica dell'idealismo (soprattutto hegeliano), Marx contrappone una “filosofia della prassi”, volta a considerare ogni aspetto dell'attività umana come un fenomeno sociale, che si svolge all'insegna di un continuo movimento dialettico e trova nella rivoluzione (“forza motrice della storia”) lo strumento per superare le contraddizioni esistenti e inaugurare un nuovo sistema di rapporti individuali e collettivi. Le tappe per raggiungere il traguardo finale comportano tre fasi distinte, che costituiranno la piattaforma di lotta della I Internazionale, creata a Londra nel 1864. Anzitutto, il proletariato deve prendere coscienza del suo ruolo di classe oppressa e, attraverso la rottura rivoluzionaria dell'ordine costituito, deve distruggere lo Stato borghese; una volta conquistato il potere politico attraverso la formula della “dittatura del proletariato”, deve provvedere a socializzare i mezzi di produzione, eliminando i residui della vinta borghesia; infine, quando i rapporti economici avranno permesso di eliminare “ogni forma di sfruttamento dell'uomo sull'uomo”, prenderà il via la società senza classi, col trionfo completo del comunismo. Tuttavia, dopo la sconfitta della Comune (1871), che doveva costituire il primo esempio storico di governo proletario dichiaratamente antiborghese, all'interno del movimento rivoluzionario europeo, che si richiama al programma di Marx, si formano due correnti, destinate a contrapporsi nella scelta delle tattiche da seguire per edificare la società del futuro. A destra, dopo la nascita della socialdemocrazia tedesca e lo sviluppo della II Internazionale, fondata a Parigi nel 1889, prevalgono i gruppi riformisti, convinti che la violenza rivoluzionaria non sempre è indispensabile ma che l'allargamento del suffragio elettorale e il diffondersi dei movimenti sindacali rappresentano i mezzi più efficaci per far sentire la presenza determinante delle forze operaie nella vita politica. Ma contro questa interpretazione, che assorbe i principi del revisionismo e reputa possibile (e preferibile) la “via parlamentare” per raggiungere la società senza classi, dai primi del Novecento, soprattutto per merito di Lenin e degli esponenti bolscevichi del Partito socialdemocratico operaio russo, a sinistra si affermano i gruppi del comunismo contemporaneo, decisi a respingere qualunque compromesso coi nuclei borghesi e pronti a utilizzare il conflitto mondiale, per trasformarlo in una gigantesca guerra civile, con cui portare alla vittoria il proletariato internazionale. Questo obiettivo si realizza solo in parte; infatti in Russia la Rivoluzione d'Ottobre del 1917 distrugge lo zarismo e il proletariato, guidato dal partito comunista, arriva a conquistare il potere. Nel 1919 a Mosca nasce la III Internazionale, o Internazionale comunista, che si propone di utilizzare il modello del comunismo sovietico per ottenere anche negli altri Paesi uno sviluppo rivoluzionario, con cui realizzare un comunismo mondiale. Ma la tragedia dello spartachismo di K. Liebknecht e R. Luxemburg in Germania e il fallimento dell'esperienza ungherese di Béla Kun segnano un'improvvisa battuta d'arresto al diffondersi del comunismo. Anzi, la morte di Lenin (1924) accentua anche fra i bolscevichi il contrasto fra il programma della “rivoluzione permanente”, difeso da L. Trotzkij, e la politica del “socialismo in un Paese solo”, che troverà in J. V. Stalin il massimo teorico e sostenitore e si realizzerà attraverso un sistema di economia collettivistica sulla base dei famosi “piani quinquennali”. Col prevalere della linea staliniana, che assicura il monopolio del potere nelle mani del leader georgiano e impone una ferrea disciplina di partito, culminante nel drastico divieto di qualunque dissidenza interna, anche a costo di massicce repressioni (le famose “purghe” degli anni Trenta), il modello ufficiale del comunismo contemporaneo finisce per identificarsi con la politica dell'URSS, che assurge a Stato-guida anche verso tutti gli altri partiti comunisti. Almeno fino alla seconda guerra mondiale, lo sforzo per il consolidamento del comunismo sovietico si accompagna, anche fuori dell'URSS, alla lotta contro il nazifascismo, che condiziona la strategia di ogni partito comunista, imponendogli la politica di alleanza coi partiti socialisti e coi gruppi più avanzati della borghesia (i cosiddetti “fronti popolari”). Ma, dopo la fine del conflitto, col processo di decolonizzazione nei Paesi afroasiatici e coi nuovi rapporti di equilibrio internazionale, l'URSS, che pure aveva contribuito massicciamente a portare al potere i partiti comunisti nell'Europa orientale (DDR, Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia), comincia a veder criticato e respinto il ruolo di Stato-guida; e la vittoria di Mao Tse-tung, che proclama la Repubblica Popolare Cinese (1949,) serve di inizio a un “nuovo corso” nelle vicende del comunismo mondiale, che, dopo il XX Congresso del Partito Comunista Sovietico e la famosa destalinizzazione (1956), cerca di affermarsi e consolidarsi all'insegna delle “vie nazionali”. Il dissidio russo-cinese, iniziato nel 1955, diventa rivelatore per cogliere le due strategie che, a partire dagli anni Sessanta, dividono i partiti comunisti. Da un lato stanno i partiti (in prevalenza europei) che rimangono fedeli a Mosca e considerano la coesistenza pacifica l'unica possibilità efficace per rispondere alla sfida del capitalismo; dall'altro lato stanno i partiti comunisti (soprattutto quelli del Terzo Mondo) che si richiamano al comunismo cinese e perseguono un programma di “rivoluzione ininterrotta” per ottenere il trionfo del comunismo nel mondo. Quest'ultima posizione peraltro perde sempre più terreno; la morte di Mao (1976) in un certo senso le è fatale. Problemi in seno al movimento comunista d'osservanza sovietica creano però negli anni Settanta anche i maggiori partiti comunisti europei, segnatamente quelli italiano e spagnolo, propugnatori del cosiddetto “eurocomunismo”, basato sul ripensamento del nesso democrazia-comunismo e sulla conseguente valutazione critica dell'esperienza russa. Benché sostenuto, oltre che dai comunisti italiani e spagnoli, anche dai partiti comunisti francese, belga, svizzero, greco (dell'Interno, nato da una scissione del KKE, il partito comunista greco), olandese (già da tempo autonomo dall'URSS) e, al di là dell'Europa, dai partiti comunisti giapponese, australiano e messicano, l'eurocomunismo entra ben presto in crisi e finisce per scomparire a causa dell'assenza di una strategia comune, delle divisioni tra i suoi esponenti, delle fratture e scissioni provocate o sostenute dal PCUS in seno a diversi partiti comunisti europei. Unico a proseguire una riflessione critica, già da tempo avviata, è il PCI che avanza l'idea di una “terza via” alternativa sia all'esperienza sovietica sia a quella delle socialdemocrazie europee, giungendo così allo “strappo” del XXVI Congresso (1983), con la dichiarazione del segretario E. Berlinguer circa l'“esaurimento della spinta propulsiva” della Rivoluzione bolscevica. Ma è con gli anni Ottanta che il panorama cambia radicalmente. La salita al potere di Gorbačëv (1985) modifica in profondità gli equilibri politici mondiali. Si delinea una nuova fase dei rapporti Est-Ovest, con incontri al vertice tra URSS e USA che segnano la fine del contrasto esasperato tra i due Paesi e aprono nuove prospettive di collaborazione e di riduzione degli arsenali militari. Anche all'interno del “campo socialista” si apre un processo che induce cambiamenti profondi che condurranno, alla fine del decennio, al crollo del socialismo reale. Le parole d'ordine glasnost (trasparenza) e perestrojka (riforma) scuotono la società sovietica e mettono a nudo le insufficienze economiche e politiche di quel modello; lo stesso ruolo guida del partito (PCUS), sancito dalla Costituzione, viene messo in discussione (1990) aprendo una stagione politica di relativa liberalizzazione. L'accavallarsi di spinte centrifughe, con la richiesta di indipendenza di varie Repubbliche, la radicalizzazione di un'opposizione democratica sempre più insofferente alle resistenze degli apparati politici ed economici, il rapido deteriorarsi delle condizioni di vita delle masse popolari: tutto contribuisce a un'accelerazione della crisi. Nell'agosto 1991, un tentativo di colpo di Stato da parte dei conservatori del partito e del governo, fermato dalla decisa reazione popolare e delle forze democratiche guidata da B. N. Elcin, determina, all'indomani del fallito golpe, lo scioglimento del PCUS, che prelude alla disgregazione della stessa Unione Sovietica, consumatasi alla fine del medesimo anno. Nei Paesi dell'Est europeo il processo di revisione favorito dall'era gorbaceviana culmina nel 1989 con un sostanziale ripudio dei precedenti regimi: in Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia i partiti comunisti perdono il privilegio di ruolo guida e si afferma la democrazia; il crollo del regime nella Germania Orientale determina la fine della divisione di quella nazione sancita a Yalta; in Romania, dove il regime di Ceausescu si era mostrato refrattario a ogni novità, una ribellione popolare rovescia il dittatore che viene giustiziato; in Bulgaria (1990) e in Albania (1991) pur rimanendo, in un primo momento, al potere i partiti comunisti più o meno trasformati, si hanno elezioni libere che confermano l'esistenza di una forte opposizione democratica, risultata poi vincitrice in entrambi i Paesi alle successive elezioni politiche. La ventata di democratizzazione non può certo risparmiare la Iugoslavia, nonostante l'estraneità di quel regime al blocco sovietico. La crisi del comunismo balcanico innesca, però, un meccanismo di sgretolamento della Federazione iugoslava con l'esplodere di istanze nazionaliste che portano alla formazione di Stati indipendenti, ma a prezzo di una cruenta guerra civile che oppone le varie etnie presenti nella regione. A questo processo di disfacimento del comunismo mondiale, fanno eccezione le esperienze di Cuba, della Corea del Nord, del Viet Nam, della Cina Popolare. In realtà, anche in quei Paesi, seppur con diverse motivazioni e modalità, il comunismo presenta alcuni elementi contraddittori. Un esempio emblematico in questo senso è fornito dalla Cina, dove il partito comunista al potere si mostra insensibile a ogni istanza di democrazia, stroncando con una sanguinosa repressione il movimento di piazza T'ien-An-Mên (1989). Ciò non impedisce, tuttavia, l'accelerazione di un processo di modernizzazione economica basata su aperture sempre più ampie al libero mercato.

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