Lessico

Sf. [sec. XIX; etim. incerta]. Associazione a delinquere formatasi in Sicilia ma ormai diffusa in tutto il mondo. Per estensione, consorteria di persone che mirano a mantenere in una qualsiasi comunità sociale una posizione di potere e di privilegio, ricorrendo spesso a mezzi illeciti e disonesti; anche corruzione, malcostume: la mafia del sottogoverno; meno comune, eleganza ostentata, boria.

Cenni storici: il periodo prima dell'Unità

Il termine mafia, dall'etimologia molto incerta, per alcuni deriva dall'arabo maḥias (millanteria), per altri dal toscano maffia (miseria); mentre lo studioso del folclore G. Pitré lo ricava dal vocabolo del gergo palermitano in uso nel rione di Borgo, che in origine significava bellezza, coraggio, superiorità. Dopo il 1863, sulla scia del dramma dialettale I mafiusi di la Vicaria di G. Rizzotto, il termine mafia entrò nell'accezione di uso comune, mentre venne usato solo nel 1865 dal prefetto di Palermo, Gualterio, nel suo significato di indicare un'insolita forma di associazione a delinquere. Del tutto fantasiosa è invece l'interpretazione di mafia come acrostico di Mazzini Autorizza Furti Incendi Avvelenamenti. Due sono così i contenuti diversi – ma fra loro in stretta correlazione – definiti dal termine: lo “spirito della mafia” e l'organizzazione delittuosa. Lo “spirito della mafia” indica una mentalità, un modo particolare di concepire i rapporti sociali in base a uno stato d'animo di eccessivo orgoglio, di prepotenza e superbia, secondo cui per essere veri “uomini d'onore” bisogna far valere le proprie ragioni contro i torti subiti senza ricorrere alle autorità costituite e alla giustizia ufficiale, intervenendo direttamente e senza scrupoli morali con ogni mezzo: dal duello rusticano all'agguato con la lupara. Lo “spirito della mafia” poggia su un codice d'onore, non scritto ma egualmente rispettato, retto da due regole inderogabili: l'omertà, che impone a tutti, vittime comprese, il più assoluto silenzio con le autorità di polizia, e l'avvertimento preliminare dell'avversario nel “regolamento di conti”. L'organizzazione delittuosa non sarebbe che una conseguenza pratica di tale mentalità. Nel sistema feudale era costume pensare direttamente alla propria difesa e alla difesa dei propri interessi, o ricorrere ad armati assoldati, cui gli stessi Borbone avevano poi fatto ricorso in funzione reazionaria per scoraggiare moti e insurrezioni. In Sicilia, dopo il crollo dell'ordinamento feudale nel 1812, i braccianti e i contadini vennero a trovarsi in condizioni ancor più disagiate. Le terre a loro disposizione, quelle che i grandi proprietari dovettero cedere ai Comuni, furono le più sterili. Dilagò il brigantaggio e il governo non trovò di meglio che costituire compagnie d'armi per tutelare l'ordine. I proprietari terrieri rinunciarono a vivere nelle loro terre e le affidarono ai gabellotti, cioè a degli affittuari, i quali assoldarono a tutela dei loro beni i campieri. La mentalità feudale continuava a vivere nei suoi istituti più deteriori, al punto da creare vassalli e valvassori, perché il gabellotto a sua volta poteva subaffittare (o dare a subgabella) il fondo, i cui frutti servivano per soddisfare gente improduttiva fino a ridurre alla miseria chi, ultimo, aveva il compito di lavorarla e farla produrre. Con l'andar del tempo la protervia del gabellotto si accentuò al punto da farlo agire da signorotto, con seguito armato, per incutere rispetto e timore, inasprendo l'istintivo odio di una popolazione in grandissima parte dedita all'agricoltura.

Cenni storici: dall'Unità al secondo dopoguerra

Né l'annessione della Sicilia al Piemonte (1860) significò maggior giustizia per il popolo. L'ignoranza dei costumi locali da parte dei tutori dell'ordine, l'istituzione del servizio obbligatorio di leva, l'avversione e il disprezzo dei funzionari statali per una regione arretrata, l'ingordigia del fisco che, anziché investire il ricavato dei benefici per migliorare le condizioni dei lavoratori, badava a rinsanguare le casse dello Stato, furono cause di rivolta contro i nuovi padroni, contro la nuova borghesia, contro il disinteresse per il dilagante sfruttamento dei poveri. Nacquero sommosse, ribellioni e repressioni che radicarono sempre più nella maggioranza la convinzione che l'autorità dello Stato si sostituiva alla prepotenza dei signori locali solo negli aspetti più odiosi dello sfruttamento. La mafia si pose allora più che mai come organismo sostitutivo dell'ordine legale. Essa si propose non solo di creare, ma di conservare un ordine basato su un codice tacito ma ferreo. E almeno per quanto attiene alla Sicilia più che di una crisi si poteva parlare di inesistenza di un moderno Stato di diritto, anche perché là dove esistevano i poteri pubblici erano remoti e squalificati. Lo “spirito della mafia” degenerò in un vasto fenomeno di criminalità organizzata, basato su una fitta rete di complicità e caratterizzato da una lunga serie di ricatti, violenze e delitti a sfondo economico. È appunto da tale degenerazione dello “spirito della mafia” – secondo quanto sostenuto dai primi più profondi studiosi del fenomeno, Franchetti, Colajanni, Mosca e altri – che si formarono le cosche mafiose, piccoli gruppi senza struttura fissa, composti da 10-12 persone di bassa estrazione sociale, guidati da due o tre personaggi “autorevoli” della piccola-media borghesia, e specializzati nel portare a termine estorsioni, ricatti e sequestri di persona ai danni di proprietari fondiari e di contadini per convincerli ad accettare condizioni onerose in cambio di protezione e garanzia di sicurezza per le proprietà. Durante il Risorgimento, la mafia assunse anche un ruolo politico-sociale determinante; prima come alleata dell'aristocrazia e dell'alta borghesia schierate su posizioni antiborboniche; poi come mezzo di ascesa economica e politica degli stessi ceti borghesi in quanto strumento nelle loro mani per reprimere le masse popolari contadine e bracciantili. Lo Stato avvertì il pericolo di un fenomeno che andava dilatandosi. Il ministro degli Interni G. Cantelli nel 1874 chiese per il governo poteri eccezionali e si arrivò soltanto a una prima inchiesta parlamentare (1876), cui fece seguito nello stesso anno l'altra, più famosa inchiesta, di L. Franchetti e G. Sonnino. Ma da allora anche i risultati di simili inchieste finirono per apparire deformati perché il potere della mafia assunse le forme più diffuse e tentacolari, fino a coinvolgere non pochi centri dell'apparato politico. Il colpo più duro l'organizzazione lo ricevette dal prefetto Cesare Mori (si veda il suo volume Con la mafia ai ferri corti) durante il periodo fascista; anche se nell'azione repressiva vennero colpiti e sottoposti a processo incolpevoli oppositori del regime. Mancarono però ancora una volta la capacità e la volontà politica di eliminare le cause della mafia e il crollo del fascismo riaprì le porte del potere e dell'ascesa politica a una classe che con la mafia aveva modo di prosperare anche nel sottogoverno. Schieratasi in appoggio al Movimento per la Sicilia Indipendente, la mafia si valse di uomini come Salvatore Giuliano, che agì in funzione repressiva, antipopolare, fino a organizzare la strage di Portella della Ginestra (maggio 1947) in cui i picciotti massacrarono i braccianti convenuti a festeggiare il 1º maggio.

Cenni storici: il periodo repubblicano

Si era intanto sviluppata anche una nuova mafia, alimentata dagli "indesiderabili" italo-americani, che dopo essere stati espulsi dagli USA erano sbarcati in Sicilia a cominciare dal 1943. Le trasformazioni economiche e sociali avvenute nell'isola, dilatando il campo di azione della mafia al commercio, ai lavori pubblici (concessioni edilizie, appalti), al traffico della droga e al controllo della prostituzione e dei locali notturni, l'hanno portata a diffondersi anche sul continente. Sono così venuti alla ribalta nomi come Lucky Luciano e Luciano Liggio, rompendo un costume che aveva sempre voluto la mafia nell'ombra. Attraverso sanguinose lotte intestine, le vecchie cosche mafiose, occulte e clandestine, furono soppiantate da nuove leve più violente e proterve, che sfidarono le istituzioni democratiche con feroci imprese criminose. I crescenti sospetti di "coperture" politiche alla mafia non smisero di stimolare la risposta del Parlamento: fin dal 1962 fu istituita un'apposita commissione d'inchiesta (Antimafia), che tuttavia solo nel 1973 poté pubblicare gli atti dei suoi lavori. Negli anni Ottanta, nonostante il rilancio della Commissione parlamentare antimafia e la costituzione di un Alto Commissariato (1982), le cosche mafiose continuarono a colpire con ferocia chiunque si opponesse alle loro trame: uomini politici, investigatori, magistrati, imprenditori, semplici cittadini. Il dilagare di tali attività criminose determinò nell'opinione pubblica la richiesta di una più decisa azione dello Stato. Lo stesso presidente della Repubblica intervenne nei confronti del governo, ma ai primi provvedimenti tesi al rafforzamento degli apparati le cosche risposero con l'assassinio del giudice Rosario Livatino (22 settembre 1990). La crescente pressione dell'opinione pubblica costrinse le istituzioni a varare provvedimenti più efficaci anche in considerazione del fatto che il muro omertoso, caratteristico del fenomeno mafioso, iniziava a mostrare vistose crepe. Nel dicembre 1991 venne varata la Direzione investigativa antimafia (DIA), mentre nel gennaio 1992 prese il via la Direzione nazionale antimafia (DNA), la "superprocura" incaricata di coordinare tutte le indagini giudiziarie relative alla mafia. La reazione delle cosche non si fece attendere e il 23 maggio, in un attentato, perse la vita Giovanni Falcone, un simbolo della lotta alla mafia, che cadde insieme alla moglie e a 3 agenti di scorta. Dopo nemmeno due mesi (19 luglio) un altro prestigioso esponente del pool antimafia di Palermo, Paolo Borsellino, rimase ucciso insieme a 5 uomini di scorta. La strategia della mafia, per quanto efferata, si dimostrò alla lunga controproducente, perché lo scalpore suscitato dai due tragici attentati accelerò il processo di riorganizzazione degli apparati dello Stato preposti alla lotta alle cosche. Anche il fenomeno del pentitismo, supportato da una nuova legislazione favorevole, consentì alle forze dell'ordine di penetrare nei segreti di Cosa nostra e di assestarle duri colpi culminati con la cattura del superlatitante Salvatore Riina (15 gennaio 1993), sospettato di essere il più potente dei capi dell'organizzazione mafiosa e, dopo oltre due anni, del cognato Leoluca Bagarella. Ma nella seconda metà degli anni Novanta proprio sul problema dei collaboratori di giustizia si sviluppava un acceso dibattito cui non erano estranee anche le laceranti divisioni del quadro politico. Come tutta la legislazione “d'emergenza”, anche quella premiale (cioè che garantiva ai collaboratori di giustizia un programma di protezione) non era priva di contraddizioni, tanto più che le cosche mafiose duramente colpite, ma non ancora definitivamente sconfitte, avevano tentato di neutralizzare l'“esercito” dei pentiti con infiltrazioni. In particolare, le polemiche di una parte del mondo politico e dell'opinione pubblica si appuntavano sul fatto che non fosse giusto pagare il costo di un programma di protezione nei confronti di persone resesi responsabili di orrendi crimini e, comunque, non sempre credibili. La polemica si faceva più intensa non solo nei confronti di quei collaboratori che tendevano a svelare i passati intrecci tra mafia e politica, ma investiva anche i magistrati che, sulla base di tali dichiarazioni, istruivano processi contro eminenti personalità della politica italiana. Si sviluppava, in tal modo, una vivace dialettica che, indipendentemente dalla validità e dalla limpidezza delle posizioni espresse, rischiava di generare un clima di sfiducia nei confronti degli apparati preposti alla lotta alla mafia. La consapevolezza che la battaglia era ancora lontana dalla conclusione e che occorreva mantenere la necessaria determinazione nel salvaguardare la sostanza di quel complesso di norme e strutture attivate all'inizio degli anni Novanta per una definitiva sconfitta della mafia finiva con il prevalere. In tale quadro, ribadendone l'essenzialità della funzione, le norme sui collaboratori di giustizia venivano riviste per quelle parti che l'esperienza aveva mostrato come contraddittorie, in particolare stabilendo tempi più certi per le “confessioni” e un maggior controllo sull'affidabilità e i comportamenti di quanti usufruivano del programma di protezione. Gli anni Duemila hanno visto alcuniimportanti successi dello Stato nella lotta allamafia, con gli arresti “eccellenti” di Bernardo Provenzano (aprile 2006) e di Salvatore Lo Piccolo (novembre 2007), eredi di Riina al vertice di CosaNostra.

D. Dolci, Inchiesta a Palermo, Torino, 1957; D. Novacco, Inchiesta sulla mafia, Milano, 1963; G. Pitrè, Storia della mafia, Milano, 1963; M. Pantaleone, Mafia e politica, Torino, 1964; idem, Mafia e droga, Torino, 1966; S. Gambino, La mafia in Calabria, Reggio di Calabria, 1971; H. Hess, Mafia, Bari, 1973; O. Barrese, I complici. Gli anni dell'Antimafia, Milano, 1974; G. Falcone, M. Padovani, Cose di Cosa Nostra, Milano, 1992; D. Gambetta, La mafia siciliana, Torino, 1992.

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